“La cancellazione dell’Ordine del Tempio rappresenta la frattura dell’Occidente con la propria Tradizione – una tradizione che era religiosa e guerriera al tempo stesso, mediatrice tra il Potere Temporale e l’Autorità Spirituale.” Renè Guenon, Autorità spirituale e Potere temporale, Luni, 2005.
Una delle questioni più controverse ma allo stesso tempo più decisive e fondamentali per la costituzione e l’equilibrio di una società normale, ovvero tradizionale, è quella dell’autorità spirituale e del potere temporale, sulla quale invero è stato scritto fin troppo e fin troppo inutilmente, spesso senza neppure avvicinarsi al centro reale del problema. In realtà è questo uno dei vari problemi che, avendo veramente presente le dottrine tradizionali, non dovrebbe neppure porsi. In ogni caso, essendo la questione dell’ordinamento gerarchico legittimo essenziale e imprescindibile, un chiarimento su quest’ultima potrà risultare non privo di una qualche utilità. Secondo la tradizione indù vi fu, in un’era diversa dalla nostra, ovvero durante il Treta yuga, l’Età dell’argento della tradizione esiodea, una rivolta degli kshatriya, guerrieri detentori di un potere in origine sacro ma oramai corrotto in un senso “titanico”, contro i brahmani, detentori dell’autorità spirituale. Parashurama, sesto Avatara di Vishnu, in veste di brahma-kshatriya, ovvero di “sacerdote-guerriero”, avrebbe sterminato le innumerevoli schiere degli kshatriya ribelli, ripristinando così l’equilibrio.
Lo stesso concetto è in fondo rinvenibile, nella mitologia greca, nell’episodio relativo alla caccia del cinghiale calidonio. In tale mito il cinghiale rappresenta l’autorità spirituale originaria, legata alla mitica terra polare di Hyperborea, equivalente alla Varahidegli indù e alla Inis na Muice degli antichi irlandesi, tutti termini che etimologicamente sono in relazione col maiale e/o cinghiale[1]. Questa lotta tra Brahmani e Kshatriya è segnata dalla sovrapposizione simbolica avutasi, col predominio dei secondi, tra il Cinghiale e l’Orso in riferimento alla terra delle origini[2]. Secondo la mitologia greca l’animale, che doveva essere, cosa particolarmente significativa, di colore bianco[3], fu inviato da Artemide per via dell’empietà religiosa (similmente, ricorda Esiodo, la stirpe dell’età argentea fu annientata da Zeus per via della sua empietà) di un re, Oineo, che decise di liberarsene utilizzando i più valorosi eroi (potere guerriero ribelle) tra cui, significativamente, Atalanta, figura accostabile nel panorama ciclico all’Atlantide. Non a caso, ciò è intelligibile da quanto riporta Platone sulla mitica isola[4], tale rivolta degenerò successivamente in un ciclo titanico e brutale, ovvero nel Dwapara yuga o Età del bronzo, per via del venir meno della natura divina degli atlantidei.
Ora, sebbene in tale rivolta vi possa essere almeno qualcosa di comprensibile, specialmente per via della degenerazione dell’autorità spirituale originaria in un senso “femminile” e “lunare”, non per questo, in via di principio, un tale atto può apparire giustificato, essendo proprio a partire da allora che iniziarono a verificarsi tutte le rivolte e le degenerazioni successive, sostanzialmente tutte dovute alla confusione dei rapporti gerarchici originali e legittimi, confusione che a sua volta è ascrivibile, in definitiva, alla scomparsa della purezza spirituale originaria e unitaria conservatasi, in maggiore o minore misura, presso la casta sacerdotale e presso quella guerriera.
Ora, in origine, come in ogni civiltà tradizionale di tipo superiore, la casta sacerdotale non si è mai ridotta a semplice intermediaria passiva delle influenze divine, ma era diretta conoscitrice dei Misteri e delle Essenze divine, e quindi partecipe di esse. È per questo che, ad esempio, presso i germani una medesima radice *Gud- valeva a designare gli dei e i sacerdoti, e lo stesso potrebbe dirsi per molti altri casi, come per il sanscrito Brahman e brahmanah, rispettivamente Dio e sacerdote. Questo ruolo sommamente attivo contrasta non di poco con l’immagine debole e sbiadita che generalmente se ne fanno i moderni, che a riguardo hanno in mente solo il tipo del “prete” e del “chierico” o, al massimo, dell’asceta rinunciatario e quasi nemico del mondo. In effetti, secondo la concezione gerarchica tradizionale, il sacerdote era tenuto a impersonare quanto di più vicino vi fosse all’ “Uomo Primordiale” in quanto intermediario tra Cielo e Terra, e mentre l’attività del guerriero era essenzialmente rivolta verso l’esterno, la sua era rivolta massimamente verso l’interno; era dunque “attività interiore”. Con ciò non vogliamo affatto dire che la realtà dell’azione del guerriero debba necessariamente esaurirsi nell’effimera esteriorità del contingente, ma che quantomeno sia normalmente orientata verso il “mondano”, mentre, come secondo la tradizione taoista, l’attività del Cielo è non-agente (wou wei), il sacerdote, in quanto incarnazione del polo positivo Yang, l’aspetto luminoso dell’Essere, non agisce esteriormente, ma interiormente, e per questo è, in fondo, più integralmente “attivo” del guerriero tipo. È poi logico e necessario che la funzione del guerriero sia quella di Signore e Guardiano del mondo degli uomini, mentre quella del sacerdote riguardi essenzialmente i mondi superni divini. Si potrebbero fare qui vari esempi di questo rapporto, uno di questi è quello tra “piccoli” e “grandi” misteri, i quali sono in rapporto rispettivamente con i guerrieri e con i sacerdoti. Infatti gli uni agiscono per la ricostituzione del “paradiso terrestre” e dello stato “centrale” originario, gli altri per l’elevazione verso gli stati superiori, ovvero per la conquista della “Gerusalemme celeste”.
Questo per quanto riguarda il rapporto normale tra guerrieri e sacerdoti. Tuttavia si deve però anche prendere in considerazione il rapporto che può intercorrere tra i primi e un qualcosa come un “clero” o un sacerdozio di natura alterata, “lunare” o “riflessiva”, ovvero non avente più una natura “centrale” e “solare”; in tal caso affermiamo che non vi è dubbio circa la superiorità dei guerrieri e della spiritualità guerriera. È proprio in virtù di queste considerazioni che si può correttamente dire che esiste, in linea di principio, un sacerdozio autentico e originario, che a buon diritto può definirsi “polare” e un sacerdozio “derivato”, se non cronologicamente almeno logicamente e ontologicamente, che può essere definito “lunare” secondo ciò che potremmo definire una gnoseologia delle tipologie dello Spirito. La relazione gerarchica complessiva normale e legittima viene dunque a configurarsi in questi termini: il guerriero è gerarchicamente subordinato al sacerdote del primo tipo, non così però a quello del secondo tipo, giacché in tal caso gli si deve riconoscere una dignità spirituale maggiore.
L’ultimo punto che va chiarito riguarda la concezione tradizionale della regalità, concepita nella sua varietà di manifestazioni. Anzitutto bisogna far riferimento all’ideale supremo della regalità, ovvero quello del “re pontefice”. Presso i romani esisteva ancora la concezione del “Rex sacrorum”o del “Pontifex maximus”, che verosimilmente, almeno nel primo caso, ricalcava un’istituzione monarchica, per i greci c’era il “(W)anax”, re sacrale e supremo, superiore al Basileus, presso gli egizi il re Faraone, supremo sacerdote, presso gli antichi germani il *Kuningas, o ancora presso i cinesi il “Wang”, “Imperatore del Mezzo”, presso i giapponesi il “Tenno”, imperatore celeste, noto anche come “Mikado”, ovvero come “augusta porta” verso i mondi superiori. È cosa molto interessante notare che presso gli antichi germani, i costumi dei quali riflettono piuttosto fedelmente quelli degli indoeuropei originari, la nobiltà manteneva ancora i due poteri indivisi, come dimostra il ruolo dello *erilas, insieme condottiero, sacerdote e saggio maestro di rune.
Da tutto ciò è evidente come la più antica istituzione monarchica fosse in stretta relazione con il sacerdozio stesso e contenesse in maniera indivisa i due poteri, per ciò stesso configurandosi come l’autorità suprema. Si può inoltre parlare a buon diritto di due tipi di regalità, “temporale” e guerriera l’una, più spiccatamente spirituale e sacerdotale l’altra, e che perciò il secondo tipo è anteriore al primo e lo comprende in sé, entrambi i tipi potendo ciononostante convivere in un medesimo contesto tradizionale (si pensi a civiltà di tipo imperiali, come quella del Sacro Romano Impero di nazione germanica, avente, allo stesso tempo, un’autorità regale centrale dalla forte impronta sacrale e diverse autorità regali subordinate, a carattere territoriale, dalle connotazioni meno auguste). Questa seconda e, per così dire, “derivata” figura regale presenta caratteristiche anzitutto guerriere e militari, ma non di rado si accompagna a manifestazioni carismatiche di non poco conto.
A questo riguardo ci vengono in aiuto le celebri leggende di Artù e Merlino. Qui Artù in alcuni racconti appare come un’immagine dell’Imperatore del Mezzo o, per dirla in termini indù, del Chakravartin, specie in quanto figlio di Uther Pendragon, il “capo dei cinque”, ovvero il re supremo che risiede nel “quinto regno”, in celtico “Mide”, il regno posto al centro dei quattro punti cardinali[5]. Tuttavia Artù rappresenta il re guerriero per eccellenza, ovvero l’Orso, in celtico Arthos, mentre Merlino è il prototipo del sacerdote/druido, che i celti chiamavano anche Cinghiale, il dominatore solitario della foresta. Come chiarire tutto ciò? Vi sono infatti tradizioni, sopravvissute fino ai nostri tempi in forma di fiabe e racconti popolari, come quella della foresta incantata di Broceliande o Brocelandia, in Normandia, in cui il “regno terreno” di Artù appare in fondo come effimero rispetto al “regno sopramondano” dell’isola di Aval, che sembra, per così dire, una versione trasfigurata e ancora più elevata dello stesso potere. Questa ambiguità possiamo trovarla anche in tradizioni a noi più prossime, come quella romana, in cui, com’è noto, il titolo di imperator, pure utilizzato per designare una sovranità indiscutibilmente sacrale e suprema, aveva origine militare. La chiave di interpretazione, a nostro giudizio, risiede nel fatto che qui abbiamo essenzialmente a che fare con classi e funzioni che, originariamente, erano votate alla trascendenza, ovvero ad un costante auto-superamento, dunque come dei “modelli derivati” in cerca della conquista dell’archetipo originario, punto di unione di sacerdoti e guerrieri. Per questa semplice quanto ignorata ragione è possibile che, in apparente ambiguità, le funzioni del “re guerriero” e del “re sacrale” vengano a trovarsi in una medesima figura mitica o leggendaria. Ma questo non deve però indurre a confusioni circa l’ordine gerarchico legittimo generale. Tale coesistenza può appunto essere spiegata considerando che entrambi i tipi di regalità sono simbolicamente “centrali”, ma l’uno è più elevato e originario dell’altro. Questa “centralità” comune ad entrambe le regalità può aver indotto a sovrapporre e finanche a confondere questi tipi in una molto generica quanto confusa idea di sovranità.
Non bisogna però commettere l’errore di pensare che, secondo quanto abbiamo appena esposto, l’ambito della casta guerriera e del sovrano cosiddetto “temporale” sia un qualcosa che col sacro non abbia quasi nulla a che vedere, e infatti una simile idea può portare a confusioni non da poco. Sfortunatamente in Occidente, già a partire dal Medioevo, ma poi ancor più nei secoli successivi, si è verificata una certa confusione che continua a disorientare i più. Questa confusione ha le sue radici in parte nella pretesa, potremmo dire “titanica”, da parte del potere semplicemente temporale di assurgere a potere supremo, in parte nella decadenza dell’autorità spirituale, la prima avendo generato, partendo dalle rivolte dei comuni contro il Barbarossa, il concetto tutto moderno di “stato laico”, la seconda avendo prodotto idee quale quella del “papa re”, che in fondo altro non fanno che pretendere di attribuire al clero cattolico poteri che non gli sono mai stati propri o che quantomeno non gli si addicono per natura. A nostro personale avviso non uno scarso ruolo ha giocato, in tale confusione, il sovrapporsi della religione cristiana a quelle europee preesistenti, essendo in fondo l’autorità spirituale di tipo papale e, in genere, clericale quanto di più lontano dallo spirito autenticamente romano. Il risultato fu una snaturalizzazione profonda dello spirito europeo, che dovette adeguarsi, cosa davvero tragica, a un sentire interamente diverso ed estremamente lontano dal proprio.
Citando Wagner:
“per quanto l’innesto sulle proprie radici di una cultura che le è estranea abbia prodotto frutti di altissima civiltà, esso è costato e continua a costare innumerevoli sofferenze all’anima dell’Europa”.
Queste considerazioni ci portano ad analizzare un po’ più da vicino l’importante problema delle degenerazioni “laiche” e “clericali” del Potere, e appunto diciamo qui Potere e non potere o poteri perché esso in fondo è unico, come unica è la sua autentica radice, cambiando solo la modalità della sua rappresentazione, più o meno vicina al modello originario. Propriamente parlando non esiste né può in alcun modo esistere alcun “potere laico”, se con potere si intende quel che tradizionalmente si è sempre inteso, ovvero una Forza trascendente proveniente dall’alto assunta attivamente. Già da questo ci si può rendere conto del vero e proprio abisso che separa la concezione sacrale da quella “formale” e “laica” del potere, quest’ultima basata solo su consensi e interessi di natura umana, senza alcun riguardo per l’effettiva qualifica di un capo al comando. Esattamente per la stessa ragione non si può neppure parlare di “autorità spirituale” per quanto riguarda il clero cristiano e almeno gran parte dei moderni sacerdozi di altre religioni, giacché questi sono oramai più o meno privi di ciò che abitualmente si suole chiamare “spiritualità”.
Tornando alla questione dei “piccoli misteri” e dei “grandi misteri”, se li riferiamo rispettivamente a guerrieri e a sacerdoti, ciò è solo una constatazione di ordine assolutamente generale e non esclude affatto possibilità superiori per la spiritualità di tipo guerriero; basti pensare che lo stesso Gautama Buddha, non unico tra diversi maestri spirituali della storia, nacque di stirpe guerriera (kshatriya). Potenzialmente, infatti, un guerriero può benissimo raggiungere un “livello interiore” pari o anche superiore a quello di un sacerdote, e perciò non è detto che il suo ambito non possa anche essere, in una certa misura, quello dell’autorità spirituale. Non mancano infatti casi, nella storia indù, di kshatriya istruttori di brahmani.
Dunque, in definitiva, questi due tipi non sono che due diversi modi d’essere dell’aristocrazia in generale, ed entrambi possono perciò essere qualificati come “interiormente attivi”, ammesso di tenerne presenti i modelli reali, sebbene l’attività degli uni sia principalmente rivolta verso l’esterno e quella degli altri versi l’interno. Bisogna però dire che sono esistite vere e proprie “ascesi guerriere” nell’antichità, e il testo più celebre a riguardo è senz’altro la “Bhagavad-Gita”, il cui eroe protagonista, Arjuna, è guidato alla guerra dal dio Krishna, che rappresenta il Sé divino profondo, guerra qui vista anzitutto come guerra interiore, verso le proprie macchie e i propri difetti, insomma come una vera e propria opera di purificazione interiore mirante alla “liberazione”, ovvero al “moksha”.
Infine potremmo dire, in sintesi, che è essenzialmente il potere temporale ad essere subordinato all’autorità spirituale, e che quest’ultima, sebbene principalmente associata ai sacerdoti, non sia loro monopolio, e possa essere eventualmente associata anche ai guerrieri migliori, nei quali l’atteggiamento semplicemente guerresco sia subordinato a qualcosa di più elevato, al principio dello Spirito. Abbiamo poi anche chiarito che non necessariamente il re è da considerarsi solo come “dux”, condottiero e capo militare, al limite dotato di un carisma e di un ascendente particolare, ma può eventualmente avere un carattere più spiccatamente sacrale, e abbiamo indicato tale ruolo in quello rivestito in varie civiltà tradizionali da un tipo umano più elevato, in cui in realtà rimane ben poco di propriamente umano.
È quindi chiaro che a dover essere subordinato e consacrato da un sacerdote è solo il “re guerriero”, mentre per il “re supremo” o “sacrale” che dir si voglia non vi dovrebbe essere alcuna subordinazione, né consacrazione (e non avrebbe in effetti molto senso), essendo egli stesso il vertice della scala gerarchica nonché sommo sacerdote, incarnante in maniera vivente e reale il principio divino presso la sua comunità.
G. Arminio De Falco
NOTE
[1] Si veda, ad esempio, quanto scrive Guènon in “Simboli della scienza sacra”, Adelphi, 2011, alla voce “Il Cinghiale e l’Orsa”.
[2] R. Guènon, Ibidem, p. 148.
[3] Ateneo, Deipnosophistarum, IX, 13. Il cinghiale calidonio appare dunque come l’equivalente dello Shweta–varaha indù.
[4] Crizia, 120d-121c.
[5] Fatto interessante è che i celti usavano ancora recarsi, fino all’epoca della conquista di Cesare, al centro esatto della Gallia, considerato luogo sacro per eccellenza, in determinati periodi, per celebrare riti solenni. Una simile usanza era quella irlandese di dividere in quattro l’isola, al centro della quale era situata la dimora del re supremo di tutte le tribù, che veniva eletto per responso di una mitica pietra, detta LiaFail, secondo la leggenda uno dei quattro tesori portati dai divini Tuathadè Danann dalla loro remota sede nordica. Tale pietra avrebbe “urlato” quando un legittimo re si fosse seduto su di essa.
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