La convinzione filosofica oggi dominante negli ambienti “accademici”, e non solo, è quella che ritiene che la grande opera di Kant, “La critica della ragion pura”, abbia sancito una volta per tutte la fine della metafisica tradizionale platonico-aristotelico-cristiana, in quanto in essa vengono palesati i limiti invalicabili per la ragione pura teoretica, considerata incapace di risolvere le antinomie e i paralogismi inerenti alla fondazione di quelle idee (anima-origine del mondo-Dio) che avevano costituito i caposaldi di quell’apparato teologico-metafisico che aveva dominato tutto il mondo medioevale. Infatti nella “Dialettica trascendentale”, che è quella parte della “Critica” che si occupa delle idee, Kant aveva dimostrato quelli che sono gli ostacoli insormontabili per la ragione teoretica. In realtà gli argomenti di Kant arrivavano già tardi: a distruggere la veduta del mondo umanistico-religiosa vi era piuttosto l’ imposizione tecnico-capitalistica che si stava pervasivamente affermando nelle società europee. Per cui egli pensava di chiudere un grande capitolo filosofico, quando la realtà storica di fatto lo aveva già di fatto chiuso.
Tuttavia è un gravissimo errore culturale, certamente propiziato e voluto dal potere culturale dominante, far credere che Kant abbia voluto porre fine in modo definitivo alla metafisica intesa come ricerca su e per l’Essere. E’ vero che con lui finisce, per lo più e per i più, la vecchia metafisica che pensava di conoscere l’Essere e Dio, ma in realtà egli apriva le porte ad una nuova metafisica, tutta rivolta a comprendere il rapporto fra l’essere umano (che chiameremo heideggerianamente esserci) e l’Essere (la natura, il mondo finito) stesso. Considerare la “C.R.P.” (si userà d’ora in poi questa abbreviazione per riferirci all’opera kantiana)
L’importanza di tali pagine fu capita per primo da Martin Heidegger, che con straordinaria profondità ci scrisse sopra un intero lungo capitolo di una sua opera preparatoria (2) a quella che lo fece diventare famoso e cioè “Essere e tempo” ed un libro intero successivo a questa (si veda “Kant e il problema della metafisica”, Ed. Laterza, Bari 1989).
Di cosa tratta Kant? Egli si sofferma su un tema centrale per il pensiero: come è possibile l’applicazione dei concetti alla realtà materiale fenomenica (al ciò che appare), dal momento che i concetti sono del tutto eterogenei (nel senso di completamente diversi) rispetto alle sensazioni forniteci dalla cosa osservata? I concetti sono strumenti del pensare, mentre le sensazioni sono semplici affezioni, ossia modificazioni del nostro apparato percettivo. I concetti poi possono essere carichi di contenuto empirico, ad esempio termini come piatto, libro, penna, ecc. che sono cose concrete che tocco, vedo, sento, ecc.; ma ci sono anche concetti privi o quasi di questo contenuto soprattutto se sono estesi, come ad esempio, umanità, animale, vivente, essere ecc.. I più astratti di tali concetti sono chiamati, proprio per la loro somma genericità, puri. I concetti puri sono quelli che Aristotele per primo chiamò categorie, cioè concetti universali massimamente estesi e perciò del tutto privi di qualsiasi legame con l’esperienza. Anche Kant, chiamerà questi concetti puri categorie, oppure forme a priori (a priori=indipendenti dall’esperienza) dell’intelletto o ancora predicati primi. Essi costituiscono le forme supreme del nostro pensare. A differenza delle 10 categorie di Aristotele egli ne individuerà 12, che possono essere raggruppate in 4, ossia in categorie della quantità, della qualità, della relazione e della modalità, che appunto sono gli “strumenti” del nostro pensare e che tutta la comunità filosofica e scientifica è stata concorde ad accettare definitivamente. Tuttavia, scrive Kant, anche i concetti empirici, che sono i più “carichi” di contenuto intuitivo-sensoriale, rimandano pur sempre ad un concetto puro, cioè ad una categoria. Se dico, ad es., piatto, questo concetto ha omogeneità con quello geometrico di circolo che è un concetto puro di tipo quantitativo. Come è possibile allora questa “relazione” fra un concetto prodotto da una sensazione derivata da un ente esterno (Kant crede fermamente nella realtà esterna del mondo) con un concetto astratto prodotto dal pensiero umano che Kant definisce come Io Penso (Ich denke)? Come è possibile questa sussunzione, o unificazione in cui viene sottomesso il dato materiale a posteriori (a posteriori=dipendente dall’esperienza) con quello formale a priori da parte dell’Io penso? Ed è possibile che ci sia una sintonia, fra due realtà così eterogenee?
Scrive Kant a tal proposito: “Ora è chiaro che ci ha da essere un terzo termine, il quale deve essere omogeneo da un lato colla categoria e dall’altro col fenomeno, e che rende possibile l’applicazione di quella a questo. Tale rappresentazione intermediaria deve essere pura (senza niente di empirico) e tuttavia, da un lato, intellettuale, dall’altro sensibile. Tale è lo schema trascendentale . Il concetto dell’intelletto contiene l’unità sintetica pura del concetto del molteplice in generale. Il tempo, come condizione formale del molteplice del senso interno, quindi della connessione di tutte le rappresentazioni, contiene un molteplice a priori nella intuizione pura” (3).
Il tempo svolge allora il ruolo fondamentale che consiste nel fungere da tramite fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. Il tempo è l’intuizione (Anschauung, veduta) pura, soggettiva e formale, che Kant chiama senso interno, che fa sì che tutti i nostri stati interni si dispongano in un ordine di successione del prima, dell’adesso, e del poi, ossia del futuro, del passato e del presente. Anche i dati del senso esterno, quelli forniteci dall’intuizione pura dello spazio (pure essa soggettiva) vengono tutti accolti nel tempo, per cui esso è la forma a priori attraverso la quale percepiamo tutti i fenomeni. L’Io penso, dall’altro canto, non solo possiede la facoltà di unificare tutte le categorie, ossia la facoltà dell’appercezione trascendentale, ma anche quella, spontanea, della immaginazione produttiva. Kant riprende la concezione filosofica riguardante tale capacità da Aristotele (vedasi il libro “Sull’anima”), il quale riteneva che l’immaginazione produttiva fosse la capacità di fondere le molteplici immagini di oggetti affini in un’unica immagine generale, cioè in uno schema. Ad esempio chiamiamo cane tutti i vari e diversi tipi di cane: cane è un barboncino, cane è un alano, un setter e così via: lo schema cane perciò riguarda tutti i cani del mondo. Andando oltre Aristotele, Kant ritiene che lo schema, che è trascendentale perché è esso stesso a priori, sia una regola con cui l’Io penso ordina a priori il tempo secondo le categorie: ad ogni categoria corrisponde un rispettivo schema. Gli schemi sono quindi la prefigurazione intuitiva (temporale) delle categorie, ovvero le regole attraverso cui l’Io penso condiziona il tempo in conformità alle categorie. In altre parole lo schema è “syntesis speciosa temporis”, sintesi figurata del tempo. Ad esempio alla categoria della quantità corrisponde lo schema di numero, alla categoria qualità lo schema di grado, alle tre categorie che si riferiscono a quello di relazione (il più studiato da Kant) vediamo che alla categoria di sostanza (il ciò che è presente) corrisponde la permanenza nel tempo, alla categoria causa-effetto la successione nel tempo, a quella dell’azione reciproca la simultaneità, mentre alle 3 categorie della modalità, alla categoria della realtà corrisponde lo schema di un determinato tempo, a quella della possibilità, l’esistenza in un qualsiasi tempo, a quella della necessità l’esistenza in ogni tempo.
Heidegger scrive a proposito di questa relazione fra tempo ed Io penso: “L’io penso non è nel tempo (in questo Kant ha completamente ragione), ma esso è il tempo, più esattamente è un modo del tempo, ossia il modo del puro essere-presente” (4). Questo significa che l’appercezione trascendentale, la capacità unificante di ogni rapporto fra categorie, si lega con l’intuizione pura del tempo in modo indissolubile, sebbene, come s’è detto, l’Io penso sia pensiero puro, mentre il tempo è intuizione pura. Quindi, per essenza, essi rimangano separati, quantunque appartenenti ad una identità originaria. Il tempo compie quella mediazione necessaria per collegare il pensiero dell’esserci con la realtà fenomenica ed empirica che il mondo ci fornisce, creando quella sintonia che altrimenti sarebbe impossibile. In questo senso si può affermare che questo stretto accostamento fra tempo e pensiero implica quel “fatto” che viene definito come la caduta nel tempo.
Cos’è allora il tempo? Secondo Kant esso è una autoaffezione pura, che in se stessa è “…immobile e permanente…” (5). Questo significa che il tempo in quanto tale non muta, mentre muta l’esistenza fenomenica temporale degli enti viventi. Il tempo, pur essendo soggettivo come lo spazio, si oggettiva internamente in tutti gli enti. Il tempo esterno non esiste: esso in realtà è sempre locale, cioè è proprio di ogni singolo ente. Esso permane immobile negli enti che mutano temporalmente nella loro fenomenicità accidentale. Così pure il pensiero non muta nelle sue leggi e capacità, pur pensando. Questa affermazione Kantiana può sembrare oscura ed complicatissima, visto che il mondo degli enti è in perenne trasformazione. Ma se si chiede a una persona di 90 anni sana di salute e di mente se si sente vecchia, ella dirà subito di no. La vecchiaia sta nel fenomeno temporale dell’esistenza, cioè nell’esistenza come appare, non nel sostrato. Pensiero e tempo, come essenza degli enti, non mutano. Questo significa che tempo ed pensiero compongono l’Essere e comporta anche che sia Kant che Heidegger, che su questo punto concordano, non siano degli idealisti, poiché l’Essere non è solo pensiero perché “convive” con il “tempo”, che come autoaffezione pura è legato alla sensibilità. Soprattutto in Heidegger possiamo notare che si scorge dentro questa tematica una sorta di paganesimo implicito.
In base a quanto s’è scritto finora si può rilevare che la C.R.P. è soprattutto un’opera che apre le porte ad una nuova ontologia, cioè ad una nuova metafisica i cui sentieri sono stati esplorati con grande penetrazione da Heidegger, ma che non sono stati del tutto percorsi, e che mai lo saranno del tutto. Si tratta di una metafisica aperta, in cui la rivelazione della verità accadrà solo all’interno dell’Essere, che essendo anche tempo, non potrà non essere che parziale.
La caduta nel tempo è allora l’evento epocale dell’esserci umano. Il tempo dell’esserci è temporalità, ossia un poter-essere in avanti, indietro ed adesso. La temporalità muta all’interno di un tempo immutabile. Un esserci che ha perciò in sé sia la temporalità che la ragione. Gli stessi principi logici basilari della nostra mente come il principio di identità, il fondamento della nostra autocoscienza, e il principio di ragion sufficiente sono possibili solo grazie a questo evento. Un evento che ha dato il via alla nascita del linguaggio, della religione, della filosofia, dell’arte, in altre parole della storia. L’ebraismo e il cristianesimo hanno considerato questa caduta come il peccato originale: mentre la cacciata dall’Eden altro non è se non il passaggio, parafrasando Hegel, da una dimensione coscienziale di tipo animalesco in cui l’unica dimensione era quella della stupefazione perenne di un presente senza tempo, ad una dimensione autocosciente in cui l’esserci, caduto nel tempo, diventa poter-essere e come tale va a vivere le tre dimensioni della temporalità del futuro, del passato e del presente.
Tuttavia l’Essere, rivelandosi a noi, ci appare nella storia in forme e riferimenti diversi. Infatti l’evento della caduta nel tempo, eventualizzandosi, dà origine a linguaggi e a vedute culturali differenti. Per cui la stessa coappartenenza fra noi-esserci e l’Essere cambia di epoca in epoca.
Sorge allora la domanda: qual è in questo periodo storico il rapporto fra Essere ed esserci?
Guènon, che credeva nella teoria temporale dei cicli, nel Manvantara vedico, affermava che ormai ci troviamo alla fine dell’ultimo dei 4 periodi (yuga), e cioè nel Kali-yuga, nella età oscura. E questo perché “…gli avvenimenti si svolgono ad una velocità che non trova riscontro nelle epoche anteriori, velocità che va aumentando senza posa e continuerà ad aumentare fino alla fine del ciclo; si tratta di una progressiva “contrazione” della durata, il cui limite corrisponde al punto di arresto…” (6).
Certo è, anche per chi non credesse nella teoria dei cicli ma in quella lineare del tempo, che si può senza dubbio osservare che tutti i momenti della nostra esistenza hanno subito una accelerazione che aumenta sempre più, come diceva Guènon. Questo fatto è dovuto al “Gestell”, cioè al Dispositivo tecnico-scientifico che legatosi in un rapporto osmotico con la formazione socio-economica capitalistica, la cui essenza è la ricerca del più-denaro, ha imposto un processo di velocizzazione e di quantificazione di tutti i ritmi vitali degli uomini a livello globale. La temporalità dell’esserci così velocizzata rischia di portarci al suo punto di arresto. Dalla caduta nel tempo si sta giungendo in modo che sembra inevitabile alla caduta fuori dal tempo. Si rischia in altre parole di perdere completamente il rapporto di coappartenenza con l’Essere. Questo vuol dire smarrimento e delirio, assenza di pensiero, morte del bello e dell’arte, abominio etico e sessuale. Del resto basta osservare la cruda realtà: disarticolazione, squilibrio, omologazione dissennata e brutta in tutto e dappertutto. Basta visitare un centro commerciale, uno stadio, un qualsiasi luogo riempito da folle solitarie e si possono osservare con occhi attenti i volti anonimi, l’ineleganza, la bruttezza estetica dei più. Ancora 40 anni fa le persone brutte erano “belle”, perché almeno nei giorni di festa erano ben vestiti e perché avevano comunque una storia da raccontare. Cadere fuori dal tempo significa allora uscire fuori dalla storia. Emil Cioran scriveva, in pagine profetiche che questa caduta inversa implica che “…una volta sospeso il divenire, arenandosi nell’inerzia e nel languore, nell’assoluto della stagnazione, dove il verbo stesso si arena, non potendo sollevarsi fino alla bestemmia o all’implorazione. Imminente o no questa caduta è possibile, anzi inevitabile” (7).
Cessare il rapporto con il tempo, a rigore, comporta la completa rottura con l’Essere. Ritorneremo quindi scimmie? Se tale fosse il nostro destino esso non sarebbe un dramma per la natura: in fondo le scimmie non hanno mai causato grossi guai. Ma neanche questo sarà possibile, poiché l’esserci umano cadendo nel tempo, ovvero in una dimensione estatica aperta alla Trascendenza, ha conosciuto dentro di sé, in diversi gradi, lo stupore del pensiero e dell’Infinito. La fine di questo rapporto, per propria colpa, porterà a quello status emotivo esistenziale della stupefazione atemporale propria delle scimmie. Ma questa sarà una scimmia malata e folle, una scimmia infera, perché sarà il risultato del proprio epocale fallimento. Questo vuol dire che un esserci senza Essere diventerà un Ci senza tempo e senza ragione, perduto e smarrito nel vuoto dell’indifferenziato.
NOTE
- I.KANT, Critica della ragion pura, trad. G. Gentile e G. Lombardo Radice, Ed. Laterza, Bari 1972, pp.163-170
- M.HEIDEGGER, Logica, Il problema della verità, Ed. U.Mursia 1986, Milano
- I.KANT, op.cit., pp. 163-164.
- M.HEIDEGGER, Logica, cit., p. 268.
- I.KANT, op. cit., p.267.
- R.GUENON, Il regno della quantità e il segno dei tempi, ed. Adelphi Milano 1982, p. 46.
- E.CIORAN, La caduta nel tempo, ed. Adelphi, Milano 1995, p. 129.