“Tutto ciò che è scomparso è destinato a riapparire totalmente e tutto insieme, perchè è necessario che, col tramonto dell’isolamento della terra, la totalità del tempo che è apparsa nei cerchi del destino riappaia tutta insieme in ogni cerchio così come essa è apparsa prima di quel tramonto“
(Emanuele Severino, DIKE, Adelphi Edizioni, Biblioteca Filosofica, p. 141)
Con la sua scomparsa, annunciata ieri a funerali avvenuti, Emanuele Severino non solo ha privato la cultura italiana ed europea di uno degli ultimi pensatori in grande e profondo stile, ma ha invitato, di nuovo, a riflettere; e proprio sul nucleo essenziale del suo filosofare: quello dell’essere.
Nucleo più di ogni altro problematico; al punto tale che la storia stessa del pensiero occidentale può apparire come una contrapposizione tra la volontà di affrontarlo e quella di rifuggirlo, la quale si presenta a fasi alterne, talvolta attraverso momenti di ri – emersione radicale, come nelle pagine che aprono “Essere e tempo” di Heidegger.
Tuttavia, parlare di Severino significa, anzitutto, tornare a Parmenide, al pensare che è essere ed all’essere che è pensare: lo stesso, vale a dire, riprendendo il suo “Sulla natura”. Un essere immutabile, rispetto a cui il divenire non è che illusione. Severino va oltre, ben oltre: postula l’eternità di ogni essente. Tutto non è che uno scorrere rispetto ad un “cerchio dell’apparire”. Proprio per questo, non vi è essente che possa essere pensato come nulla, né che da esso possa sorgere, né che ad esso possa tornare.
Al contrario, la convinzione che ogni essente possa sorgere dal nulla e tornare al nulla, e quindi divenire tra i due estremi del nulla, costituisce il fondamento della dimensione storica dell’Occidente, e ne spiega la costante volontà, resa operante, di possedere, di usare, di combattere, di agevolare, diremmo, il ritorno al nulla di chiunque si collochi in termini di opposizione rispetto a questa dimensione.
In tutto ciò, questa volontà si esprime come indissolubilmente legata alla tecnica, la quale è sì azione e fatto, ma è anche linguaggio, ed in quanto linguaggio è sapere, uno “scire”, e quindi una “scientia”: è la scienza il sapere di oggi, il sapere che pone a guisa di ghigliottina le categorie dell’utile e dell’inutile.
Tornando all’eternità degli essenti, non si può non riflettere su Dio: Severino vi si dedicò ampiamente, sostenne che Dio, non potendo né creare né dissolvere, non poteva allo stesso modo esistere, e si vide mandar via dall’Università Cattolica, per incompatibilità con il cristianesimo: del procedimento se ne occupò Cornelio Fabro, e fu, quindi, vicenda tra metafisici.
In sostanza, e che il termine sia inteso nel suo senso più alto, per Severino si tratta di apparire e scomparire. Il nucleo richiamato sopra conduce, quindi, a questo. Verrebbe voglia, mentre pensiamo a lui, di usare termini poetici, o quanto meno di riportare alla memoria tanta, e tanta, poesia.
Basterebbe, però, soffermare lo sguardo su uno qualsiasi dei pensieri che affiorano continuamente nei frammenti della nostra quotidianità, e chiederci se davvero quel qualcosa che, magari, si tinge di nostalgia e ci accarezza silenziosamente non sia che scomparso dopo essere apparso, nell’eternità; nella sua eternità. Che, infine, non possa riapparire.
E’ proprio dei grandi pensatori portare a cercare di avvalersi dei loro strumenti e dei loro interrogativi, come se si intendesse rompere la cortina della distanza per intraprendere un dialogo incessante. Il dialogo di cui il pensiero di Emanuele Severino è stato causa continua; e continuerà, perché restano le sue pagine, le sue parole.
La filosofia è parola, ed è stupore. Ed è anche amarezza, per quanto può apparire in momenti come questo. L’amarezza di una necessità: quanto il filosofo Severino ha fissato resta fermo per sempre.
Marco Zenesini