(alla fine dell’articolo, prima delle Note, è presente il link dell’articolo precedente)
10.2 – La fase “ario-atlantica” ed indomediterranea
Secondo Julius Evola, il punto di partenza di questa grande migrazione “orizzontale / ario-atlantica”, sviluppatasi soprattutto da Ovest verso Est, andrebbe cercato in settori atlantici di media latitudine: da tale movimento sarebbero derivate tutte quelle stirpi genericamente definite come “mediterranee” che, se considerate dal punto di vista del più ristretto e recente nucleo “ario-europeo” – corrispondente però, come detto in precedenza, solo alla terza fase della nostra storia – appaiono effettivamente “preindoeuropee”, ma tra le quali l’elemento “Ario”, inteso come concetto di più antica e vasta portata, risulta nondimeno ben attestato e fondante.
Dovette trattarsi di un ampio e relativamente eterogenero insieme etnico, che vari autori ipotizzano aver compreso popoli quali i Sardi (sempreché la radice di questi non sia ancora più antica, vista la già rilevata vicinanza genetica evidenziata con
In ogni caso, questo grande movimento “orizzontale” originato nell’Ovest, da Julius Evola viene considerato come contemporaneo a quello, già incontrato in relazione agli eventi nordafricani, dispiegatosi sulla sponda meridionale del Mediterraneo e che, passando per l’Egitto, approdò al Vicino Oriente, probabilmente superando anche la Persia per giungere infine al subcontinente indiano. Qui, non ci sentiremmo di giungere alle stesse conclusioni di Alain Danielou, secondo il quale i Dravidi – dei quali abbiamo parlato in uno dei precedenti paragrafi in relazione alle ipotesi di Colin Renfrew – corrisponderebbero tout court ai Pelasgi (1043) senza quasi soluzione di continuità. Tuttavia è plausibile che anche questi possano essere inseriti, almeno come proto-popolazione in corso di una più precisa enucleazione etnica, nel grande alveo della migrazione verso Est sviluppatasi soprattutto per via continentale (più che per via oceanica, come invece proposto da Wirth), probabilmente attraverso la sua ramificazione nordafricana. Passati poi nell’area mediorientale, qui avrebbero quasi completato la loro etnogenesi (forse sui Monti Zagros, secondo la prima ipotesi di Renfrew), in un processo che dovette essere comune e parallelo a quello delle genti elamitiche dell’Iran: con il risultato finale che nei Dravidi indiani sarebbe stata soprattutto la componente sudatlantica, e ciò viene riconosciuto anche da Wirth, quella che li avrebbe collegati al continente oceanico dell’Occidente (1044).
Tornando al mondo mediterraneo, secondo Julius Evola tutta questa vasta compagine in senso ampio definibile “pelasgica”, avrebbe dunque rappresentato una stratificazione etnica che, pur molto arcaica, nondimeno sarebbe stata pienamente “Aria” (1045), arrivando addirittura a definirla “paleoindoeuropea” (1046); come anticipato, si potrebbe quindi ipotizzare che questo momento abbia rappresentato, rispetto all’iniziale fase “ario-uralica”, un passaggio intermedio manifestatosi prima dello stadio finale “ario-europeo”, ma con la particolarità di essere connotato, riteniamo, anche da un non trascurabile grado di contaminazione linguistica per contatto con gli antichi substrati dene-caucasici, mai scomparsi (e che infatti, nel nostro continente, tuttora resistono con i Baschi, i Ceceni e qualche altro gruppo minore). Contatti probabilmente verificatisi nell’estremo Occidente ed in una fase talmente remota – forse conseguenza dei più antichi, fra i tanti, episodi di mistione occorsi tra Bianchi nordeuropei e Rossi sudatlantici – che a causa della loro particolare precocità potrebbero aver avuto a disposizione un lasso di tempo piuttosto lungo per sviluppare e cristallizzare degli idiomi alquanto divergenti. A nostro avviso, però, va sottolineato che a confronto con l’evoluzione dell’Afroasiatico (o camito-semitico) nordafricano, per questo eterogeneo gruppo linguistico dovette risultare di non secondaria importanza il fattore geografico, perchè rimanendo stanziato sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, esso comunque mantenne sempre una certa prossimità – nella già vista prospettiva di un “peri-indoeuropeo” periferico – con quel nucleo etnico più centrale che poi avrebbe sviluppato le lingue propriamente “ario-europee” della terza fase; e soprattutto non fu mai soggetto, come invece dovette presumibilmente verificarsi per l’Afroasiatico, all’ulteriore spinta divergente indotta dai probabili substrati paleonegritici al tempo ancora presenti in alcuni settori dell’Africa settentrionale, di cui i cenni in uno dei paragrafi precedenti.
E dunque, se non “indogermaniche” in senso stretto, queste lingue potrebbero essere considerate “indogermanoidi”, come in effetti Kretschmer definiva il Pelasgico (1047), attribuendogli dunque una collocazione non eccessivamente distante dall’areale indoeuropeo, idea peraltro in larga parte condivisa dal bulgaro Vladimir Ivanov Georgiev (1048). I Pelasgi, poi, presentano anche alcuni rimandi tradizionali particolarmente interessanti, individuabili ad esempio nel ricordo mitico della discendenza dal serpente Ofione (1049) che, dato estremamente significativo, prima di assumere le sembianze del grande rettile era Borea, il freddo vento del Nord; o anche nei nomi dei due fratelli semi-divini Argo e Pelasgo, che alludono entrambi a colorazioni chiare e luminose, suggerendo che questo poteva essere stato il loro fenotipo arcaico, dunque sensibilmente leucoderma (1050). Tutti elementi che quindi farebbero propendere per un’origine nordica (1051), quanto meno indiretta e probabilmente mediata da un non trascurabile periodo di permanenza nelle aree atlantiche, plausibile conseguenza di quelle penetrazioni dal nordeuropa e delle precoci mescolanze ivi avvenute di cui si è scritto sopra: se dunque può essere eccessivo considerate i Pelasgi solo come un ramo più antico degli stessi Elleni (1052), in quanto pare che questi ultimi li definissero “i Rossi” o “i Pellerossa” – sottolineando quindi un netto senso di alterità nei loro confronti – può anche essere eccessivo, in senso opposto, collegarli come fa Evola addirittura ai Maya (1053) o associarli, come propone Danielou e segnalato sopra, ai Dravidi indiani. Forse un buon punto di compromesso sui Pelasgi potrebbe, a nostro avviso, essere ravvisabile proprio nell’idea di Herman Wirth che considerava la stessa cultura minoico-cretese, pur così “mediterranea”, fortemente permeata da chiari rimandi al mondo nordatlantico, specchio dunque di quelle mistioni ed interferenze tra il Nord e l’Ovest che dovettero verificarsi soprattutto in area oceanica, connotando in tal senso lo stesso Magdaleniano tardoglaciale. Ma se, al limite, si volesse anche ammettere un sia pur esile rapporto di parentela diretta tra Pelasgi, Maya e Dravidi, la prospettiva più logica ci sembra quella di una collocazione dei primi in una fase sensibilmente anteriore rispetto agli altri due, contemplando quindi lo spazio di alcuni millenni nei quali questi ultimi avrebbero avuto tempo di manifestare sia fenomeni endogeni di adattamento ambientale, sia forse anche qualche meticciamento con sovrastrati mongolidi giunti in tempi più recenti (i Maya), o con substrati veddoidi più antichi (i Dravidi). In quest’ottica, quindi, ci sembra opportuno ribadire l’idea che molto probabilmente il nucleo pelasgico-mediterraneo dovette nascere in una fase piuttosto antica dei contatti tra Bianchi e Rossi, essendosi specificato etnicamente ben prima di quello che fu il “Diluvio universale” (evento, come già ricordato e che riprenderemo più avanti, verificatosi attorno a 13.000 anni or sono), dal quale esso quindi non venne forzatamente generato, ma che attraversò completamente e riuscì a superare, almeno in coloro che se ne salvarono (1054).
Inoltre, qualche altro autore collega in modo molto netto i Pelasgi venuti da Occidente all’onnipresente tipo Cro-Magnon (1055) – in realtà, radice antropologica di diverse genti europee – e dunque si potrebbe ipotizzare che, sulla scorta di quanto segnalato sui loro significativi rimandi mitico-boreali, la linea cromagnoide coinvolta potrebbe essere stata, se non integralmente almeno in discreta parte, quella assoggettata ad una pronunciata depigmentazione: il che non sarebbe inverosimile viste le correnti razziali di chiara provenienza nordica riscontrate anche ben più a Sud dell’areale pelasgico e cioè, nel Nordafrica, tra Berberi, Libi e fino ai Guanci delle isole Canarie.
Probabilmente è sempre in relazione a questo ciclo che Herman Wirth ipotizza una penetrazione da Occidente anche di gruppi più genuinamente connessi al ciclo sudatlantico, cioè senza preponderanti mistioni con elementi boreali (come segnalato in precedenza, si tratta di una fase alquanto eterogenea ed è molto difficile definire non tanto quanto derivante unicamente dal Nord o unicamente dall’Ovest, ma soprattutto quanto generato, ed in quale proporzione, dalla confusa interazione tra le due radici): ciò pare ravvisabile in una serie di etnonimi assunti da quei popoli che, in particolare, mantennero un più vivo ricordo dell’antica sede oceanica, la Mô-uru, come ad esempio potrebbe darsi per il caso degli Armoricani di Bretagna. E ciò a nostro avviso costituisce anche un’ulteriore conferma, come già ipotizzato nel precedente paragrafo, di quanto nel tardo-glaciale europeo potessero essersi cronologicamente sovrapposte le ultime code migratorie più schiettamente sudatlantiche con le prime riportabili invece al successivo ciclo nordatlantico.
Va inoltre segnalato che sempre Wirth, ma oltre a lui anche diversi altri autori (1056), nel Paleolitico finale collegano ancora il Cro-Magnon alla cultura magdaleniana (più in là vedremo, comunque, come esso non sia il solo fenotipo presente in questo periodo), ed in effetti è piuttosto significativo che – al di là delle considerazioni di carattere mitico-tradizionale, ma da un punto di vista prettamente archeologico – anche nella dinamica di questa cultura sia stato ipotizzato un movimento di espansione portato dall’Occidente atlantico verso l’entroterra europeo (1057). Uno dei vettori di quest’ondata potrebbe essere rappresentato dal fenomeno dell’Amburghiano (1058) nella sua chiara diffusione verso la grande pianura europea, cultura che terminerà circa 12-13.000 anni or sono in corrispondenza dell’interstadio climatico di Allerød (1059): si sarebbe trattato di una penetrazione sviluppatasi in un ambiente scarsamente popolato rispetto alla fase gravettiana precedente al Secondo Massimo Glaciale, ma comunque non del tutto disabitato se consideriamo la persistenza di gruppi di cultura ormai epigravettiana disseminati tra la zona nord-mediterranea e l’Oriente europeo (1060). Sotto il profilo linguistico, Theo Venneman ha proposto che tale migrazione dovette essere correlata alla diffusione delle lingue “vasconiche”, antenate dell’attuale Basco e ramificazione interna della più ampia famiglia “Dene-caucasica” (1061), ma Francisco Villar contesta decisamente tale ipotesi e, anche sulla base delle evidenze offerte dall’idronimia europea – di cui si è già detto in relazione agli studi di Hans Krahe – segnala che la condivisione della stessa appare del tutto marginale tra i ricercatori di settore (1062). Nel Magdaleniano, piuttosto, qualcuno individua non trascurabili linee di continuità con le più recenti culture indoeuropee (1063), tanto che secondo Kuhn esso aveva rappresentato la principale cultura protoindoeuropea ancora unitaria ed anteriore alla sua segmentazione nei vari sottogruppi (1064): teoria a nostro avviso abbastanza controversa in quanto propendiamo, come già detto, per inquadrare il Magdaleniano più come una cultura “collettore” di influenze alquanto eterogenee – peraltro, sviluppatasi in un’area non molto vicina all’Urheimat originaria e, al limite, portatrice di lingue “indogermanoidi” secondo la definizione di Kretschmer – ma si tratta comunque di un’ipotesi non priva di un certo interesse, se non altro per l’orizzonte paleolitico nel quale colloca la genesi della nostra famiglia etnolinguistica.
Inoltre, dal punto di vista genetico, una probabile traccia molecolare di questa migrazione risiederebbe nel significativo gradiente Ovest – Est osservabile nella diffusione del marcatore ematico RH negativo, che Cavalli Sforza associa proprio al tipo Cro-Magnon ed il quale sembra indicare un chiaro movimento verso l’Africa e l’Asia (1065). Movimento ricostruibile con buona approssimazione anche perché le genti magdaleniane probabilmente rappresentarono una popolazione nuova rispetto ai precedenti gruppi di tradizione epigravettiana, in quanto portatori di alcune frequenze molecolari che sembrerebbero essere derivate dal lignaggio risalente ai reperti aurignaziani di Goyet, evidentemente sopravvissuto in qualche enclave protetta e preservatosi dalle successive stratificazioni (1066). Forse l’onda lunga di tale cammino verso Est seguì anche strade parallele più settentrionali che, attraverso tutta la fascia delle foreste euro-siberiane, portò genti cromagnoidi fino a Buret ed Irkutsk: i reperti materiali rinvenuti in questi siti, mostrano delle somiglianze stilistiche talmente marcate con quelli coevi europei che non si può non pensare ad una chiara unità culturale di tale popolazione – dedita soprattutto alla caccia di renne, mammuth e rinoceronti lanosi – perché si tratta di similitudini morfologiche ben difficilmente spiegabili nel quadro di una mera convergenza evolutiva (1067).
Azzardando un’ipotesi, in questo stesso movimento si potrebbe forse individuare uno dei fattori formativi, probabilmente assieme anche ad una parte non trascurabile di cacciatori-raccoglitori caucasici “CHG”, di quella componente autosomica che si enucleerà più tardi nel Vicino Oriente, nota come “EEF” (Early European Farmer) la quale, nel Neolitico, in una certa misura rientrerà nel genoma europeo soprattutto attraverso la via balcanica, ma anche quella marittimo-costiera: il tutto, cioè, nella prospettiva parallela di un possibile ingresso in area mediorientale di lingue “indogermanoidi” nel tardoglaciale, che avevamo ipotizzato in uno dei paragrafi precedenti in relazione alle varie ipotesi di Colin Renfrew sull’eventualità di una presenza protoindoeuropea nell’area, con successiva migrazione agricolo-neolitica verso Est, fino addirittura a connotare in tal senso la civiltà di Harappa e Mohenjo-daro (che, quindi, secondo questa variante teorica non sarebbe stata necessariamente di lingua paleo-dravidica).
Lewis Spence, infine (1068), ipotizza un’ultima migrazione aziliana-tardenoisiana di circa 11.500 anni or sono, quindi ormai in età mesolitica, partita anche questa dall’Occidente atlantico verso l’entroterra europeo e che avrebbe portato in Spagna e nell’Africa nordoccidentale gli antenati degli Iberi. Breve parentesi su questi ultimi: mentre Herman Wirth ritiene che essi rappresentarono invece un’onda di “riflusso” proveniente dal Nordafrica – ma comunque sempre riconducibile all’antico mondo atlantico del Paleolitico – altrettanto interessante ci sembra anche un’ipotesi più recente (1069) che concorderebbe sulla loro intrusività nell’area (anche se dalla provenienza più incerta), ma li vedrebbe insediati sopra un substrato “protoaquitano” dalle caratteristiche già paleo-indoeuropee ed il quale, secondo la “Teoria della continuità”, sarebbe stato presente nell’Occidente europeo addirittura da 35.000 anni fa. Comunque, a prescindere dalla profondità temporale che assegnamo alla nostra famiglia linguistica, anche Renfrew riconosce che se appare certa la non indoeuropeità degli Iberi, ciò non implica necessariamente la pre indoeuropeità degli stessi, lasciando quindi aperta la possibilità che essi non rappresentino una sopravvivenza di genti più antiche, ma abbiano invece costituito un superstrato insediatosi in tempi relativamente più recenti (1070) sopra popolazioni già ivi presenti.
In ogni caso, dopo la grande migrazione “orizzontale” ario-atlantica, è verosimile che soprattutto nella parte meno settentrionale del nostro continente, i cosiddetti “Preindoeuropei” – ma ricordiamo sempre il particolare significato “relativo” da attribuire a questo termine, sottolineato in apertura di paragrafo – possano essersi divisi nelle due ampie famiglie linguistiche ricordate da Giacomo Devoto: una, antichissima, “Paleoeuropea” e più continentale, distesa tra i Pirenei ed il Caucaso (1071), coincidente in pratica con l’elemento denominato “Dene-caucasico” nelle classificazioni più recenti, che anche per Alfredo Trombetti comprenderebbe i Baschi e sarebbe totalmente estranea al contesto indoeuropeo (1072); ed una famiglia più costiera – plausibilmente prodotta proprio dal nostro movimento Ovest – Est, quindi di formazione meno antica – definibile come “Indomediterranea” e probabilmente collocabile nel già menzionato contesto “peri-indoeuropeo” perchè aperta a non trascurabili influenze ario-europee (1073), forse con importanti collegamenti fino nel Vicino Oriente (1074) dove avrebbe avuto una certa relazione con le popolazioni “subaree” di stanziamento presemitico (1075).
Ed è probabile che l’onda lunga di questo movimento Ovest – Est sia perdurata addirittura fino ai tempi neolitici, cioè fino al settimo/ottavo millennio a.c., quando sul corso medio e finale del Danubio vengono a manifestarsi tutti i fattori tipici delle grandi civiltà antiche, ovvero un’economia agricola pienamente sviluppata, una rilevante attività tessile e ceramica, una sorprendente scala urbana di insediamento, reti commerciali ben organizzate e di vasto raggio, solide istituzioni comunitarie (anche se sotto forma di reti tra villaggi e non di un organizzato Stato centrale) e probabilmente anche il primo sistema al mondo di proto-scrittura costituita dalle tavolette di Tǎrtǎria in Romania (1076): invenzione che quindi potrebbe essere stata genuinamente europea e ben più antica delle grafie rinvenute nella bassa Mesopotamia in contesto sumerico.
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NOTE
1038. Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza – Storia e geografia dei geni umani – Adelphi – 1997 – pagg. 513, 518, 557
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1040. Francesco Branchina – Dalla Skania alla S(i)kania. Le grandi migrazioni proto-germaniche – Edizioni Simple – 2011 – pag. 11
1041. Widmer Berni, Antonella Chiappelli – Haou-Nebout. I popoli del mare – Edizioni Pendragon – 2008 – pag. 15
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1044. Alain Danielou – La Fantasia degli Dei e l’Avventura Umana – CasadeiLibri Editore – 2013 – pag. 68
1045. Julius Evola – Indirizzi per un’educazione razziale – Edizioni di Ar – 1979 – pag. 82; Julius Evola – Panorama razziale dell’Italia preromana – in: La difesa della Razza, n. 16, 1941 (nel fascicolo: Julius Evola, Le razze e il mito delle origini di Roma, Sentinella d’Italia, 1977, pag. 7)
1046. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 310
1047. Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 59
1048. Giorgio Locchi – Prospettive indoeuropee – Settimo Sigillo – 2010 – pag. 20; Tiziana Pompili Casanova – Pelasgi stirpe divina – Drakon Edizioni – 2017 – pag. 99; Francisco Villar – Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia – Il Mulino – 1997 – pag. 554
1049. Hans Egli – Il simbolo del serpente – ECIG – 1993 – pag. 209
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1052. Eurialo De Michelis – L’origine degli indo-europei – Fratelli Bocca Editori – 1903 – pag. 637
1053. Julius Evola – Non sappiamo ancora tutto sui nostri padri mediterranei – in: Julius Evola, Il mistero dell’Occidente. Scritti su archeologia, preistoria e Indoeuropei 1934-1970, a cura di Alberto Lombardo, postfazione di Giovanni Monastra, Quaderni di testi evoliani n. 53, Fondazione Julius Evola, 2020, pag. 115
1054. Tiziana Pompili Casanova – Pelasgi stirpe divina – Drakon Edizioni – 2017 – pagg. 152, 238
1055. Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 149
1056. Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 242; Madison Grant – Il tramonto della grande razza – Editrice Thule Italia – 2020 pag. 120; Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 142
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1059. AA.VV. (a cura di Fiorenzo Facchini) – Paleoantropologia e Preistoria. Origini, Paleolitico, Mesolitico – Jaca Book – 1993 – pag. 136
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1065. Luigi Luca Cavalli Sforza – Geni, popoli e lingue – Adelphi – 1996 – pag. 40
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1068. Charles Berlitz – Il mistero dell’Atlantide – Sperling Paperback – 1991 – pag. 109; Lyon Sprague de Camp – Il mito di Atlantide e i continenti scomparsi – Fanucci – 1980 – pag. 108
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