Giunta, volontario in guerra e Capitano dei Granatieri al fronte, è un altro di quegli specialissimi temperamenti forgiati dal conflitto, che nel clima del dopoguerra trovano modo di emergere. Anche, se necessario, andando per le spicce, e in modi apparentemente inaspettati.
Non può stupire più di tanto, quindi, la storia, raccontata da uno scandalizzato Salvemini – e poi ripresa da altri – che lo vede protagonista delle giornate di agitazione contro il caroviveri, a Firenze, già nel luglio del 1919:
Pure, quando la notizia dei moti di Forlì apparve sui giornali del 2 luglio, non furono i massimalisti ad incitare la folla alla “azione vera e risolutiva”; fu quello stesso nazionalista, Giunta, che a Roma pochi giorni prima aveva cercato di sollevare i combattenti contro il Governo. La sera del 2 luglio, in una adunanza di combattenti, agitando un paio di scarpe, gridò di averle pagate 48 lire, eccitando i compagni a saccheggiare i negozi. La mattina del 3 luglio, il quotidiano ultraconservatore di Firenze, “La Nazione”, dedicò due colonne a descrivere la rivolta “disciplinata” di Forlì, Faenza, Imola e altre località, e mezza colonna ad attaccare violentemente profittatori di guerra. (1)
Con questi precedenti, presto risaputi nell’ambiente che intorno ai Fasci si va coagulando, appare normale che l’energia e la capacità “di agire” che dall’ex Granatiere si sprigiona, evidenti anche al Congresso fiorentino, abbiano fatto impressione sui triestini presenti.
Ecco il motivo principe del suo trasferimento in città, agli inizi del 1920, dove si muove, da subito, a favore di Fiume, e instaura una originale forma di collaborazione “operativa” con la città olocausta. D’Annunzio non manda uomini, come ha fatto per Milano, a novembre, quando ha “prestato” a Mussolini nuclei di Arditi a sostegno di una campagna elettorale che i sovversivi vogliono rendere impossibile, ma, quando occorre e richiesto, interviene in altro modo.
Nelle giornate di agitazione e sciopero, alcuni Legionari, non triestini, e quindi non conosciuti da nessuno, raggiungono la città, e, dimessamente vestiti, con vistosi fazzoletti rossi al collo e garofani all’occhiello, si accodano ai cortei e ne sorvegliano discretamente l’andamento, pronti a dare l’allarme se la direzione presa e la presenza di armi lasciano intendere propositi di sollevazione.
Trieste ha, per il Poeta, un’importanza fondamentale, al punto di spingerlo a mandare suoi delegati in città per organizzare il primo atto di una futura marcia all’interno:
Miani e Mazzuccato erano stati urgentemente inviati a Trieste da d’Annunzio per prendere contatti con l’ambiente nazionalista e promuovere la prima sommossa, ma erano rientrati a Fiume senza aver potuto organizzare nulla. E le motivazioni erano chiare, come ebbe a ripetere, in una lettera al Comandante del 28 settembre Piero Pieri, delegato del Fascio di Combattimento triestino e Presidente del Comitato pro Fiume. (2)
Quali siano queste motivazioni è presto detto: il formidabile ostacolo rappresentato da una massa bolscevica forte di 30.000 aderenti in città, e da una comunità slava non doma, che complotta per l’annessione, cui corrisponde un Fascio “appena nel suo periodo di organizzazione”.
Giusta prudenza, forse suggerita anche dalle valutazioni più propriamente politiche che lo stesso Mussolini fa – e continuerà a fare – sulle possibilità di riuscita di una “marcia verso l’interno”.
È per questo, per cominciare a ribaltare la realtà locale, che il 12 maggio del 1920, in occasione dell’assemblea generale del Fascio, vengono creati i presupposti per l’organizzazione delle prime squadre d’azione, che faranno loro il motto coniato da D’Annunzio per il gagliardetto di un Reparto di mitraglieri legionari a Fiume: “me ne frego”.
Passano pochi giorni e le nuove formazioni fanno la loro apparizione in città:
Il Fascio di Trieste si era finora mantenuto nella legalità, svolgendo un’azione fiancheggiatrice alla gesta fiumana, e capeggiando tutta la gente giuliana nella lotta per protestare contro l’imposizione dell’iniquo confine a dieci chilometri dalla città
Ma il 24 maggio del 1920 cambiò tattica, e decise di commemorare l’anniversario della guerra, tanto più che i comunisti (vedi slavi) non lo avrebbero permesso.
Fu in questa occasione che creammo la prima squadra d’azione clandestina, al comando del Capitano Benvenuti. Entrammo in teatro alla spicciolata, senza musica e senza bandiere; un discreto pubblico ci attendeva, quasi tutto composto da soci del Fascio e da quei cittadini che avevano sfidato le minacce dei social-comunisti. (3)
Ogni squadra è formata da 30 a 50 elementi, è guidata da un ex Ufficiale ed ha assegnata la sorveglianza e la difesa di una zona della città, che è stata divisa in distretti, con criteri militari
L’armamento individuale è il più vario. Dal bastone alla sciabola, dalla pistola alla bomba a mano. Nelle occasioni di mobilitazione, la riunione degli uomini così “armati” è fissata nelle palestre di alcune scuole cittadine (mentre il Comando è stabilito in via del Pozzo Bianco), da dove poi gli squadristi muoveranno sugli obiettivi assegnati.
Sono questi gli uomini che cominciano a vedersi in giro in città, in minacciosi cortei che, ostentando i suddetti, assortiti armamenti, se ne vanno cantando:
“Se non ci conoscete / sentite o triestini / noi siamo gli squadristi / di Benito Mussolini
Se non ci conoscete / guardateci la veste / noi siamo gli squadristi / del Fascio di Trieste”
Folclore, certo, ma che non esclude che la suggestione dell’esperienza bellica sia forte all’interno delle squadre. Vengono, infatti, prese precauzioni sussidiarie, come l’uso di un codice speciale per comunicare, e l’adozione di una parola d’ordine che varia di mese in mese. Anche la tessera del Fascio, per evitare contraffazioni ed infiltrazioni, è contrassegnata sul retro con una stella a cinque punte, non riproducibile.
Con questi espedienti, i fascisti vogliono evitare di restare vittime di provocatori e spie poliziesche, mentre non hanno remore a rendersi ben riconoscibili, ed individuabili per nome e cognome, quando si determinano a scendere in piazza.
Il 24 maggio, nell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia, la loro sfilata in corteo darà origine solo a qualche limitato incidente, ma servirà a far rivivere alla città intera l’atmosfera dei tempi migliori, quella delle prime settimane dopo il 4 novembre, che sembrava dimenticata.
Soprattutto, i cittadini capiranno che da questo momento in poi c’è lo “strumento” per opporsi alle prepotenze sovversive e slave e per fornire, se richiesto, anche l’avanguardia di un aiuto armato al Poeta, a Fiume.
Altre manifestazioni fasciste si avranno nei giorni seguenti, il 26 e il 30, in segno di protesta per i fatti di Roma, dove la sbirraglia nittiana prima ha aperto il fuoco contro un pacifico corteo di nazionalisti e studenti dalmati, e poi ha tratto in arresto un gran numero di giovani.
A far quasi da contraltare, e per tenere vivo lo stato di agitazione a Trieste, il 12 giugno si ha la rivolta “sovversiva” degli Arditi che dovrebbero raggiungere l’Albania e si rifiutano di partire. Un morto ed una quindicina di feriti sono il bilancio degli scontri che, aldilà delle motivazioni e dell’esito, aumentano l’inquietudine in una città che ormai sembra quasi aspettarsi che, da un momento all’altro, avvenga qualcosa di irreparabile.
Non ci sarà molto da attendere, e anche se l’iniziativa fascista sarà di risposta a quella degli avversari, dopo che ci sono state già tre vittime, e vi è della esagerazione nella postuma affermazione di Giunta (”per me il programma elettorale comincia con l’incendio del Balkan”) è indubbio che gli avvenimenti del 13 luglio, sviluppatisi anche oltre le previsioni, costituiranno il primo tassello di quella ripresa destinata a sfociare nel – sia pur ancora limitato – successo elettorale del maggio dell’anno successivo.
Prima di passare alla ricostruzione dei fatti (sostanzialmente due: gli incidenti di Spalato l’11 luglio, e quelli di Trieste il 13, con la distruzione del Balkan), una premessa è d’obbligo.
Pur essendoci innumerevoli narrazioni dell’accaduto, da esse non traspare un quadro unitario, per le molte contraddizioni e lacune che si riscontrano.
Cercheremo, perciò, di privilegiare, ove possibile, la versione fornita dalla stampa locale di quei giorni e dai documenti ufficiali, segnalando, comunque, per completezza, le discordanze e/o lacune più evidenti.
Per una piena ricostruzione degli incidenti di Spalato dell’11 luglio, nei quali persero la vita il Capitano di Corvetta Tomaso Gulli e il motorista Aldo Rossi, è necessario, però, fare prima un cenno di inquadramento generale.
Al termine della guerra, la situazione a Spalato si è fatta particolarmente difficile per i cittadini di sentimenti italiani (circa il 10%, se vogliamo fermarci al censimento “linguistico” – ma probabilmente “al ribasso” – fatto nel 1910) che ivi risiedono e che hanno firmato una petizione per l’annessione all’Italia.
Tutto nasce dal fatto che la città non è stata esplicitamente compresa nel “Patto di Londra” del 26 aprile del 1915, e nemmeno nell’Armistizio di Villa Giusti del 3 novembre del 1918, così che vive in una situazione ambigua, con i controlli accavallati dell’Ammiraglio americano Philip Andrews e di quello italiano Arturo Resio.
Ciò, mentre su di essa si appuntano le pretese del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che, tramite agenti infiltrati in città, promuove frequenti manifestazioni anti-italiane, con l’evidente scopo di creare i presupposti per una soluzione del problema favorevole alle mire del Re Alessandro Karadordevic.
Né vera opera di pacificazione fa il comitato locale che ha assunto il potere con la fine della guerra, che, invece, sente forte la pressione dei molti profughi jugoslavi che, provenendo da zone occupate dal Regno d’Italia, sono animati da sentimenti anti-italiani.
Sono loro i principali protagonisti di tutta una serie di violenze che, a partire già dal 9 novembre del 1918, vedono l’invasione di appartamenti e la distruzione di locali di proprietà di elementi visti come “nemici”, che non di rado vengono anche sottoposti a violenze.
Proprio per porre un freno a tutto ciò, agli inizi del 1919 viene inviato in porto l’ariete-torpediniere “Puglia”, destinato ad avere un ruolo importante negli avvenimenti che seguiranno.
La presenza in rada di una nave militare italiana ottiene solo parzialmente l’effetto voluto, che anzi succede che spesso i marinai – compreso una volta lo stesso Comandante Giulio Menini –, scesi a terra in franchigia, siano aggrediti.
Sarà per questo che a gennaio del 1920 lo stesso Menini, amareggiato per l’atteggiamento del Governo che non tutela opportunamente i suoi uomini, ottiene il richiesto avvicendamento, e viene sostituito, il 9 febbraio, dal Vice, Tomaso Gulli.
Un avvicendamento destinato ad avere tragiche conseguenze.
Le manifestazioni, intanto, continuano, in crescendo: il 27 giugno alcuni Ufficiali del “Puglia” che rientravano dal Gabinetto di lettura vengono assaliti a sassate, e il 2 luglio eguale sorte tocca a loro colleghi seduti al caffè “Nani”, tal che Gulli è costretto a mandare un Mas a terra per recuperarli.
Ad alimentare la tensione, si diffondono poi le false voci di un presunto imperialismo italiano, contro il quale, col progredire del tempo, si pensa anche ad un moto generale, da far scattare fra il 25 e il 26 giugno del 1920.
L’ipotesi di iniziative “imperialiste” da parte dell’Italia è, in realtà priva di ogni fondamento. È semmai vero il contrario, e cioè che il momento è particolarmente difficile il Regno. La cornice in cui matura l’incidente di Spalato, infatti, è questa:
Un sentimento anti-italiano e una posizione precaria che l’italia aveva assunto perché, oltre alle nuove proposte del memorandum di Wilson, era stata esclusa anche dal Consiglio supremo. Il memorandum del 1919 (9 dicembre) potè così essere legittimato; si poteva imporre con facilità la perdita o l’istituzione di uno Stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia. Si doveva stabilire il confine orientale, ma in realtà si trattava di una situazione molto più complessa, cioè l’assegnazione dei territori italofoni.
Comincia un periodo di mediazione tra l’Italia e gli Jugoslavi… (4)
Il moto generale, comunque, non scatterà, ma continueranno, in città i cortei di protesta. Uno di questi si svolge la sera dell’11 luglio, al termine di un comizio-conferenza del Capitano Lujo Lovric, cieco di guerra e noto agitatore, all’inequivocabile titolo, che definisce l’Italia “l’antico nemico della nostra unità nazionale”.
I manifestanti, incolonnatisi anche con la partecipazione di soldati serbi, prima distruggono – come era stato suggerito dall’oratore- le insegne del caffè “Nani”, noto ritrovo di Italiani (all’interno vi sono due Sottufficiali del caccatorpediniere “Aquila”, anch’esso ancorato a Spalato in quei giorni), e poi, visti alcuni Ufficiali del “Puglia” che sono scesi a terra per una passeggiata domenicale, li aggrediscono con ingiurie e minacce, cui seguono bastonate, mentre viene esploso anche qualche colpo di pistola.
Secondo alcune fonti, all’origine dell’aggressione un episodio che, però, viene diversamente raccontato e sembra non combaciare con la sequenza temporale dei fatti. La versione serba, infatti, vuole che due marinai avrebbero strappato una bandiera jugoslava ad una donna, portandola poi come trofeo a bordo, mentre, la versione italiana parla di una bandiera (una “piccola bandiera”, in verità) che sarebbe stata tolta ad una manifestante che, provocatoriamente la sventolava, insultando i militari.
In realtà, come dimostrato dall’inchiesta dell’Ammiraglio Resio, non pare vi sia reale collegamento tra questo episodio (avvenuto intorno alle 21,00) e l’aggressione ai Sottufficiali (21,30) stante il breve lasso di tempo intercorso, che avrebbe reso impossibile la divulgazione della notizia e l’organizzazione della conseguente “giustificata ritorsione”.
Certo è che Gulli dispone che i Tenenti di Vascello Fontana e Catalano portino la bandiera al cacciatorpediniere USS Long per la restituzione, e ordina al loro collega Gallo di recarsi con un piccolo motoscafo al molo Veneto, per recuperare i Sottufficiali chiusi nel caffè.
Impossibilitato, però, ad attraccare, per la fucileria che dal molo viene esplosa contro la sua piccola imbarcazione, Gallo esplode – come convenuto – un colpo di pistola Very per chiedere aiuto.
Allora, a protezione, si dirige a terra un MAS, a bordo del quale prende posto anche Gulli, costretto a ciò anche dal fatto che dieci su quindici dei suoi Ufficiali sono a terra, per la franchigia domenicale. La reazione, questa volta, è ancora più violenta, con fuoco di fucileria e lancio di bombe a mano, che provocano il ferimento di uno slavo, Mate Mis Josina, estraneo agli avvenimenti, di due uomini del “Puglia” imbarcati sul MAS, il motorista Aldo Rossi e il marinaio Gino Mario Pavone e dello stesso Comandante.
Pare che a sparare siano anche gli uomini della Gendarmeria (Rossi ha il ventre squarciato da una granata), mentre da bordo rispondono come possono, a fucilate, senza adoperare il cannoncino in dotazione (come fa anche il “Puglia” che non usa sua artiglieria).
Gulli, nonostante sia ferito, dopo aver ricevuto dal Capo della Polizia l’assicurazione che il suo personale a terra è stato posto al sicuro, dispone il ritorno alla nave, dove ordina all’Ufficiale più anziano presente di rinunciare al già disposto cannoneggiamento delle rive.
A bordo non c’è, però, l’Ufficiale medico, che è tra quelli bloccati in città, e così le prime cure vengono prestate da un chirurgo giunto da terra, il quale, di fronte alla gravità delle ferite, organizza il trasferimento alla sua Casa di cura, garantito da una autovettura con bandiera americana.
Alle 4,00 di notte Gulli muore sotto i ferri. Secondo un testimone, prima di entrare in camera operatoria, avrebbe dettato un breve testamento: “Io non ho assolutamente provocato nessuno, anzi, sono andato io stesso per impedire provocazioni. Se vi sono dei morti, non li ho sulla coscienza”.
La sua affermazione sarà confermata dall’indagine ordinata dall’Ammiraglio Andrews, solitamente non ben disposto verso gli Italiani.
Solo l’intervento americano, frattanto, sembra riportare la calma, anche se l’Ammiraglio Enrico Millo, che è il Governatore della Dalmazia, dispone comunque, ad ogni buon fine, l’invio in rada di due cacciatorpediniere da Zara e uno da Sebenico, col mandato di esigere “pronte ed energiche riparazioni”.
Pure a Trieste, non appena si sparge la notizia, l’agitazione è grande. I fascisti impongono l’esposizione della bandiera a mezz’asta sugli edifici pubblici e sulle navi in porto, mentre fissano la chiusura dei negozi dalle 17,00 in poi del giorno 13, così da consentire la generale partecipazione ad una manifestazione che viene convocata per le 18,00 in piazza dell’Unità.
Gli squadristi sono a loro volta convocati, un’ora prima, nella sala Dante.
La mobilitazione fascista e lo sdegno cittadino provocano le prevedibili preoccupazioni delle Autorità, che prendono forma con una generale e massiccia mobilitazione di Carabinieri, poliziotti, Guardie Regie, Guardie di Finanza e militari dell’Esercito.
Dall’ordine di servizio firmato dal Questore, risultano: 250 Guardie di Finanza in piazza Unità (150) e al Monte di Pietà di Corso Vittorio Emanuele (100); 250 uomini di truppa, con una sezione mitragliatrici nella Caserma Oberdan con “lo speciale incarico di provvedere per la tutela dell’Hotel Balkan”; 200 Carabinieri, variamente suddivisi, a tutela dell’Edinost, della Delegazione jugoslava per il rilascio dei visti sui passaporti, dell’ingresso posteriore del Balkan; in riserva, 200 Guardie di PS suddivise tra Monte di Pietà e Caserma Oberdan. (4)
Un dispiegamento di forze che sembra più che sufficiente a tutelare l’ordine (e sbugiarda la consueta tesi di “tolleranze” verso i fascisti).
Quando le squadre d’azione, precedute dal tricolore, fanno il loro ingresso in piazza Unità, sono accolte dall’entusiastico applauso della gran folla convenuta.
I dirigenti del Fascio, con la bandiera, si sistemano nei pressi della fontana, e il primo a parlare è il Capitano Dagnino, arrivato da Milano, seguito dal professor Conforto, e poi da Giunta, al quale tocca l’intervento principale della serata.
Il tono generale dei discorsi è abbastanza acceso, con esortazioni alla vendetta ed alla necessità di reagire alle provocazioni slave, tale da far salire la temperatura della piazza, come dimostra un tumulto provocato dall’inseguimento di uno Slavo che, ferito, corre a rifugiarsi nel Palazzo del Governo.
Giunta ha appena finito di parlare, che il professore Randi, altro esponente del Fascio locale, dà la notizia dell’avvenuto pugnalamento a morte, con tre colpi all’addome, che ne provocano la morte pressocchè immediata, a pochi passi dalla postazione degli oratori, del cuoco della trattoria Benavia, Giovanni Nini, colpito da un uomo che stava inseguendo perché in croato aveva espresso un giudizio negativo sulla manifestazione. Secondo una diversa versione, invece, egli si sarebbe frapposto a difesa di un Ufficiale aggredito da quattro slavi. Una terza e ultima narrazione, infine, lo dice aggredito, a freddo, al grido di “I dalmati xè affar per ieri, croati semo e croati resteremo”).
L’incertezza sulle esatte modalità dell’episodio, fomentata da subito, e soprattutto nel dopoguerra, da chi vuole attenuare la realtà dei fatti che è all’origine dell’incendio del Balkan, è tale che anche Roberto Farinacci, oltre quindici anni dopo, se ne uscirà con una curiosa affermazione, non priva, peraltro, di inesattezze:
Il 14 luglio (era il 13 ndr) in piazza dell’Unità, un giovane, Gustavo Ninni (si chiamava Giovanni Nini ndr), ritenuto fascista, veniva colpito a pugnalate nella schiena (erano tre pugnalate all’addome ndr), durante un imponente comizio di protesta, e moriva. Erano stati i comunisti slavi a colpirlo? Fu creduto da tutti, ed anche oggi, come appare l’ipotesi più probabile, così è ozioso discuterla. (5)
La notizia provoca grande agitazione, e i presenti si avviano per un tratto di via del Corso, attraversano piazza della Borsa, e da via Cassa di Risparmio entrano in via Mazzini.
Qui, davanti al numero 9 (o forse 11, in altra ricostruzione), dove ha sede la Delegazione jugoslava per il rilascio dei visti sui passaporti, il nervosismo della folla raggiunge il suo apice al propagarsi della notizia che, per tutta la mattinata, ha sventolato al balcone la bandiera dei colori slavi, ritirata solo all’inizio della manifestazione nazionalista (alcune fonti parlano, però, di una bandiera italiana legata ad un’asta portante i colori jugoslavi).
Partono dei colpi di pistola, e alcuni, con l’aiuto di una scala, riescono a raggiungere le finestre dell’appartamento, al primo piano, perché il portone sprangato e la presenza dei Carabinieri impediscono l’accesso normale.
Questa è la versione più attendibile, anche se altrove si parla di “incursori” calati dal tetto (tesi improbabile, perchè non si spiega come ci sarebbero arrivati) o di inquilini del palazzo che avrebbero sfondato la porta di ingresso della Delegazione (tesi improbabile anche questa, perché gli autori si sarebbero facilmente esposti a ritorsioni e denunce – che non ci furono –, una volta ritornata la calma).
Comunque, gli assalitori, raggiunto il balcone e penetrati all’interno, si impadroniscono dell’asta incriminata e di una bandiera jugoslava e le lanciano alla folla, che così si acquieta, per sfogare la residua aggressività in qualche inseguimento e bastonatura di singoli riconosciuti come slavi nelle vie adiacenti.
A quel punto, però, il grido “Al Balkan al Balkan!” sale spontaneo dalla massa dei dimostranti, ancora cresciuta di numero per l’arrivo di altra gente. Si formano così tre vere “colonne” in marcia verso l’unico obiettivo. La prima su via Roma, la seconda per via San Spiridione, la terza, attraversato celermente il Corso, piega su via Dante.
Dai balconi fanciulle e anziani gridano “Viva l’Italia”, mentre chi è nelle strade si aggrega ai manifestanti.
L’enorme edificio del Balkan – sono ormai le 19,30 (le 19,00 secondo alcuni) – sembra deserto. Chiuso il robusto cancello di ferro battuto dell’ingresso principale, e le entrate di via Galatti e di via Geppa. Anche le cinque saracinesche del ristorante a pian terreno sono tirate giù, così come le imposte delle finestre sono chiuse.
FOTO 3: Spalato, cartolina anni’20
FOTO 4: Il Capitano di Corvetta Tomaso Gulli
NOTE
- Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Milano 1961, vol. I, pag. 468
- Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia, Roma 2019, pag. 281
- Francesco Giunta, Un po’ di fascismo, Milano 1935, pag. 15
- Valentina Petaros Jeromela, 11 luglio 1920: l’incidente di Spalato e le scelte politico-militari, in: Quaderni – Centro Ricerche Storiche Rovigno, XXV, Rovigno 2014, pag. 307
- Il documento in fotocopia è in: Sergio Siccardi, La falsa verità sul Tenente Luigi Casciana, Trieste 2010, pag. 16
- Roberto Farinacci, Storia della rivoluzione fascista, vol. II, Cremona 1937, pag. 211