Non esiste forse profanazione maggiore dell’opera e della testimonianza esistenziale di Dominique Venner che quella di chi voglia derubricare la sua vita e la sua morte sotto la consumata categoria del romanticismo. È uno dei motivi per cui è difficile parlare di un testo come Un samurai d’Occidente: libro che porta con sé la grandezza ma anche il peso di un gesto radicale, quello compiuto dal suo autore poco prima della sua pubblicazione e lungamente meditato durante la sua stesura. È un libro di luce questo. Ma lo si fraintenderebbe in ciò che esso ha di più grande se scambiassimo l’illuminazione di un sentiero spirituale di natura epocale per un lampo improvviso, folgorante ma effimero. Venner vuole incidere nelle anime dei giovani europei un segno che è concreto, storico, pratico. Chi ha scambiato il suo darsi la morte per un beau geste da vecchio soldato o per la solita tanatofilia reazionaria, in fondo non ha compiuto uno sforzo ermeneutico molto superiore a quello di chi ha liquidato il fatto come il suicidio di un povero paranoico, ossessionato dalle libertà degli altri e da questa modernità troppo emancipata. Eppure, nei suoi scritti testamentari – uno dei quali è proprio il presente libro – non c’è traccia di trasporto romantico, di slancio melodrammatico, il che fa il paio con l’atteggiamento stoico, sobrio, tenuto da Venner negli ultimi istanti della sua vita, secondo quanto riporta la testimonianza di chi gli è stato vicino in quel momento. Se si volesse inquadrare l’autore in una categoria al contempo letteraria, filosofica e politica, forse dovremmo parlare di quel realismo eroico che Ernst Jünger aveva indicato essere lo stile dell’uomo nuovo uscito dalle trincee della Grande Guerra. Non un lirismo crepuscolare anima le pagine che state per leggere, quindi, ma un duro, severo richiamo alla realtà, per quanto inquadrato in una raffinatezza letteraria talora leggiadra. Realtà: sangue, suolo, vita, morte, popoli, confini, guerre, culture, Dei. L’Occidente, che si vuole laico e disincantato, vive in una bolla di mitologia edonistica, in una dimensione rarefatta e irreale in cui non esiste nessuna delle asprezze che fondano il reale. Esso è un brutto sogno dell’umanità, un’eccezione ridicola non solo rispetto a tutte le grandi civiltà del passato, ma anche a praticamente tutti i popoli e gli Stati del presente.
Certo, facciamo ancora la guerra, di tanto in tanto. Anzi, la facciamo spesso. Ma dall’altra parte del mondo, sotto dettatura delle multinazionali, con soldati professionisti, meglio se contractor, e comunque chiamandola “missione di pace” per esorcizzarla meglio. I confini per cui i nostri avi sono morti ci appaiono oggi come incomprensibili segni su mappe geografiche da riscrivere, feticci di un’umanità bambina. Quella che è la realtà quotidiana di tutti i popoli di ieri, di oggi e soprattutto di domani, per noi è una superstizione relegata a memorie feudali. Quanto sia risibile la supponenza di tale pretesa è cosa che si è palesata in particolar modo nelle cronache di questi ultimi anni. Venner, che aveva frequentato gli scantinati fumosi e complottardi dell’Oas, in cui si sognava invano un intervento militare che salvasse la Francia e il suo ruolo nel mondo, ha infine dovuto assistere all’inizio di un colpo di stato vero, stavolta riuscito, e su scala continentale. A partire dal 2011, sono almeno tre i fronti aperti dalle oligarchie
La meditazione sui fondamenti della politica avviene, come spesso accade a molti uomini d’azione improvvisamente costretti alla clausura, nella prigione della Santé, dove Venner passa 18 mesi di carcere duro nella sezione detenuti politici per il suo sostegno all’Oas. Differentemente da molti altri reduci, tuttavia, Venner non rimarrà incatenato al ricordo incapacitante dei fatti algerini ma cercherà costantemente di essere un uomo del proprio tempo. Basterebbe leggere il suo testo, scritto in carcere nel 1962, intitolato Pour une critique positive: un vero e proprio Che fare? di leniniana memoria offerto a un ambiente nazionalista che, in Francia come in Italia, appariva più romantico che politico, più arrabbiato che organizzato. A un mondo che faceva quindi dell’approssimazione un marchio di fabbrica, Venner cominciava a parlare di strategia, di organizzazione, di chiarezza circa i mezzi e circa i fini. Le sue stilettate all’ambiente dell’estrema destra potrebbero essere ristampate e diffuse oggi senza perdere un grammo del loro valore. «Appena uno recluta dieci liceali – scriveva – si prende per Mussolini». E ancora: «I “nazionali”, che ammirano tanto la disciplina presso gli altri, sono, in pratica, dei veri anarchici». Chi abbia un po’ di frequentazione con certo neofascismo nostrano non tarderà a constatare la sconfortante attualità dell’analisi. Alla sinistra rimproverava invece di essere… conservatrice: «I marxisti non sono più rivoluzionari», scriveva in Europe-Actionnel febbraio del 1966. L’interesse per le scienze della prima Nouvelle Droite deriva tutto dal suo “realismo biologico”, mentre sul tema dell’immigrazione i suoi editoriali furono a dir poco preveggenti. Allo stesso modo, il classico nazionalismo “esagonale” dei francesi uscirà sconvolto dall’irruzione nel proprio panorama culturale del mito dell’Europa-Nazione, di cui Venner (in parallelo, negli stessi anni, con Jean Thiriart) farà una bandiera. In Mémoire vive, l’autobiografia intellettuale di Alain de Benoist, il ruolo di Venner è spiegato con estrema precisione: «Rispetto a una destra essenzialmente reattiva, non interessata che all’urgenza […] Venner sottolineava l’importanza di un lento lavoro di azione risoluta e ostinata, portato avanti da uomini e donne coscienti degli obbiettivi a lungo termine e, soprattutto, ideologicamente strutturati». Anche la fase leninista non fu che un momento di passaggio, tuttavia. La battaglia, stavolta, si spostava ancora più all’interno, in una metapolitica di profondità unita a un incessante lavoro su se stesso. Venner abbandona ogni ambizione movimentista e comincia la sua avventura di storico. Ne nasceranno decine di libri e due riviste, Enquête sur l’histoiree La Nouvelle Revue d’histoire. Non si tratta tuttavia, del lavoro dell’erudito sganciato dal mondo o dello scrittore innamorato del proprio ombelico. Ogni libro, ogni articolo sono un proiettile di una guerra spirituale presente o futura. La preoccupazione per la polis resta intatta. Fuori, intanto, la Francia è cambiata. La decolonizzazione, che Venner poté osservare in atto nella sua dimensione algerina, crea un’onda di ritorno che sommerge l’Europa, aiutata dalle scelte politiche suicide della politica (non solo di sinistra: saranno i governi di destra ad aprire per primi le frontiere transalpine in ossequio ai diktat del grande padronato in cerca di nuovi proletari). Nelle periferie, dopo aver preliminarmente sostituito le classi popolari autoctone, polveriere etno-religiose crescono e si autoalimentano, pronte a esplodere in maniera pirotecnica. Quando il governo socialista di Hollande mette mano alla famiglia, equiparando il matrimonio omosessuale a quello etero in un Paese che ha già da anni le unioni civili, un vasto moto di ribellione attraversa la nazione. Le manifestazioni di protesta sono oceaniche, nell’incredulità dei media ufficiali che prima nascondono e poi demonizzano il dissenso. Venner, dal suo blog, partecipa alla rabbia verso l’ultimo affronto all’identità francese. La sua idea è che in ballo ci sia molto di più che il reclamizzato matrimonio gay, tema che a prima vista non dovrebbe scaldare il cuore a chi sia “paganamente” privo di complessi sessuofobi. Un buon conoscitore della Francia come Gabriele Adinolfi, si incaricò all’epoca di spiegare all’inizialmente dubbioso pubblico italiano perché proprio su una battaglia spesso definita di “retroguardia” si siano attivate tante energie, anche d’avanguardia: «Ritengo – scriveva sul sito NoReporter – che si debba capire cosa sta accadendo in Francia. Qualcosa che non c’entra più di tanto con il sesso e men che meno con l’omofobia. Ci sono diversi militanti nazionalisti francesi, cattolici come pagani, che sono omosessuali, eppure militano contro l’omomatrimonio. Forse hanno capito che questo gioco al massacro determinato dai diritti delle minoranze e dallo scontro tra i sessi è un progetto per distruggere definitivamente la società, forse hanno capito che la sfera privata non ha bisogno di vetrine se non la si vuole semplicemente mercificare. Forse sono abituati da tempo immemore ad una società che non è omofoba e non sentono quindi la necessità che diventi omofila od omocratica. Oppure, più semplicemente, seguono l’ondata premettendo la loro appartenenza ideale a quella sessuale. Fatto sta che, per ragioni che forse nessuno riuscirà a spiegare, in Francia è accaduto ultimamente qualcosa di ampia portata. Dopo decenni di attacchi alla lingua, alla cultura, alla demografia, mezza Francia ha fatto quadrato contro i matrimoni gay perché sente minacciato l’ultimo quadrato della società, la famiglia. Era meglio reagire prima? Era meglio reagire su altri temi? Sono domande retoriche. Sono forti pulsioni psicologiche improvvise e mobilizzatrici che determinano con forza irrazionale e profonda i tornanti storici. Oggi sul tema si contrappongono due France come ai tempi di Dreyfuss». È esattamente questo il punto. Ma come replicare all’attacco delle élite cosmopolite? I ragazzi della Manif pour tous scendono nelle piazze. Belle, grandi piazze, seppur effimere e destinate a essere travolte dalle proprie contraddizioni dopo aver assicurato un posto nella destra liberale a qualche “liderino”. Venner, sul versante della politica di strada, ha già dato. Sul versante istituzionale c’è già un Front national in espansione che, nel bene o nel male, è destinato a fagocitare ogni istanza nazionale. Di un nuovo attivista con qualche anno di troppo non c’è bisogno, men che meno di un nuovo aspirante deputato fuori tempo massimo. E allora di cosa c’è bisogno? Dominique Venner si è già dato una risposta: di esempi. Inizia una meditazione interiore che porterà lo storico, il 21 maggio 2013, nella cattedrale di Notre-Dame con una pistola in mano. Dove e quando nasce questa idea? Nessuno lo sa. O, meglio: lo sa chi deve saperlo. Accanto a lui, quel giorno, ci sarà il fidato Fabrice, che chi scrive ha intervistato per il quotidiano Il Foglio. «Egli – spiegava l’amico di Venner – non ha “annunciato” apertamente la sua intenzione di darsi la morte volontariamente. O comunque non l’ha detto a me. Dominique era un uomo segreto, sottile, poco espansivo. No, per comprendere che egli stava progettando di lasciare il mondo in questa maniera occorre leggere tra le righe di certi articoli che egli ha scritto durante i due anni che hanno preceduto il suo sacrificio. A posteriori, ora che conosco l’evoluzione della sua riflessione, dopo che egli mi ha donato, prima di entrare a Notre-Dame, un documento che ne stabilisce tutta la cronologia, posso confermare che egli aveva evocato questa possibilità ai suo
i figli, a sua moglie e a tre suoi fedeli camerati. Ma senza dire dove e quando». Per capire il ruolo che ha avuto Fabrice in quel giorno di maggio del 2013 bisogna però fare un salto mentale non indifferente, verso ere, etiche, uomini di un’altra consistenza: «Credo di poter dire di aver avuto un ruolo dichiarato e uno sottointeso. Mi spiego meglio. Il mio primo ruolo, che costituisce la missione che egli mi diede chiaramente quel giorno, fu quella di avvertire sua moglie e i suoi figli non appena mi fossi assicurato che egli era riuscito nel suo suicidio. Non voleva che i suoi parenti lo sapessero dalla televisione. Ma conoscendo il suo interesse, direi la sua fascinazione, per il Giappone e per il mondo dei Samurai, credo di poter dire che la presenza di un amico fedele “obbliga” chi ha deciso di darsi la morte ad andare fino in fondo nel suo gesto. In questo modo, egli non può più tornare indietro se non perdendo l’onore agli occhi della sua comunità. Nel tragitto che ci conduceva a Notre-Dame, egli mi parlava della necessità di essere leali e fidati fino alla fine… Spero di essere stato degno della sua fiducia poiché egli ha messo, fino all’ultimo respiro, i suoi atti in accordo col suo pensiero».
Gli ultimi attimi di Dominique Venner, nelle parole di chi ce li ha raccontati, sono contrassegnati da uno spirito di serenità e concentrazione, talora persino velata da una composta ironia. A metà pomeriggio è già stato fatto ciò che doveva essere fatto. Dato il luogo, la notizia trova larga eco sulla stampa. Lo “scrittore antigay Dominique Venner si è suicidato a Notre-dame”, scrivono senza troppa fantasia i siti di mezzo mondo. Verso sera, viene divulgato il testo della sua lettera di commiato. «Al crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli per la mia patria francese ed europea, sento il dovere di agire finché ne ho la forza; ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà. Offro quel che rimane della mia vita nell’intenzione di una protesta e di una fondazione». È un testo agile, non ridondante, ma marmoreo, definitivo. Vi si proclama l’esigenza di un’etica della volontà che insorga contro la fatalità di una decadenza che non è il nostro destino obbligato. Gli uomini, se motivati da una fede e guidati dagli esempi, possono cambiare il corso degli eventi. Questa convinzione, che ha guidato Venner nelle sue analisi storiche, spesso volte a indagare i momenti di choc, i tornanti fondamentali, le occasioni in cui tutto cambia e prende una direzione inaspettata, farà da colonna vertebrale anche al messaggio esistenziale che questo scrittore ha deciso di lasciare agli europei. Proprio per questo, quello che avete tra le mani è un manuale di eroismo. Nessuno di noi, ovviamente, diventerà ciò che non è solo per aver letto il presente saggio: certe cose le decide, prima di noi, la nostra razza dello spirito. L’eroismo che insegna Dominique Venner ha a che fare con la predisposizione d’animo da tenere di fronte alla crisi, potenzialmente definitiva, della civiltà europea. Quella stessa crisi che ha costituito l’atmosfera spirituale in cui sono state vergate – con “angoscia” virile – le pagine fatidiche che state per leggere. Ma se fosse solo l’ultimo capitolo di un “pensiero della crisi” che da Oswald Spengler a Julius Evola ha informato buona parte della cultura novecentesca, il saggio di Venner non avrebbe forse nulla di particolarmente originale. Se a dettare Un samurai d’Occidente fosse stata solo la consapevolezza del “rotolare dal centro verso la x”, per usare l’espressione di Nietzsche, se si trattasse solo di constatare una perdita di senso o, più prosaicamente, la perdita di centralità dell’Europa nella storia, allora lo storico francese sarebbe solo un epigono, magari molto ben ispirato, di tanti illustri cantori della decadenza, a cominciare da Pierre Drieu La Rochelle, che con Venner condivide anche la scelta esistenziale della morte volontaria. In questo libro, tuttavia, c’è qualcosa di più. C’è la risonanza di un tornante storico decisivo, la visione ormai piena e trasparente di un crollo totale. C’è la chiamata alle armi contro un assalto che vuole e può essere definitivo. Rispetto all’attuale attacco all’Europa, di cui ha fatto in tempo a veder la prima parte, Venner non si presenta più con le vesti auree ma in fondo rassicuranti del precursore, del veggente, dell’anticipatore. Al contrario, egli è nella crisi, è dentro la tempesta. Non è la vedetta che annuncia le prime avanguardie del nemico, è colui che già dentro la mischia e nell’apparente disfatta richiama all’ordine, serra i ranghi, ridona ragioni per combattere e vincere, anche a costo del proprio sacrificio. Un pensatore che invece l’oscurità l’aveva presentita da lontano, il già citato Julius Evola, aveva tracciato la traiettoria della decadenza, ma aveva anche parlato della possibilità di una “età eroica” che irrompesse nella parabola discendente e causasse uno squarcio nella storia, una riapertura che riproponesse, in forme sempre nuove, la luminosità dell’Origine. La possibilità eroica è ciò che distingue la metafisica della storia evoliana da quella, per esempio, guénoniana, ed è ciò che ci rende quel messaggio oggi ancora vivente. Se Venner ci appare come un maestrodi eroismo non è quindi solo per una questione etica o estetica, non è, come si diceva in apertura, per “romanticismo”, ma è perché sono gli eroi a tracciare le vie che ringiovaniscono il mondo. Un pensatore italiano che ha avuto tanta influenza sull’ambiente francese e che Venner conosceva bene, Giorgio Locchi, ha avuto il merito di porre per primo i contorni dell’opposizione fondamentale, a un tempo politica, culturale e spirituale, fra fine della storia e rigenerazione della storia. Monoteisti, hegeliani, marxisti, liberali, globalisti, immigrazionisti si situano nel primo campo: per loro, imperi e religioni, guerre e rivoluzioni, identità e culture sono parte di quel grande equivoco che è l’avventura storica dell’uomo, un equivoco da risolvere al più presto “chiudendo” la storia e ripristinando l’Eden perduto in qualche forma più o meno secolarizzata. Per noi, invece, la storia è il campo della libertà e della volontà. E non c’è crisi che non possa risolversi in un nuovo inizio. La consapevolezza di questo nuovo inizio è viva in ogni pagina di Un samurai d’Occidente, ed è il motivo per cui questo libro – sorto all’ombra di un suicidio e con la certezza della catastrofe – non appare mai disperante o disperato. Questo è un libro di fondazione ed è proprio a un’opera fondativa che ci invita. Agli eroi spetta il compito di fondare le città, il che significa sempre: tracciare dei confini divinamente ispirati e accendere un fuoco sacro. Avere anche solo la consapevolezza di questo compito è il nostro modo di essere eroi. Cerchiamo di esserne all’altezza. Lo dobbiamo a Dominique Venner. Lo dobbiamo a noi stessi.
Adriano Scianca
(Prefazione al testo di Dominique Venner, Un Samurai d’Occidente, Edizioni Settimo Sigillo, curato da Andrea Lombardi, a cui va un particolare ringraziamento da parte della Redazione di EreticaMente)
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