Il Fascio di combattimento nasce a Trieste, in una città che è ancora “retrovia di un fronte”, in casa del dottor Bartolomeo Vigini, il 3 aprile del 1919, e a fondarlo sono una trentina di volenterosi, in gran parte gli stessi irredentisti che fino ad allora, e già ai tempi dell’Austria, si incontravano al centralissimo Caffè degli Specchi.
La successiva sede di riunioni sarà la sede della “Società operaia triestina”, e solo ad ottobre, praticamente in coincidenza con il primo Congresso nazionale del movimento, a Firenze, avverrà il definitivo insediamento nel palazzo Conti, in via del Pozzo Bianco 9, che era una viuzza – ora non più esistente – di Città Vecchia (“quartiere degli immigrati poveri e dei fascisti”, nella memoria popolare), che ospiterà anche Francesco Giunta, quando arriverà in città, agli inizi del 1920.
Da subito, i mussoliniani sono impegnati su più fronti. Alla campagna per l’annessione all’Italia delle terre ad Oriente, che gli Alleati di ieri ci vogliono negare, si aggiunge il contrasto al sovversivismo nazionale, che è un elemento caratterizzante della loro attività in tutta Italia, e la reazione contro lo slavismo, reso aggressivo dalla presenza in città di una forte comunità slava, in continuo aumento, con afflussi dal retroterra, già dai tempi della guerra:
Ognuno di codesti immigrati era un missionario adibito alla propaganda spicciola in favore dello slavismo, soprattutto nelle zone suburbane.
…..
Gli immigrati non avevano soltanto l’incarico di operare nei gangli della vita italiana, ma anche nelle piccole anime degli scolari delle scuole italo-slave del suburbio. Nelle scuole slave di Servola, si chiuse l’anno scolastico con un tema assai importante: “Qual è la vostra Patria? Chi dovete odiare e combattere?”
I bambini non ebbero tempo di cercare le risposte, già preparate dai loro maestri. (1)
Uno dei più significativi volantini distribuiti dai fascisti, fa leva proprio sulla sensazione di insicurezza provocata da questa presenza:
“Cittadini! Aprite gli occhi, tendete le orecchie, spiate agli usci, squadrate la gente che vi passa d’accanto. Non vedete? Non sentite? Dovunque, attorno a noi si nasconde l’insidia… Attraverso le rade maglie della linea di armistizio, o, più comodamente, con i treni espressi e le automobili, s’infiltrano e scendono nella nostra bella città torme oblique di propagandisti ben muniti di danaro e di denaro, forniti d’oro dai grandi centri di Belgrado, di Lubiana, di Zagabria… Denunziate a noi tutti quelli che offendono il nome d’Italia, tutti quelli che contro l’Italia tramano e cospirano. Noi li bolleremo come essi meritano” (1)
La situazione per i mussoliniani, però, agli inizi non è rosea:
Il fascismo triestino nacque povero. Non c’erano agrari e non c’erano industriali.
I primi contatti tra combattenti ed ex internati risalgono al mese di febbraio, ma la fondazione vera e propria si ebbe il 3 aprile 1919, pochi giorni dopo la fondazione del fascismo avvenuta nel marzo del 1919 a Milano.
Non c’erano neanche i soldi per aprire una sede, e la prima riunione fu tenuta in una casa privata.
Gli aderenti erano una trentina, e la prima giunta direttiva fu composta dal dott. Edvino Biasol, dall’avv. Sergio Damperi, e dal prof. Ruggero Conforto.
Gli attivisti erano pochi, ma instancabili e determinati, e quando, dopo una giornata di lavoro e di lotta, si ritrovavano affranti, mettevano in comune quel poco che avevano e trascorrevano qualche ora lieta in una modesta trattoria. Costituivano una piccola famiglia, ma tenace e unita. (3)
Un fascismo che ha, quindi, una particolare attenzione verso gli ultimi, senza nessuna tentazione classista (anche perché vi sono rappresentate tutte le classi), ma con superiori motivazioni ideali, perché esso:
…non fu esaltazione del manganello e della violenza fine a sé stessa, ma intervento chirurgico intelligente e necessario a risanare i gravi mali di cui soffriva la Nazione; che non si schierò a servizio dei potenti contro gli umili, dei privilegiati contro i poveri, dei padroni contro gli operai, della borghesia contro il proletariato – come da taluno si volle affermare – ma fu milizia disciplinata e cosciente, e sostenuta da un fervido spirito di sacrificio al servizio di un grande ideale.
Che fu motivo di lotta pei vivi e miraggio luminoso pei morti (4)
Di contro, gli scioperi dei cantieri navali e delle piccole realtà industriali connesse, con il contorno di violenze, non contrastate nei modi dovuti dalle Forze dell’Ordine, danno ai sovversivi l’illusoria impressione di essere alla vigilia della rivoluzione proletaria anche a Trieste.
Pure gli Slavi, la cui presenza in città è in crescita esponenziale, sì da raddoppiare i numeri dell’anteguerra, sono all’offensiva.
“Il Piccolo”, pochi giorni prima degli incidenti che culmineranno nell’incendio del Balkan, elencherà quindici Associazioni culturali slave in città. In verità, alcune di esse, come la “Narodna Delavska”, di “culturale” hanno ben poco, perché riuniscono in prevalenza manovali, ferrovieri, operai, panettieri e altra manovalanza proveniente dalla Carniola e dalla Croazia. Lo scopo nascosto sembra piuttosto essere quello di tenere “alla mano” una massa di manovra da utilizzare all’occorrenza.
Tutto ruota intorno ad un edificio polifunzionale, che ospita, oltre a varie Organizzazioni politico-culturali, un teatro, una sede della Cassa di risparmio, un caffè ed un albergo con una novantina di camere (Hotel Balkan), ed è collocato in piazza Oberdan, in pieno centro cittadino.
Si tratta di un enorme stabile, il Narodni Dom, “Casa Nazionale degli Sloveni”, costruito agli inizi del secolo, su progetto dell’architetto Max Fabiani, che assume, sin dall’inizio, un’alta valenza simbolica, come tangibile testimonianza dell’importanza e rilevanza della comunità slava cittadina.
Rilevanza particolarmente significativa in questo inizio di dopoguerra, quando Croati, Serbi e Sloveni pensano di poter approfittare, a loro vantaggio, della situazione di debolezza nella quale si trova l’Italia, sul fronte interno per le agitazioni bolsceviche, e su quello internazionale per i contrasti con gli ex soci dell’Intesa.
Come scrive un giornale panslavista di Zagabria, redatto in tedesco, l’Agramer Tagblatt, la situazione che essi immaginano è molto favorevole per loro:
L’Esercito italiano ha cessato di essere uno strumento usabile per una qualsiasi azione di guerra…L’Italia è talmente debole che non può farci accettare il patto di Londra. Essa, che si fa vincere dagli Albanesi, non ha più alcun mezzo per prendere delle misure di forza che possano riuscire contro la nostra organizzazione.
…..
Il numero superiore degli italiani non ci ha mai preoccupato; ma oggi lo squilibrio del numero è più che oltrepassato dalla qualità delle nostre truppe. Noi siamo assolutamente in grado di misurarci con gli Italiani e abbiamo meno che mai una qualsiasi ragione per fare delle rinunce (5)
Niente di strano, quindi, che il 23 aprile l’“Edinost”, il giornale che si stampa a Trieste, pubblichi un appello che, sotto il titolo “Tornate, o profughi, tornate”, dopo aver rivolto un invito al rientro degli slavi, intellettuali soprattutto, testualmente concluda: “Tornate, o profughi; la Nazione ha urgente bisogno di voi”, esplicitamente prefigurando così il distacco della città di San Giusto, appena restituita all’Italia, dal Regno dei Savoia.
Comprensibile che i due pericoli, quello del sovversivismo rosso e l’altro del nazionalismo slavo appaiano unica cosa agli occhi dei fascisti. Il primo ha dalla sua la forza del Partito Socialista vincitore delle elezioni di novembre, il secondo, ha più facce (“Nel 1920 una parte degli slavi erano camuffati da comunisti, e coi socialisti si battevano per l’idea della città libera, mentre gli altri propugnavano la frontiera dell’Isonzo” scriverà Attilio Tamaro) egualmente minacciose.
In tale quadro, il già citato Narodni Dom rappresenta un vero strumento di penetrazione sul territorio italiano, al punto che a Trieste ve ne sono anche due “minori”, a Barcola e nel quartier San Giacomo, a far corona a quello di piazza Oberdan.
Quest’ultimo rappresenta perciò, per i nazionalisti, ”obiettivo” primario da colpire, anche perché al suo interno, in appositi locali, oltre ad una attività politica e di propaganda antitaliana, si mettono in piedi vere e proprie iniziative di sovversione, per esempio con la fornitura di buoni per pernottare gratuitamente al contiguo Hotel Balkan e con l’emissione di sussidi (tra i 500 e i 1.000 dinari), da parte del Governo di Belgrado, a favore dei profughi che vengono in Italia a fare propaganda.
La tensione latente esplode il 3 agosto del 1919, quando i due avversari (socialisti e slavi) del fascismo si presentano insieme, e insieme vengono colpiti.
Quel giorno, prima in una battaglia di strada con i socialisti perde la vita il mussoliniano Carlo Polla, e poi, nella reazione che ne segue, i manifestanti si dirigono all’Hotel Balkan, dove viene imposta l’esposizione del tricolore.
A seguire, l’ira di questi proto-squadristi in piazza si rivolge contro il predetto giornale slavo “Edinost”, dove alcuni riescono a penetrare per la successiva devastazione e l’esposizione, anche qui, del tricolore.
Quasi in contemporanea, in via Acquedotto (poi via Venti settembre) viene attaccata anche una scuola slava, con annesso centro di cultura anti-italiano.
Corollario sarà l’assalto al palazzo delle sovversive “Sedi Riunite”, in via Madonnina, difesa invano da alcune centinaia di uomini armati che devono però cedere all’impeto degli attaccanti.
Una giornata di violenza, quale in città non si vedeva dal 23 maggio 1915, quando alla notizia della entrata in guerra dell’Italia, gli austriacanti (e tra essi non pochi slavi) avevano attaccato e dato alle fiamme gli edifici della “Lega Nazionale”, della “Ginnastica Triestina”, e, al terzo tentativo, de “Il Piccolo”.
Oltre a queste violenze “maggiori”, c’erano poi state le devastazioni dei caffè del centro, con fama di frequentazioni irredentiste, e il rogo di negozi e magazzini dei triestini filo-italiani e dei cosiddetti “regnicoli”, i sudditi cioè del Regno d’Italia residenti in città.
Se nel 1915 la parte “nazionale” era stata soccombente, diversamente le cose vanno quattro anni dopo, anche se è troppo presto per parlare di un capovolgimento della situazione.
Vincitori sul campo, i fascisti, infatti, restano però “compressi” dalle due già accennate forti minacce, socialista e slava, al punto che individuano una valvola di sfogo e proselitismo nella battaglia per il ricongiungimento di Fiume all’Italia.
E’ così che la città, e la sede fascista in particolare, diventano punto di approdo per i volontari che già in agosto cominciano ad arrivare per partecipare a quel “qualcosa” che è nell’aria, anche se nessuno sa bene di cosa si tratti e chi sarà il Capo.
Ne deriva, nei mesi a seguire, tutto un fiorire di iniziative ed attività di ogni tipo, al punto che Umberto Pasella, segretario nazionale dei Fasci, nella sua relazione al Congresso fiorentino di novembre, citerà Trieste, insieme a Milano, Torino e Roma, come “centro di attività meravigliosa”, ricevendo il caloroso applauso della sala.
Hanno, insomma, i triestini, ben motivo di essere soddisfatti per il primo rendiconto della loro presenza. Ma la partecipazione all’assise fiorentina, è anche foriera di altri esiti, se pur al momento imprevedibili:
Nel congresso di Firenze, i delegati triestini avevano avuto modo di ammirare uno dei congressisti che particolarmente era emerso per la robustezza della sua dialettica oratoria e per la generosità del suo animo di entusiasta: l’avvocato Francesco Giunta, fondatore e presidente dell’Associazione dei Combattenti in Firenze, fascista ardentissimo delle prime giornate. Si pensò a lui come alla persona che sola sarebbe stata capace, per le sue varie virtù di combattente e di uomo di pensiero e di azione, dallo spirito alacre, vigoroso e deciso, di poter comandare il Fascio triestino e condurlo, con sicurezza e senza soste, a quella efficienza e potenza combattiva che il particolare momento storico della Venezia Giulia reclamava come necessaria. (6)
FOTO 1: Trieste, cartolina anni ‘20
FOTO 2: Documenti dello squadrismo triestino
NOTE
- In: Michele Risolo, Il fascismo nella Venezia Giulia, Trieste 1932, pag. 52
- Ibidem, pag. 54
- Giorgio Almirante e Sergio Giacomelli, Francesco Giunta e il fascismo triestino, 1918-1925 dalle origini alla conquista del potere, Trieste 1983, pag. 5
- Francesco Giunta, Essenza dello squadrismo, Roma 1931, pag. 6
- In: Sergio Siccardi, La falsa verità sul Ten. Luigi Casciana, Trieste 2010, pag. 10
- Michele Risolo, cit., pag. 13