Presentiamo in questa occasione ai cari lettori di EreticaMente la recente fatica editoriale del prof. Enrico Montanari – storico delle religioni, allievo di Angelo Brelich, e in passato professore ordinario nelle Università dell’Aquila e di Roma – dal titolo “Storia e Tradizione – Orientamenti storico – religiosi e concezioni del mondo”, per le Edizioni Lithos. Come si evince dall’interessante premessa dell’opera, la disamina in questione tematizza largamente in merito a diversificate concezioni della storia della religioni, come quella storicistica, con riferimento a Raffaele Pettazzoni, e come quella fenomenologica, con riferimento a Mircea Eliade, ma anche entrando vivamente nel merito in alcuni aspetti essenziali sia del mondo tradizionalista sia degli studi romanologici, esponendo una visione nuova ed allo stesso tempo antica dei rapporti tra mondo etrusco e religiosità e civiltà romana.
Entrando nello specifico, il testo del prof. Montanari, approfondisce primariamente le dinamiche di un confronto metodologico, in cui una prospettiva di diretta consultazione delle fonti, quella di Raffaele Pettazzoni, pur con connotati prettamente laici, si differenzia dallo studio dei miti e della religione, da uno scadimento classificatorio di natura classista ed economicistico, come si presentavano in parte negli studi di Ernesto De Martino, quale espressione diretta delle influenze d’analisi sia di Croce sia di Gramsci. In tal guisa, la religiosità del Pettazzoni viene presentata con una prospettiva di origine laica e scientifica. A tal proposito, è importante notare, come per Montanari, non fondamentale sia stata l’adesione per un determinato periodo della esistenza di Pettazzoni alla massoneria, non condizionandolo come diversamente accadde per Eliade per i suoi profondi contatti col mondo tradizionale, con Guènon e con Evola particolarmente. In riferimento proprio ad Evola, è importante far notare come si evidenzi la diffidenza dello stesso Pettazzoni espressa nel 1931 circa il tentativo posto in essere con Imperialismo Pagano, pur nell’ambito di un ampio interessamento dello studioso per l’antica Roma, nella sua versione imperiale e sovranazionale: “l’ecumene imperiale può venir considerata area di diffusione di una religione soprannazionale come il cristianesimo e, per altro verso, l’idea di Stato come struttura soprannazionale, nata religiosamente pagana, può acquistare una sua religiosità contrapponibile a quella della Chiesa”[1]…pur con connotati di ispirazione liberale e risorgimentali con riferimenti a Mazzini e Pisacane[2]. Oltre la dimensione delle religioni universalistiche, emerge nel testo di Montanari la classificazione di Pettazzoni di religione dell’Uomo e la sua diffidenza nel confronti del cosiddetto Mistero e dell’esistenza effettiva di un Essere Supremo, le cui manifestazioni, vengono erroneamente ricondotte alle sfere del sentimento e dell’emozione. Col sovrasensibile, nota Montanari saggiamente[3], il rapporto di Pettazzoni si presenta ambivalente, non solo di un formale distacco, ma anche di un rispettoso rispetto, una soglia che è possibile avvicinare ma non oltrepassare, segnando, in questo, un ulteriore iato rispetto alla concezione di De Martino.
Altro punto nodale, già accennato all’inizio, cioè quello della diversa impostazione metodologica tra Pettazzoni ed Eliade viene analiticamente indagato, riprendendo le disamine dello storico rumeno in parte connessi agli studi (non letti) del van der Leeuw sulla Fenomenologia, circa l’affermazione di un’ermeneutica che non fosse formalmente vuota ed impersonale, ma che al contrario ponesse in essere una profonda sperimentazione religiosa del ricercatore degli ambiti investigati, una prima antropologia della religione, che avesse come base la conoscenza funzionale e sostanziale del dato sacrale. A ciò si oppose Pettazzoni nei suoi Ultimi Appunti, pubblicati nel 1960, riproponendo uno storicismo intransigente[4].
Molto interessante, inoltre, risultare essere l’approfondimento che l’autore dedica ai rapporti tra Eliade ed Evola, riferendo l’interessante episodio dell’invio alla fine degli anni ‘20, da parte del filosofo romano, di diversi numeri delle monografie di Ur e Krur, in India, dove si trovava lo storico rumeno per alcune sue specifiche ricerche. E’ un bel racconto di un rapporto molto articolato e non solo di natura analitica, essendoci state implicazioni anche di notevole portata operativa, come quella inerente non solo la priorità assegnata alla dimensione tantrica rispetto a quella vedantina (più vicina all’esegesi tradizionale di Guènon), ma anche la diversa sperimentazione del sovrasensibile, come dinamica fenomenologia (nel caso del fachirismo e di certo yoga), ma anche come dinamica magica, di voluta e cosciente presenza interiore. In ciò, l’autore ravvisa, però, un graduale allontanamento, non solo maturato dall’estraneità dell’analisi evoliana rispetto agli ambiti non indoeuropei considerati nelle ricerche di Eliade in India, ma anche per una progressiva convinzione di quest’ultimo che un certo tradizionalismo fosse ormai diventato desueto. Montanari, a nostro parere, con rara competenza dipinge un quadro in cui il progressivo allontanamento dello storico rumeno dal mondo del tradizionalismo diviene direttamente proporzionale all’avvicinamento dello stesso al mondo degli studi specialistici ed accademici.
In ciò, forse, il personale rapporto dell’Eliade con la fede cristiana, analizzato tramite lo studio del suo diario portoghese, potrebbe far emergere un confuso tentativo di coniugare la fede in Cristo con le religioni orientali che aveva analizzato nel periodo degli anni ’30. La religione laica e sovrannazionale del Pettazzoni, in Eliade, infatti, prenderà le forme nebulose di un Cristianesimo cosmico, preoccupato più di farlo aderire ad un’unicità dei primordi, che di riscoprirne le valenze salvifiche e realizzatrice, insite, a nostro parere, in alcuni suoi orientamenti ascetici ed orientali (il nostro è un voluto riferimento al famoso saggio di Montanari sull’Esicasmo).
In tale prospettiva, il rapporto dell’Eliade con il mondo tradizionalista ha dato vita a diverse ipotesi, anche formulate dall’interessato. L’idea che la sua azione d’indagine potesse rappresentare un cavallo di Troia, grazie al quale idee e conoscenze di natura iniziatica potessero far breccia nel mondo ovattato e spesso poco permeabile degli studi specialistici ed accademici, non troppo condivisa né da Evola né da un Valsan, si oppose alla teoria, esposta dal Montanari, molto più avveduta – e noi lo condividiamo a pieno – della ricerca specialistica riprendente il simbolo dell’Arca di Noè, che Eliade pensò per se stesso, per la quale lo studio della storia delle religioni rappresenti un valido strumento di avvicinamento al dato sostanziale ed
esperienziale delle tradizioni mitiche e religiose. E’ un approccio molto importante, a nostro avviso, non solo nella disquisizione inerente Eliade, ma per quella che è l’intera prospettiva tradizionalista, in cui spesso emergono due opposte posizioni, di natura esclusivista e fondamentalistica: da una parte, l’idea che la dottrina tradizionale non necessiti di alcuna validazione scientifica ed erudita – dando vita a eloquenti fenomeni di falsificazione immaginaria o di elucubrazione psichiatrica –, dall’altra che la stessa dottrina debba esclusivamente dipendere dalle fonti filologiche, senza che alle stesse possa essere attribuita un’interpretazione simbolica ed allegorica – smarrendosi, ad un certo punto, la concezione idealista e spirituale di Tradizione, in un totale appiattimento con lo specialismo erudito –.
Tale dibattito, sempre in riferimento con gli studi sia di De Martino, sia di Evola e Guènon, sia di Pettazzoni ed Eliade, trova la sua validazione nel testo, allorchè si pone in evidenza la distanza spesso rimarcata da Eliade rispetto al mondo dell’iniziazione e del suo segreto, quale dati prettamente illusori, ed il processo di allontanamento già descritto e graduale rispetto ad alcuni suoi rappresentanti, come furono Evola e Guènon, addirittura definiti “dilettanti”.
A tal ruguardo, bene fa Montanari, nella Premessa a tematizzare un aspetto, quanto mai attuale, del pensiero fenomenologico di Eliade, a proposito della funzione, non solo formativa e catartica, nei confronti dei veleni ermeneutici contemporanei, dello studio della “storia delle religioni”, ma in relazione anche alla possibilità che certi testi (e cita l’esempio del Corpus Hermeticum o gli Dei della Grecia di Walter Otto) possano effettivamente realizzare una trasformazione iniziatica e cioè risvegliare l’uomo arcaico che è dentro di noi; a tal proposito Eliade stesso, dinanzi ai componenti della Grande Loggia nazionale di Francia, in una conferenza tenuta nel 1980, avente per tema proprio “l’iniziazione ed il mondo moderno”, definì tale fenomeno spirituale: “iniziazione libresca”, in palese confronto polemico, ed è ovvio, con il settarismo elitario e cerimoniale dell’ambiente massonico medesimo.
Vi è l’espressione profonda di un misticismo laico, di un sapere che irrazionalmente pretende di superare la conoscenza intensa come autentica palingenesi interiore, del dominio del libro, inteso non come strumento e supporto, ma quale subdolo sostituto della catarsi. Una tale pretesa è, dal nostro punto di vista, assolutamente giustificata dinanzi alla parodistica e vuota ritualità latomistica, ma non può esserlo, assolutamente, se posta innanzi ad un autentico percorso tradizionale ed iniziatico, in cui preparazione dottrinale, ascesi e rito trasmutatorio convivono armonicamente. Mirabile è stata, infatti, la scelta di Montanari di riprendere un passo di Cioran su Eliade, che noi estendiamo a tutto un certo modo di approcciarsi al Sacro: “Chi possiede una sensibilità religiosa non passa la vita a enumerare gli dei, a fare il loro inventario…”[5].
Infine, riserviamo alcune considerazioni più analitiche all’ ultimo capitolo dell’opera, <Tempo “ciclico” e Tempo “lineare” nella Roma repubblicana>, in cui viene tematizzata una severa critica agli studi di Marta Sordi, celebre storica italiana, i quali contemplavano l’esistenza di un’univoca concezione del tempo nel mondo etrusco ed a Roma, quale insieme di corsi e ricorsi, di colpe, espiazioni, redenzioni “…parte dell’eredità spirituale che l’Etruria aveva consegnato a Roma”[6]. Tale esposizione del Montinari, per inciso, supera finalmente un certo clichè anti-evoliano, monotono e al quanto poco documentato, del filosofo romano (non citato) non aggiornato ed informato, appiattito sulle vetuste argomentazioni del Bachofen, nell’ambito degli studi archeologici e filologici inerenti la diversità ontologica della civilizzazione etrusca rispetto alla tradizione romana, in piena concordanza con altri autorevoli studiosi di ambito accademico e di ricerca tradizionale, quali Mario Torelli[7], Aldo Schiavone[8], Paolo Galiano e Giandomenico Casalino, senza considerare le nuove analisi archeologiche di un Carandini o l’innovativa prospettiva antropologica di un Maurizio Bettini.
Tale concezione del tempo, a buon ragione, è motivo per l’autore di alcune perplessità. La prima è la presunta eredità di un’idea lineare del tempo, che, se realmente desunta dagli Etruschi, sarebbe stata appunto ciclica e non lineare. La ripetizione di un archetipo è per Montanari, la ripetizione di un esito, ma non di un medesimo accadimento. In riferimento, al complesso pittorico della Tomba Francois, quale importante monumento di testimonianza etrusca, l’autore contempla l’esistenza di una ripetizione simbolica di alcuni aventi natura equivalente ma non identificativa:”Esso dimostra anche che, presso alcuni popoli etruschi, il ripetersi <ciclico> di gesta vittoriose non era visto in sintonia con i Romani (come poteva accadere per i Ceriti o per i Chiusini), bensì contro di essi”[9]. La disposizione romana del tempo è la determinazione fattiva della storia in una “sequenza lineare di eventi”, senza ricorsi di un archetipo primordiale: il romano crea la storia, non la rivive, vive il Mito, non lo riattualizza. Importante è, inoltre, come saggiamente evidenzia il prof. Montanari, l’idea che il romano aveva della propria esperienza storica, quale esperienza nuova, come era nuova. Non casuale era, infatti, il riferimento alla datazione del Post Capitolinam Dedicatam, che “coincideva infatti con la successione degli anni consolari ed era avvertita come un inizio <assoluto>, che partiva dalla cacciata della dinastia etrusca”[10]: la cacciata dei Tarquini venne sentita come un’era nuova! Nel testo sono offerte altre prove documentali a sostegno di tale tesi, a sostegno dell’indipendenza romana rispetto al fatalismo etrusco. Un’ultima riflessione, l’autore, la pone nei riguardi dei vaticinii, nell’ambito dell’aruspicina e della presunta “concezione romano-etrusca della storia”[11]. A differenza dell’Etruria, le modalità romane di conoscenza della volontà divine non erano mirate alla predizione del futuro, ma alla convalida di un’azione già in atto nel presente: è la differenza fra aruspici ed auguri rappresentate da Cicerone nel suo De Divinatione, oltre che dall’Autore che lo cita in nota, che non casualmente paragona gli aruspici agli indovini di villaggio, di strada, ai ciarlatani. L’uso dei responsi di origine etrusca era, tuttavia, largamente attestata nella società romana, con valenza diverse, quale uso pragmatico degli stessi, a cui lo stesso Augusto fece ricorso per la determinazione del proprio ruolo di destino nella storia di Roma, storia di una grande civiltà che pragmaticamente non accetto un atteggiamento lunare e fatalistico, in attesa che la storia si compiesse. Il testo del prof. Enrico Montanari si conclude, pertanto, con un’espressione che sintetizza alla perfezione l’interezza della sua disamina, quale espressione altamente culturale che non relega il lettore in confini determinati ed angusti di interpretazione, ma offre la possibilità di attuare una libera presa di coscienza di dimensioni, quale quella specialistica, quella tradizionale e romana, nella loro profonda autenticità: “a Roma, l’equilibrio della pax deorum dischiude la prospettiva di una temporalità indefinitamente aperta, che propizia la realizzazione della civitas augescens”.
Note:
[1] Storia e Tradizione, p. 67.
[2] Storia e Tradizione, p. 78.
[3] Storia e Tradizione, p. 101ss.
[4] Storia e Tradizione, p. 113ss.
[5] Storia e Tradizione, p. 196.
[6] Storia e Tradizione, p. 203-4.
[7] Mario Torelli, archeologo italiano, docente di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana all’Università di Perugia, membro ordinario dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici a Firenze, nella sua fondamentale opera “La forza della tradizione Etruria e Roma: continuità e discontinuità agli albori della storia”(Edizioni Longanesi, Milano 2011), ha ben evidenziato come, pur in presenza di innegabili influenze nell’ambito degli auspici e dei prodigia, vi sia una diversa predisposizione al Sacro tra etrusca disciplina e religiosità romana, tra un’evidente soccombenza etrusca rispetto alle manifestazioni del Divino ed una potestà magica romana, di paritetica attività. Si può consultare anche il saggio “Scienza greco-romana. Religione, società e scienza”, a cura dello stesso Torelli (oltre, per la parte prettamente greca, a firma di Giovanni Pugliese Carratelli), consultabile online anche sul sito della Treccani.
[8] Aldo Schiavone, professore ordinario per lungo tempo di diritto romano presso le Universaità di Bari e di Firenze, nella sua “Storia del Diritto Romano e linee di diritto privato” (Giappichelli Editore, Torino), nel paragrafo “La monarchia etrusca nella tradizione romana” ha ben evidenziato come “Nonostante l’evidente influenza degli etruschi, sembra comunque da escludere che il periodo etrusco abbia implicato l’assoggettamento dei Romani ad una vera e propria dominazione straniera; è più probabile, in conformità alla versione delle fonti, che una dinastia etrusca si sia impadronita del governo della città nel sesto secolo a. C., a fronte però di una più incisiva presenza locale della comunità romana”, e quindi di come è scientificamente errato considerare la civiltà romana quale emanazione diretta di quella etrusca, essendo espressioni di un diverso orientamento giuridico-religioso.
[9] Storia e Tradizione, p. 206.
[10] Storia e Tradizione, p. 208.
[11] Storia e Tradizione, p. 210ss.