A dicembre del 1919, è il settimanale “L’Assalto”, che può essere considerato il primo giornale fascista fiorentino, a fare il punto di situazione del movimento mussoliniano, dopo la batosta elettorale.
Il giornale, diretto da Marcello Manni, che si avvale di un nutrito gruppo di qualificati collaboratori, tra i quali Filippo Tommaso Marinetti, Eugenio Coselschi e Ezio Maria Gray, nonostante abbia un occhio particolare alla questione adriatica che il tavolo della pace ancora non riesce a concludere, non per questo trascura la politica interna.
Pubblica, infatti, un pezzo che, con riferimento agli incarcerati del capoluogo lombardo dopo le violenze post elettorali, si intitola “Noi delinquenti”, e, nella chiusa, rilancia l’ottimistica sfida degli ex combattenti contro la nutrita rappresentanza parlamentare socialista e la tolleranza nittiana:
I centocinquanta dell’estrema sinistra evidentemente turbano i sogni del “basilisco”, ed è naturale che egli cerchi di ingraziarseli a prezzo delle nostre teste pur di conservare il Governo con i consensi dei fanatici di Lenin. Noi serviamo soltanto per essere nominati nei discorsi delle grandi occasioni ed ammanettati il giorno dopo.
Ma è questo che ci rende alteri e tranquilli; così non sono possibili confusioni di ibridi contatti perché così si segna una linea precisa di purezza fra la nostra delinquenza generosa e civile che attinge a quella di Garibaldi e di Mazzini, e la loro delinquenza malvagia e parricida che li accomuna al vomito delle galere aperte.
Non abbiamo paura, noi, che siamo vittoriosi in eterno come la vittoria d’Italia. (1)
Aldilà delle orgogliose affermazioni del giornale, il 1920 non inizia, però, sotto i migliori auspici per il Fascio fiorentino. Dopo Gastone Gorrieri, Pietro Carrer e Eduardo Frosini, che si sono avvicendati al comando in pochi mesi, tocca a Fernando Agnoletti provare a rimettere in sesto la baracca.
Ma non è una scelta felice, come i fatti subito dimostreranno.
Più che quarantenne, in un ambiente di giovanissimi fatti uomini dalla guerra, intellettuale di carattere mite in un ambiente di “uomini di mano” (o, perlomeno, aspiranti tali), egli è anche Segretario dell’Associazione Nazionale Combattenti, e questo, che doveva essere un punto a suo favore, si rivela, invece, un handicap.
Per forza di cose, è portato a privilegiare i 7.000 iscritti dell’Associazione (della quale cura anche il giornale) rispetto ai cinquanta (e forse meno) superstiti del Fascio, anche perché a fargli ombra c’è sempre il primo Segretario, Gorrieri, che è rappresentante toscano nel Comitato Centrale del Movimento ed ha con Milano una comunicazione privilegiata.
Infatti, è a lui che il 26 gennaio si rivolge brusco Umberto Pasella: “Desidereremmo da te precise notizie circa la vitalità del Fascio di Firenze, di cui non si ha più notizie. È morto o è vivo?”
Lui se la cava furbescamente, parlando di “encefalite letargica dovuta alla mancanza di collaborazione da parte di alcuni consiglieri”, e cerca di rimediare con la notizia (rivelatasi poi abbastanza fasulla) della costituzione di un Fascio a Montevarchi e della fondazione di un suo “Partito del lavoro” che va a gonfie vele, e per il quale chiede un aiuto finanziario.
La più che ovvia risposta negativa alla incomprensibile richiesta di soldi per un potenziale concorrente, raffredda i suoi entusiasmi, e lo porta ad estraniarsi dalla vita del movimento, insieme ad Agnoletti stesso, che addirittura propone lo scioglimento del Fascio cittadino, i cui compiti, a suo avviso, possono essere assicurati dall’Associazione Nazionale Combattenti.
Nella sede di piazza Ottaviani, in queste settimane si affacciano un po’ tutti, compresi molti giovani desiderosi di azione. Poco possono fare, ma ci mettono impegno.
“Studenti-crumiri”, come li chiameranno con disprezzo gli avversari, assicurano, in particolare, il parziale funzionamento dei servizi pubblici (Posta, Trasporti urbani, Ferrovie) che, con gli scioperi proclamati a raffica, provocano gravi disagi alla popolazione. Ne nascono scazzottate non sempre felicemente concluse per gli ardimentosi giovanotti:
Si può fare il “crumiraggio” per i postini o i fattorini del telegrafo, si sa, questi sono gente colta e di lettere, ma aver voluto fare inermi la concorrenza agli uomini del fango e delle cloache, a quei Calibani degli spazzini municipali, è stata una folle sciocchezza.
Mio padre da vecchio soldato ha voluto fare il forte e ripete che per un tassello del genere in guerra non si sarebbe stati ricoverati all’ospedale, ma io mi tocco la testa e sotto la benda sento i punti che il buon dottor Filiberto mi ha dato, e penso che le donne di casa possono portare un bel cero a Santa Rita. (2)
In fondo, comunque, niente di particolarmente grave in una realtà cittadina che vede ogni giorno scene di indicibile violenza, delle quali sono spesso vittima proprio i più deboli e indifesi:
Ora la gente corre, e noi travolti con lei, per un lungo tratto, poi delle urla.
“Il pollo, piglia il pollo!”
“Pelalo!”
È un vecchio Maggiore di Sanità dai capelli grigi, ora lo stanno denudando, con un colpo gli infilano il berretto fino al mento, poi lo lanciano in aria, lo spogliano. Vola in aria la giacca, la maglia, la camicia, forse lo stanno colpendo con un coltello, perché sul corpo nudo spiccano rossi segni di ferite.
“È un venduto!”
“Voleva la guerra!”
Una cateratta d’odio si scaglia contro quel povero essere umano. Sono sbalordito da tanta ferocia. Sento una nausea profonda attanagliarmi lo stomaco. Un mare di sciacalli contro un povero essere indifeso.
Si sono stancati, ora lo trascinano per i piedi giù per via della Dogana, sanguinante, fino a che un plotone di soldati arriva a riscattarlo e a nasconderlo nell’atrio del palazzo del tribunale. (3)
Quella di Agnoletti resta, quindi, un’esperienza fallimentare di un uomo deluso, che, però, lascia il posto all’entusiasmo di un nuovo arrivato, l’impiegato ferroviario Enzo Lascialfare, che scrive a Milano, dà la sua disponibilità, e il 21 aprile riceve l’incarico di riorganizzare la Sezione del capoluogo toscano.
Viene così messo su un Direttivo provvisorio, con rappresentanti dei combattenti, degli Arditi, dei mutilati e dei giovani. Verso la metà di giugno, finalmente, una organizzazione definitiva, che vede al comando, oltre a Lascialfare, due nomi nuovi destinati a durare: l’ex Capitano di complemento Guido Carbonai, e, soprattutto, l’ex Sergente Amerigo Dumini.
In verità, se dobbiamo credere a Piazzesi, che c’era, e avrà la tessera nr. 17, la gente presente alla riunione costitutiva del rinnovato Fascio è poca, “tre sulla pedana e ventisei sulle seggiole”, ma il clima è molto diverso da quello delle consuete riunioni dei “barbogi” di Alleanza di Difesa Cittadina
L’attenzione ora si polarizza su uno di quelli della pedana, un Sergente degli Arditi, ma Carlo mi previene di non dargli troppo retta.
“L’è un po’ esaltato”.
“Esaltato? Ma questo è matto da legare”
L’Ardito sbraita che si debbono finalmente formare le squadre dell’intervento, e se al’Alleanza di Difesa Cittadina non si era riuscito a costituirle per via dei pantofolai, ora si può fare sul serio.
“Statemi a sentire, si fanno delle squadre di 8,10 uomini, però con gente che abbia…Ci si mette a capo un Ardito e così si insegna ai giovani. Come si fa? L’è presto detto: quando arriva un corteo rosso, gli si tira dentro due o tre SIPE, e, dopo il lancio, si lavora di pugnale.
O che non lo si fece sul Piave? E che ci vuole a farlo qui? (4)
L’Ardito è, con ogni probabilità, Dumini, attivissimo in questo periodo. Con lui, a darsi un gran daffare, nel marasma organizzativo che agita il panorama “antibolscevico e nazionale” in un accavallarsi di sigle e organizzazioni cui è anche difficile stare dietro, un altro ex combattente che va acquistando fama in città e che di Dumini è buon amico: Umberto Banchelli.
Sarà il caso, a questo punto, di dare qualche cenno biografico su questi due personaggi, limitato, per ora, a ciò che precede le loro prime apparizioni in pubblico.
Amerigo Dumini nasce, nel 1984, negli Stati Uniti, a Saint Louis Missouri, in una famiglia della media borghesia, con padre italiano e madre di origine inglese. La famiglia si trasferisce, negli anni dieci (la data esatta non si sa) in Italia, dove il giovanotto, nel 1913, si arruola volontario nell’Esercito. Promosso Sergente il 15 febbraio del 1915, il 24 maggio lo vede già presente sul fronte del Trentino.
All’inizio dell’anno successivo fa domanda per entrare nella “Compagnia della Morte” di Cristoforo Baseggio, vera antesignana dei futuri Reparti Arditi, dove resterà fino allo scioglimento dell’Unità, decimata nella – mancata conquista del “Trincerone del Volto (oggi Voto)”, e non più ricostituita.
Un’esperienza destinata a segnarlo per sempre, come confesserà molti anni dopo:
Io andai sotto Baseggio perché mi era sempre piaciuto correre l’avventura anche quando ero ancora un ragazzino in America. Ora avevo appena compiuto i ventidue anni e la guerra la volevo fare davvero. Ero convinto, e lo scrissi più volte ai miei genitori, che, come diceva sempre il nostro Comandante, un Ardito qualunque valeva cento uomini, ma un Ardito italiano valeva almeno mille soldati austriaci. (5)
Sarà poi ferito due volte, e rientrerà a casa mutilato (la mano sinistra anchilosata) e decorato (medaglia d’argento e Croce di guerra).
Nella “Compagnia” fa un incontro destinato ad assumere grande importanza nella sua vita, quello con Umberto Banchelli, al quale lo unisce subito una tale simpatia e comunità di idee e sentimenti da fare insieme, a guerra finita, un pericoloso viaggio nell’inquieta Albania per cercare di recuperare la salma di suo fratello, Albert Dumini, Tenente del 35° Reggimento Bersaglieri che lì era caduto l’anno prima.
Insieme o da soli, negli anni successivi saranno protagonisti della storia del primo fascismo fiorentino, anche se forse esagera un po’ il secondo quando definisce il suo vecchio commilitone “vero fondatore materiale del fascismo toscano”.
Insieme e separatamente litigheranno un po’ con tutti, finchè Dumini, costretto alla latitanza per i fatti di Sarzana, lascerà la città per trasferirsi a Milano dove entrerà in contatto con l’ambiente de “Il Popolo d’Italia”, e da ciò deriverà tutta la sua storia successiva.
Nel capoluogo toscano, invece, resterà Banchelli, tra carte giudiziarie e polemiche stradaiole che, però, non intaccheranno la sua popolarità, se è vero che il 27 ottobre del 1934, in occasione della traslazione delle salme dei Caduti della Rivoluzione in Santa Croce, sarà in prima fila tra gli squadristi presenti alla cerimonia.
Figlio di una ragazza-madre (il che all’epoca non era una carta di presentazione positiva) è stato descritto come “espressione dell’anima plebea del fascismo toscano, squadrista e popolana, ribellistica ed irregolare”, e non si può certo dire che la definizione non sia esatta.
Volontario nella Grande Guerra, combatte prima tra i volontari garibaldini nelle Argonne, e poi in Italia, inizialmente con Baseggio, come si è detto, poi sul fronte del Carso, Sottufficiale anche lui, come Dumini.
La sua natura indomita lo aveva, in precedenza, portato a combattere in Serbia nel 1908-09, in Libia nel 1911-12 e poi ancora in Serbia nel 1912, dove aveva anche raggiunto l’improbabile grado di Colonnello.
Dopo l’avventura in Albania col suo camerata, rientra a Firenze, per diventare – se il caso non decidesse altrimenti uno dei tanti reduci disoccupati alle prese con il problema della sopravvivenza quotidiana, nella fabbrichetta di impermeabili della madre.
Se proviamo ad immaginarli in giro dalle parti di Santa Croce, colpisce il fatto che insieme costituiscano una strana coppia, la cui “pericolosità” viene fuori solo al momento dell’azione. A partire dall’aspetto fisico, sul quale pure si sono accavallate nel tempo fantasie contrapposte che lasciano qualche dubbio. Molte imprecisioni e “favole” circonderanno, del resto, tutta la loro storia, compreso, per esempio, il nome stesso del primo che, contrariamente a quello che tutti fanno, andrebbe pronunciato con l’accento sulla “u”, “alla maniera toscana”.
Anche, il suo aspetto fisico resta un po’ indefinito. Secondo Maurizio Serra, è quello di “un pezzo d’uomo dal volto sfregiato”, mentre Giuseppe Mayda, nella sua biografia, parla di individuo dalla “figura tozza, solida, un po’ curva”.
Di certo c’è solo che ha la mano sinistra anchilosata ed è, a tutti gli effetti, un “invalido” riconosciuto per tali dai medici militari di solito non larghi di giudizio nell’attribuire tali qualifiche.
Ecco perché, se pure il coraggio non gli manca, probabilmente esagera l’amico Banchelli quando, pensando di fargli cosa gradita secondo certi “canoni” dell’epoca, scrive che “picchiava con un matto”. Sarà, infatti, smentito dai Magistrati del processo del ’25 che, accusando Dumini come materiale accoltellatore di Matteotti, confuteranno la sua versione di essere al volante dell’auto, proprio perché, in quanto mutilato, non poteva guidare, e per tanto tempo, una vettura.
Col mutilato – e in maniera evidente, anche a prima vista Dumini, si accompagna un altro strano tipo, “solido” anche lui, ma che, quando apre bocca, è una frana. È Banchelli, soprannominato “il Mago”, probabilmente per la sua capacità di risolvere le situazioni più intricate, che balbetta in maniera fastidiosa.
È un tipo fumantino, e, per questo nessuno glielo fa notare o si permette facili ironie, ma Piazzesi, nel suo “Diario”, in poche parole ne farà uno schizzo indelebile, raccontando di quando organizza la spedizione su Perugia del marzo del 1921: “Poi “Il Mago si mise dietro a un tavolino e prese a tartagliare, con quella sua voce a mitragliatrice…”.
Con loro, comincia a formarsi un gruppo di gente decisa, che non ha paura, e che presto avrà modo di dimostrare di cosa è capace, imponendo l’affermazione della “politica della spedizione” su quella “dell’assemblea”.
È il caso – giusto per fare due nom i di Pirro Nenciolini e Bruno Frullini. Il primo, già presente alla riunione fondativa del primo Fascio, il 18 aprile dell’anno prima, e poi sempre in prima fila, ha avuto modo di mettersi in mostra, anche grazie al fisico esuberante, nelle giornate congressuali, per poi proseguire, al suo modo, l’impegno da fascista, non di rado impulsivo e facile a perdere il controllo:
Fra i più assidui alle assemblee – ma più che altro alle azioni di piazza – era il Nenciolini. Tutti gli volemmo subito bene. Il suo carattere vivacissimo non ci dava noia. Anzi. lo conoscevamo per un buono e per un generoso. E non era possibile, in nessun caso, dubitare mai della sua sincerità, né della onestà delle sue opere e delle sue intenzioni. Non era poco!
Ma la sua attività di fascista militante non gli faceva dimenticare i suoi doveri di uomo e di cittadino. (6)
Ingegnere (il che, all’epoca, lo collocava in una ristretta élite), giornalista (fonda un giornale che chiama “La Bombarda”, ed al quale dà il pretenzioso sottotitolo “Settimanale politico di critica e battaglia ardita. Organo per la tutela degli interessi della Toscana in generale ed in particolare della Provincia di Firenze”), diventa ben presto personaggio popolarissimo a Firenze.
Dotato di un innato spirito altruista e di un forte sentimento di giustizia, in occasione dell’esplosione della polveriera di San Gervasio, ad agosto, si distinguerà nell’ opera di aiuto agli sfollati (che poi proseguirà con il sostegno in sede legale, per il riconoscimento dei danni) e, nella sua Signa, non esiterà a prendere posizione contro gli agrari, che giureranno vendetta.
L’8 febbraio del 1923 verrà ucciso a pistolettate, sulla piazza della sua città, da alcuni sicari (forse reclutati tra fascisti stessi dai predetti grossi proprietari terrieri, infastiditi dalle sue iniziative).
Tutta un’altra storia con Bruno Frullini. Nato a Firenze, classe 1892, ex combattente di professione imbianchino, nei primi mesi da smobilitato bighellona nelle strade della sua città, si unisce ai gruppi più turbolenti (c’è chi giura di averlo visto capeggiare squadre di saccheggiatori nelle giornate di luglio), annusa l’aria come molti nelle sue stesse condizioni.
Della successiva esperienza squadrista lascerà, con il suo “Squadrismo fiorentino”, vivace testimonianza sulla vigilia nel capoluogo toscano, al punto di guadagnarsi la prefazione di Pavolini.
Testimonianza forse non sempre attendibile nelle cronache, ma di sicuro affidamento nella ricostruzione dello spirito che anima quegli scalmanati in camicia nera, che rischiavano giornalmente la vita, senza però rinunciare per questo al gusto della beffa e dell’ironia.
Una caratteristica, potremmo dire, solo fiorentina. O meglio, fiorentina, in modo caratteristico, per la sua invasività, che altrove non c’è. Quasi tutti i memoriali, le cronache, e anche i romanzi “squadristi”, toccano il tasto dell’ironia, e anche dell’autoironia, ma nessuno le assegna un ruolo quasi da protagonista come nei libri di Frullini e Piazzesi.
Caratteristica tanto più degna di nota se si pensa che il primo sarà pubblicato nel 1933, quando cioè, sulla scia del “Decennale” la retorica eroicizzante aveva libero – e gradito sfogo.
Foto 1: Amerigo Dumini
Foto 2: Umberto Banchelli
NOTE
- in: Pietro Valgiusti, Documentario di una tipografia della rivoluzione fascista, Firenze 1936, pag. 44
- Mario Piazzesi, cit., pag. 96
- Ivi, pag. 62
- Ivi, pag. 73
- In: Giuseppe Mayda, Il pugnale di Mussolini, Bologna 2004, pag. 61
- Anonimo, Pirro Nenciolini, fascista fiorentino, Firenze 1923, pag. 9
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