Cronache dal tempo peggiore. Il mondo è veramente messo al contrario. La notizia più recente supera per follia quella precedente, ma certo verrà oscurata dalla successiva. Il tribunale di Firenze ha assolto due giovani dall’accusa di stupro di gruppo poiché non in grado di percepire la violenza perpetrata. Il consenso della vittima agli atti sessuali era “fraintendibile” – così si esprime il giudice – in quanto ubriaca. Tuttavia, l’assoluzione non riguarda tale elemento, bensì la circostanza che gli imputati avevano sviluppato un’idea distorta del sesso e dell’atto sessuale. “Condotta incauta, ma non con la piena consapevolezza”. I due, consumatori di pornografia, non si sarebbero “resi conto” che stavano violentando una coetanea. Non erano capaci di valutare il rifiuto da parte della ragazza, ma ne avrebbero presunto il consenso. Così capita in certi filmati.
Il contesto è quello di una serata “normale” di giovani italiani: una festa, l’abuso di alcol, il consumo di “erba”, ossia di droga. Si va su di giri, inizia qualche attenzione di troppo, l’approccio si fa pesante, con la richiesta di smetterla della diciottenne. Poi, il fattaccio. Vi è un precedente significativo: uno dei due aveva avuto in precedenza rapporti con la ragazza davanti ad altre persone, ripresi con il cellulare. La sintesi della sentenza è raggelante nel fotografare un degrado di massa. “La ragazza era in un forte stato di alterazione, e non essendo in grado di esprimere il consenso si presume non sia stata in grado di esprimere diniego”. Circostanza che avrebbe dovuto indurre gli imputati a interrompere le avances.
I due, inoltre, erano “condizionati da un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile, forse derivante di un deficit educativo e comunque frutto di una concezione assai distorta del sesso”. Al di là del merito della sentenza – che non condividiamo – non definitiva, che non si presta ancora a una riflessione in punto di diritto, per la quale non abbiamo le competenze, il GUP – giudice dell’udienza non tanto preliminare, giacché il caso risale al 2018 – ha messo il dito in una brutta piaga. Quelle poche righe discutibili raccontano la nostra società più di un trattato di sociologia.
Segnalano l’impressionante scarto tra senso comune e norma, unita alla certificazione dell’incapacità di distinguere il reale dal virtuale, l’artificio, la rappresentazione e lo spettacolo dalla concretezza. L’ulteriore elemento, trattandosi di questioni che attengono alla più potente delle pulsioni, quella sessuale – è la vittoria dell’Es – ovvero degli istinti e dei desideri – sul Super Io morale e sull’ Io personale dotato di coscienza, libero arbitrio e capacità di discernimento. Non più aggravanti, addirittura esimenti. L’inversione che sconcerta.
Si può essere assolti da un reato infamante perché, deviati nel giudizio dalla pornografia, non si è in grado di comprendere la differenza tra un rapporto sessuale consensuale e uno imposto con la coercizione, ovvero creando le condizioni affinché le difese personali – ovvero la libera decisione – di un altro essere umano risultassero alterate. Certo è una zona grigia, un ambito in cui è difficile distinguere, ma troppe ne accadono. I casi dei figli di Beppe Grillo e Ignazio La Russa – in attesa di giudizio – mostrano comportamenti border line che mettono sotto accusa soprattutto la generazione adulta, che ha rimosso limiti e divieti ignorando i doveri di guida e protezione.
Non tranceremo giudizi morali sulla ragazza: beveva, fumava erba e si sballava come molti altri, aveva forse maturato un’idea assai bassa della sessualità, subordinata all’istinto, magari alla necessità – avvertita come insopprimibile da molti – di mostrare, ostentare gli atti della vita, anche quelli più intimi. Non è colpa sua: l’unico modello che conosce è il mondo al contrario, desideri e capricci chiamati diritti, abuso di tutto, anche di sé. Nessuno le ha fornito valori alternativi; la società intera, dalla famiglia alla scuola al sistema mediatico, ha rinunciato a distinguere bene e male, giusto ed ingiusto.
O meglio, ha rovesciato i criteri di giudizio, sull’onda del vietato vietare e dell’incapacità di prospettare modelli diversi dalla grottesca trasgressione obbligatoria. Per molti giovani ciò si traduce nel culto della discoteca, nell’ascolto di musica che piace in quanto piace al gruppo, nell’adozione di abbigliamento, mode, comportamenti conformisti il cui unico tratto comune è di essere il contrario di quelli passati. Presso di loro, la cultura della cancellazione ha vinto su tutta la linea, diventando cancellazione della cultura a favore di un’esistenza senza riferimenti e bussole esistenziali. Di quelle morali, vietato parlare per non subire sarcasmo, commiserazione, l’accusa infamante di non capire il progresso. È il contrario: lo detestiamo proprio in quanto lo conosciamo e – per età – siamo in grado di fare paragoni.
Un tempo la pornografia era clandestina e trasgressiva; oggi è quotidiana e gratuita, accessibile sull’oggetto-culto per eccellenza, lo smartphone. Può capitare che non solo diventi dipendenza, ma sia banalizzata tra commenti beceri e visioni di gruppo al punto da scambiare le “prestazioni” dei protagonisti in modelli da imitare. “Fare sesso” (orrenda espressione da colonizzazione anglofona) diviene pressoché obbligatorio, un rito a cui non ci si può sottrarre, qualcosa che non attiene più alla sfera dei sentimenti e neanche a quella della volontà libera. Si fa e basta, il resto non importa.
Troppi giovani crescono come cuccioli di animale senza possedere l’istinto sicuro delle altre specie. Selvaggi iperconnessi, soffrono di una disconnessione dalla realtà determinata dalla dipendenza dal web, dalle reti sociali, dal pollice alzato o abbassato del giudizio sommario, proprio e altrui. Il virtuale non è il doppione, ma il sostituto del mondo vero. Il successo del metaverso rende complicato stabilire i confini del virtuale e dell’artificiale. Il risultato è un comportamento irrazionale, un’imitazione che non tiene conto dell’altro da sé, la cui unica funzione è di essere usato, consumato, gettato, senza distinzione tra oggetti e persone. La pornografia, poi, sottrae al sesso ogni valenza sentimentale, salta a piè pari la dimensione dell’incontro e della reciproca scoperta, bypassando il consenso, superfluo se l’altro è percepito unicamente come oggetto, veicolo di piacere.
In questo clima non è facile, per il giudice penale, districarsi tra le leggi, i fatti e il complesso universo pulsionale, se nessun principio educativo, steccato morale, limite è posto dalla mentalità corrente al dispiegamento di desideri, istinti, talvolta follie o perversioni elevate a diritti. Tramonta il criterio della tradizione cristiana: non esiste più il peccato, sostituito da perifrasi fumose, incomprensibili. Quando la definizione di bene e di male era chiara, frutto del discernimento posto da un creatore nel cuore dell’uomo, il peccato era tale se commesso con “piena avvertenza e deliberato consenso”.
Nel caso specifico è saltata l’avvertenza, ossia la capacità di valutare il bene dal male in base a categorie certe. In questo senso, ahimè, dovremmo concludere che i giovani fiorentini sono non colpevoli – che non significa innocenti – in termini di immaturità e distorsione delle relazioni; mancano dei fondamentali, ossia dei criteri e quelli che hanno sono distorti, soggettivi, tipici di selvaggi guidati dagli istinti primordiali. Piacere e successo misurabile in denaro, gli unici principi a cui attenersi.
Non può essere così, né dal punto di vista morale né da quello della legge, il cui scopo è la convivenza civile. Sempre, siamo responsabili di ciò che facciamo e abbiamo il dovere di rispondere dei nostri atti. La legge morale dentro di me, affermava Kant. Ma è proprio un mondo privato di un’etica condivisa che permette di ignorare il giusto e l’ingiusto. Ciò che è fatto per amore, sosteneva Nietzsche, è al di là del bene e del male. Ma l’amore è ben altro che il sesso compulsivo, lo sfogo di un attimo tra i fumi dell’alcool, l’effetto di sostanze che cambiano la percezione, il combinato malsano di musiche e luci psichedeliche – ossia che modificano la psiche – in un’atmosfera di promiscuità ed esagerazione, in cui, come nei filmati hard, conta solo la prestazione.
Il più antico racconto di cui si ha conoscenza, l’epopea sumerica di Gilgamesh, ha tra i protagonisti Enkidu, un essere mortale – a differenza del semidio Gilgamesh – di aspetto e costumi brutali, un primitivo umanizzato proprio da una donna, con la quale trascorre un torrido periodo di relazione totale, un’iniziazione dalla quale esce trasformato, incivilito. Triste regredire a selvaggi preda di istinti e dipendenze, senza distinzione di sesso.
Questo ci sembra lo scenario della vicenda, sempre meno rara, e chiama in causa il mondo al contrario, la terribile mancanza di un sistema di principi che ridia senso a una società in cui il politeismo dei valori – constatato un secolo fa da Max Weber – è sostituito dall’indifferenza dei valori, che travolge innanzitutto i più fragili, mai educati al limite, alla continenza. L’uomo è l’essere che sa rinviare, procrastinare bisogni e piaceri. Non è più così, tutto e subito, l’imperativo del consumo e della pubblicità. Il crollo travolge la società intera.
Il caso fiorentino presenta un’altra faccia della responsabilità personale ( e giuridica) dei propri atti. Il concetto di non punibilità è insidioso, un ambito a cavallo tra morale, psicologia, scienza medica e filosofia, che condivide con il diritto la categoria di “suitas”, la padronanza di sé nel compimento degli atti della vita con le conseguenti responsabilità. La soluzione di ieri era chiara: esistono il bene e il male, il giusto e l’ingiusto; la distinzione, prima che nella legge, sta nel cuore e nell’intelletto umano, dotato della capacità di distinguerli.
Il concetto è saltato e non resistono altri appigli. Tuttavia, a qualcosa occorre pur riferirsi per definire la responsabilità. Cede – travolta dalle sostanze e dai mondi artificiali – anche la capacità di intendere e di volere, cardine dell’elemento psicologico dei reati. Nella fattispecie, è da presumere che il GUP abbia applicato l’articolo 42 comma 1 del codice penale, per il quale “nessuno può essere punito per un’azione o omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”. Il corrispettivo laico della piena avvertenza e deliberato consenso. L’accertamento della suitas precede quello dell’imputabilità: un principio di civiltà che confligge in diversi casi con il senso comune.
Una condotta illecita è reato solo quando è frutto di un impulso cosciente e volontario. Ma se volontà e coscienza sono alterate dall’alcool, dalla droga o da altri contesti, come nel caso fiorentino, come se ne esce? I rischi sono molteplici. Il primo è lasciare impuniti moltissimi reati, una resa incondizionata del diritto, la rinuncia al giudizio e al risarcimento materiale e morale delle vittime. Un altro problema è che la cogenza della legge sia oltrepassata dal giudizio di innumerevoli “esperti” che finiscono per sostituirsi a chi deve giudicare secondo legge. Si apre la porta a una deresponsabilizzazione assai comoda per i malintenzionati, i criminali e i ricchi, in grado di mettere in campo specialisti delle più varie discipline per evitare la condanna.
E’ già capitato che l’ubriachezza, l’alterazione da sostanze stupefacenti e simili sia stata considerata un’attenuante o un’esimente perfino in casi di omicidio. Il risultato è la legalizzazione dell’ingiustizia. La mancanza di un giudizio netto della comunità rispetto al bene e al male rende drammaticamente difficile la convivenza tra segmenti di società sempre più diversi, incomunicabili.
Le vittime di Firenze sono tutti i protagonisti. I ragazzi perché preda degli istinti, ignari del valore della persona umana, avidi consumatori di pulsioni elementari, altrettanti Enkidu prima dell’esperienza che lo trasformò. Vittima la ragazza in ogni caso: se stuprata, per ciò che ha subito. Se (più o meno) consenziente per aver smarrito il rispetto di sé. Ma il vero responsabile è un sistema che ha abbattuto muri e barriere, privando del senso morale e di quello del limite. Stuprati dal mondo al contrario.