Il linguaggio verbale è ciò che per certi aspetti contraddistingue l’essere umano. Parlare e scrivere sono una delle dimensioni fondamentali del nostro esistere su questo pianeta. Gli animali non hanno codici che resistono molto nel tempo come la parola scritta, e a questa cosa ovviano parzialmente con gli odori. La parola presenta queste caratteristiche:
- Si manifesta nel canale vocale-uditivo: per parlare il mittente utilizza l’apparato vocale, invece il ricevente decodifica il segnale con l’apparato uditivo;
- Trasmissione a distanza e ricezione unidirezionale: il segnale emesso dal mittente si propaga in tutte le direzioni ma diviene messaggio solo se raggiunge la direzione del destinatario, il quale sta a distanza dal mittente;
- Rapida evanescenza: la parola vocale dura poco, quindi la scrittura è stata una grande conquista della società umana;
- Intercambiabilità: la comunicazione non può avvenire da soli, quindi chi comunica struttura la prima basilare società;
- Feedback totale: per cui ci rendiamo conto della produzione del messaggio verso un destinatario e della ricezione del messaggio da parte di un destinatario;
- Specializzazione: la parola non nasce automaticamente ma è una funzione superiore che apprendiamo in maniera specifica attraverso l’ambiente;
- Semanticità: la parola ha due aspetti, uno esterno o fonico (significante) e uno interno o semantico (significato, cioè il contenuto), invece l’animale ha solo l’aspetto fonico (miagolii) senza un adeguato aspetto semantico;
- Arbitrarietà: il rapporto tra significante e significato è arbitrario. Alcuni animali mostrano arbitrarietà, altri no. Ad esempio, le api quando comunicano emettono anche l’odore che è quello del cibo di cui stanno dando le coordinate: questo odore non è arbitrario, cioè casuale, ma costituisce una sorta di iconicità. Invece il canto degli uccellini assomiglia di molto al linguaggio umano perché il significante (cinguettio) è collegato ad un dato messaggio in maniera non necessaria. Ma negli animali il messaggio veicolato dal significante non è mai un vero e proprio significato come negli esseri umani, in quanto per noi il significato ha un vero contenuto astratto, invece gli animali esprimono emozioni;
- Carattere discreto: un codice discreto è digitale, cioè utilizza simboli arbitrari, invece un codice non discreto è analogico, cioè utilizza icone che riproducono il contenuto. Un segnale stradale con sopra una gazzella è iconico, analogico, non discreto, invece la parola, usando simboli arbitrari, è discreta;
- Produttività: i significati che i singoli significati possono produrre sono potenzialmente infiniti;
- Trasmissione per tradizione: questo perché il sistema di produzione delle parole è appreso in un ambiente il quale è tale solo se ha una lunga storia (tradizione).
Il linguaggio verbale è particolarmente paradossale, in quanto:
- Le parole vocali non sono visibili, anche se sono emesse da un corpo fisico ben evidente. La scrittura elimina il paradosso;
- Le parole giocano tra interno/esterno: il linguaggio verbale è sia esofasico (serve per comunicare con le altre persone) sia endofasico (lo usiamo per pensare in noi);
- Coincide con lo stesso strumento di studio che usiamo per studiarlo;
- Siamo immersi nell’oggetto dello studio, in quanto senza pensiero verbale e senza sentirla parlare o vederla scritta non possiamo imparare una lingua;
- È equivoco: le parole hanno diversi significati;
- È così polisemico che con il tempo non solo aumentano i significati ma cambiano le sue stesse regole.
Un altro paradosso del linguaggio verbale è costituito dalla sua molteplicità. C’è un solo homo sapiens sapiens ma ci sono circa 4.500/5000 lingue (la cifra è approssimativa perché ci sono dubbi nel distinguere tra lingua standard e dialetto).
Passiamo al nome. La fase più antica dell’ittita, in pieno secondo millennio, presenta otto casi: nominativo, genitivo, dativo/locativo, direttivo, accusativo, ablativo, strumentale, vocativo. Tuttavia la ricostruzione dei casi ittiti è ancora oggi oggetto di discussione (ne esisterebbero anche altri, per esempio un caso ergativo, ma non solo). Ma, sempre la ricostruzione dell’indoeuropeo basata sulla comparazione delle più antiche lingue come vedico, greco, latino, e così via, dava un nome con tre generi: maschile, femminile, neutro. Invece l’ittita ne ha due soli: animato (o comune, che raggruppa maschile e femminile) e inanimato (o neutro). Gli studiosi discutono ancora oggi sui motivi di questa differenza. Certamente l’ittita, nel panorama delle lingue indoeuropee attestate, occupa una posizione a sé. Perché? Gli studiosi si dividono in due filoni: alcuni sostengono che l’ittita conserva meglio fenomeni indoeuropei che le altre lingue modificano; altri l’opposto, cioè che l’ittita innova rispetto alle altre lingue indoeuropee. Insieme con il greco antico e l’avestico, l’ittita presenta preposizioni con il verbo singolare e il soggetto neutro plurale. È questo un tratto assai conservativo che testimonia come alla base del nominativo neutro plurale delle lingue indoeuropee stia un originario singolare collettivo. Secondo Forrer l’ittita si separò assai precocemente dall’indoeuropeo e questo ne fece una lingua a sé. Se per Meillet l’ittita cuneiforme è una lingua indoeuropea come le altre[5], invece secondo Forrer la precoce separazione (inizio terzo millennio o fine quarto) dell’ittita la rende una lingua indoeuropea speciale. Petersen sostiene che ittita e tocario siano lingue indoeuropee molto vicine ed entrambe assai arcaiche, quindi si staccarono precocemente insieme dalla unità dell’indeuropeo. Petersen dà molti dati rilevanti di comunanza tra ittita e tocario (pensiamo a quelli relativi alle innovazioni comuni in campo morfologico), ma l’ipotesi non è molto accettata oggi.
Starke osserva che i casi dell’ittita si dividono in due categorie:
- Sachklasse (-i come locativo; -a come direttivo; -az come ablativo; -it come strumentale; -it come comitativo);
- Personenklasse (-i come dativo in funzione locativa; -i come dativo in funzione direttiva; -i come dativo in funzione ablativa; kiššari + genitivo in funzione strumentale; katta come comitativo).
Ora, in base a questa suddivisione dei casi, risulta che i sostantivi in genere animato si dividono tra le due classi, invece i sostantivi in genere inanimato sono solo della prima classe[6]. L’ipotesi di Starke è stata confutata da Hoffner e Melchert: essi negano l’esistenza delle due classi e portano come esempio la parola ittita hattaz, “padre”. Questa parola confuterebbe la tesi che i sostantivi appartenenti alla Personenklasse esprimerebbero le funzioni di luogo (in questo caso un complemento di separazione) solo attraverso la marca –i del dativo[7]. Weitenberg ha provato a superare la dicotomia dei due generi mediante una articolata analisi del materiale ittita giungendo alla conclusione che i sostantivi ittiti, nei casi che esprimono la funzione di luogo, distinguono tra maschile, femminile e neutro[8]. Ledo-Lemos[9] dichiara sbagliata l’analisi di Weitenberg, invece Matasovic[10] accetta i criteri ma rifiuta la conclusione che in ittita ci siano i tre generi delle altre lingue indoeuropee. Il greco invece è la lingua indoeuropea di più lunga vita, parlato ancora oggi. Il greco costituisce una lingua di per sé isolata, con tratti molto peculiari, come succede, per le lingue indoeuropee, con albanese e baltico. Per alcune sue caratteristiche il greco può essere accostabile a frigio, armeno e soprattutto iranico e indiano. Il miceneo, scoperto nel 1953 e attestato nelle tavolette d’argilla provenienti dai palazzi incendiati (risalenti dal XV secolo a. C. in poi), è la fase più arcaica del greco, costituendo, dopo l’ittita, la lingua indoeuropea di più antica attestazione. Dalle tavolette emerge che esisteva già una differenziazione dialettale del miceneo, i cui tratti più spiccati di arcaicità sono costituiti dalla conservazione delle labiovelari e del digamma. Il miceneo condivide molti tratti con l’eolico del I millennio, come il vocalismo in o. Dopo il miceneo abbiamo la lingua di Omero testimoniata nei due poemi Iliade e Odissea. Essa è su base ionica con elementi eolici[11] e tardi atticismi (come atticismo alcuni spiegano il fenomeno della “distrazione omerica”), manca il dorico. Anche i lirici scrivono in greco arcaico suddiviso in vari dialetti letterari (ionico, eolico, dorico).
L’arcaicità della lingua di Omero si vede per esempio nell’assenza della contrazione, nell’uso facoltativo dell’aumento verbale (che condivide con il vedico) oppure nel preterito in SK (tratto assai arcaico che ritroviamo addirittura in ittita). Si tratta, per la lingua dell’epica omerica e quelle dei lirici arcaici, di un impasto di più dialetti che compare più o meno sempre. Alcmane scrive nel dialetto dorico, ma si possono incontrare anche eolismi. Infatti, nel suo celebre Partenio del Louvre compare una “illustre corega”, in greco klenna choragos. Choraigos è la forma dorica per chorēgos, corega, colei che guida il coro. In attico abbiamo l’aggettivo femminile kleinē, “illustre”. Invece Alcmane ha klenna, sempre femminile, che gli studiosi ricostruiscono come eolico. La parola era in origine *kle-Fe-s-na: il F cade, una E cade per aferesi, il S con nasale si assimila (in eolico) dando NN, quindi otteniamo la forma klenna. Invece kleinē ha questa storia sempre da *kle-Fe-s-na: il F cade, le due E si contraggono in EI, il S davanti a N cade, quindi abbiamo kleina, infine la vocale si trasforma in ē, abbiamo pertanto kleinē. Spesso queste lingue letterarie arcaiche presentano anche forme ibride in sé stesse, cioè una parola che fonde aspetti di dialetti differenti, pensiamo all’omerico ken al posto di an, nel quale abbiamo la forma ke (eolica) e il N efelcistico (ionico-attico). Bisogna anche dire che la dialettologia greca poneva in essere una vera e netta distinzione tra dialetti greci. Oggi, in base a nuove ricostruzioni e nuovi dati testuali e archeologici, pare che la situazione sia molto più fluida di quanto si pensasse un tempo. Per l’eolico, c’è un importante articolo di Parker, per il quale sarebbe da dividere in due rami: il beotico (accostabile al greco occidentale) e poi tessalico e lesbio insieme[12]. Per quanto riguarda il greco omerico, Nagy sostiene che non ci sia una sola influenza eolica, ma che questa sia diversificata in quanto non si può parlare di un solo dialetto eolico[13]. Si tratta di lingue artificiali, nelle quali, inoltre, il metro ha un valore superiore. Il verso omerico è molto simile a quello indoeuropeo: infatti, sia nell’esametro dattilico sia nel verso vedico la parte finale ha una prosodia fissa, invece quella iniziale è più libera. Inoltre, come rilevato da Watkins, allievo di Meillet, gli ultimi due piedi dell’esametro dattilico si ritrovano uguali nell’epica slava. Per questo, in fine verso, le formule hanno avuto possibilità di essere tramandate in modo stabile: si tratta della parte più rigida della prosodia. Pensiamo, sempre ad Omero, al prefisso eolico eri- trasformato sempre nell’attico ari- tranne che all’interno delle formule. Probabilmente perché la formula era vista come un elemento stabile, quindi non passibile di modificazione. Nel V-IV secolo abbiamo la fase classica del greco antico: è la lingua ionico-attica. Possiamo dire con Meillet che prima dell’età ellenistica esistevano quasi tante varietà di greco quanti sono i testi. Nell’età ellenistica abbiamo l’ultima fase del greco antico, costituito dalla koiné dialektos, una lingua sovradialettale che si diffuse in tutto il mondo greco. Segue il greco bizantino, il greco medioevale e infine il greco moderno.
Oggi al Ginnasio si studia la cosiddetta grammatica del greco classico, costituito dalla lingua ionico-attica, con cui si espresse la grande produzione storica, filosofica, artistica, e così via, della Grecia antica, nel periodo egemonico di Atene. Non conosciamo direttamente la grammatica del greco antico, ma la desumiamo dalle opere tramandate soprattutto dai codici medioevali mediante un intelligente lavoro filologico. Non sappiamo con precisione come parlavano i greci antichi, perché le testimonianze sono evidentemente per la maggior parte opere letterarie e anche le tavolette micenee e pure la più semplice delle epigrafi potevano essere influenzate dalla lingua letteraria. Ci sono stati molti studi di eminenti filologi per capire quale greco si avvicinasse di più a quello parlato, prendendo come esempio i commediografi o Ipponatte. Ma non c’è certezza assoluta perché stiamo parlando di prodotti letterari. Alcuni hanno ipotizzato che Euripide presenti sovente dei colloquialismi e che il Nuovo Testamento sia scritto soprattutto nella koiné popolare, mentre ad esempio Plutarco doveva scrivere nella koiné colta. Le tragedie greche, che noi oggi associamo a nomi quali Eschilo, Sofocle, Euripide, sono scritte in greco classico, cioè in ottimo attico, anche se i cori hanno sovente dei dorismi, oltre ad un particolare linguaggio misterico. Nell’Elena di Euripide c’è spessissimo in tutte le parti un linguaggio che si rifà ai Misteri. Al verso 1344 compare il sostantivo alalē: “Andate, Cariti venerande, andate da Deò infuriata per sua figlia, bandite da lei il tormento gridando l’alalà”. Il valore primario del sostantivo rientra nel campo semantico del grido di guerra. Ma in questo caso è un grido di gioia, rientra nella festa, infatti le Cariti vogliono consolare Demetra. Questa valenza festosa del sostantivo è piuttosto rara e sembra ricorrere soprattutto in ambito orgiastico e dionisiaco, come testimonia uno scolio a un passo di Pindaro (Ol. 7, 68). Pindaro (Dith. 2, 8-14 Maehler) impiega la parola in un senso di festa: si descrive un rito orgiastico in onore di Demetra in cui le Naiadi danzano e cantano in preda al delirio. La dipendenza di Euripide da questo passo pindarico risulta essere assai probabile. Guido Paduano, grecista e comparatista, sostiene l’analogia strutturale tra la letteratura e la follia. Dall’antichità classica alla fine dell’Ottocento, la pazzia e la letteratura hanno in comune un eroe o un antieroe che sfidano l’ordine sociale, come il pazzo. Il contrasto tra la pazzia di Euripide e quella di Aristofane fa intendere che non si tratti di una semplice questione: anche quando la pazzia è disordine sociale, noi la percepiamo come una forma di manifestazione di pulsioni irriducibili che caratterizzano la vita di un individuo. L’analisi di Aristofane permette a Paduano di analizzare l’idea di fondo cruciale, ossia i punti comuni tra la letteratura e la follia, ad esempio la diversità e la conseguente solitudine del pazzo; questo mette in evidenza una coincidenza opposta, quella dell’identità stigmatizzata, quella del pazzo, escluso dalla comunità sociale e quella dell’eroe, escluso dall’orizzonte sociale poiché diretto dalla parte opposta. La letteratura è sempre rappresentazione di una devianza, di una salienza, di una forma di allontanamento dall’ordinario, non è possibile parlare di routine perché la letteratura fotografa un momento emergente (nella Poetica di Aristotele, l’azione tragica ha un inizio, un mezzo e una fine, si legge tra le righe che questi individuano il passaggio tra uno stato d’ordine iniziale, l’emergere della salienza e il recupero dello stato d’ordine iniziale; non si può fare letteratura in modo lineare e senza salienza). Questa salienza, noi la relazioniamo con una figura di carattere eroico, emergente, deviante: l’eminenza dell’eroe e l’eminenza con il senso opposto che caratterizza il pazzo (immagine speculare). La condizione di base della follia p molto simile a quella dell’eroe, specie delle tragedie greche: il pazzo è una soggettività che ha la tendenza a percepire sé stesso come un assoluto e una totalità, il pazzo dimentica l’esistenza del principio di realtà e vede sé stesso come un equivalente, un sostituto del mondo che non necessita del mondo esterno perché “tutto il mondo è nella sua testa“, la pazzia è un modo di sviluppare le potenzialità della psiche umana senza il condizionamento esterno delle relazioni sociali. Questa è la definizione del pazzo in termini eroici[14].
Il Nuovo Testamento è la seconda parte della Bibbia, dopo l’Antico Testamento. Il Nuovo è costituito di 27 scritti giunti a noi tutti in greco. Si tratta di un greco pieno di semitismi, cioè di espressioni derivate dalle lingue semitiche, utilizzate dagli ebrei di quel tempo. Nel periodo in cui visse Cristo, cioè nella Palestina del I secolo dell’era volgare, erano in uso queste lingue: l’ebraico era l’idioma della religione (della liturgia del Tempio), l’aramaico era quello parlato dagli ebrei nella vita quotidiana, il greco era la lingua della cultura, il latino quella dell’amministrazione. Ebraico e aramaico sono due lingue semitiche. Quindi il Nuovo Testamento è scritto sì in greco ma da ebrei che pensavano secondo categorie semitiche e avevano in mente un orizzonte culturale non greco, ma orientale. Quindi il greco di questi 27 brevi scritti ne risente a tal punto che Norden proponeva di parlare di un “dialetto giudaico”. Chiariamo la cosa con un esempio. Ci rifacciamo al Vangelo di Giovanni, l’ultimo dei vangeli, il quarto. Si tratta di uno scritto delizioso e dal sapore spesso gnostico. È costituito di 15.416 parole greche e di 879 versetti (il terzo per lunghezza dopo Luca e Matteo), usa un vocabolario eseguo con soli 1011 termini diversi, ma il linguaggio è tecnico e altamente specifico. Gesù probabilmente parlava aramaico, quindi molti aramaismi si riscontrano quando i vangeli riportano le parole di Gesù. Uno di questi è il plurale usato in senso impersonale, sconosciuto al greco a parte le forme legousi, phasi, “dicono, si dice”. In Giovanni 15, 6 c’è una struttura in cui compaiono all’improvviso plurali chiaramente in senso impersonale: sunagousin, “raccolgono, si raccoglie” la massa dei peccatori (auta) e “si getta” (ballousin) nel fuoco[15].
Il vedico è la fase più antica della lingua sanscrita, nel quale sono scritti i Veda, i testi sacri dell’induismo. I più importanti sono quattro (detti saṃhitā), appartengono alle più antiche civiltà delle popolazioni arie dell’India e si chiamano: Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda, Atharvaveda. Per le antiche civiltà la datazione è sempre più o meno relativa, quindi soprattutto in India c’è ancora chi sostiene che il Ṛgveda sia il libro più antico dell’umanità. La lingua di questo testo è però più vicina non al sanscrito classico ma all’avestico, un’altra lingua indoeuropea, nella quale sono scritti gli Avestā, i testi sacri del mazdeismo, importante religione di origine iranica. Questo perché vedico e avestico sono più vicini cronologicamente che non vedico e sanscrito classico, ma anche perché vedico e avestico sono due rami della comune lingua poetica indoeuropea. Gli studiosi elencano i tratti della lingua del Ṛgveda, come l’assenza della lettera L nelle parti più antiche dell’opera, la cui presenza aumenta gradualmente nelle parti più tarde, segno che la base dialettale del testo vedico si sposta dal nord-ovest a est. Ci sono importanti prakritismi e influenza delle lingue dravidiche. Il lessico ha spesso significati opposti[16]. Per quanto riguarda la datazione un autore importante è Wheeler[17], il quale sostiene che sono stati gli arii vedici (gli indoeuropei?) a distruggere le città della civiltà della Valle dell’Indo, cioè quella precedente al periodo vedico, cioè indoeuropeo. Infatti, il capo del pantheon vedico è Indra, celebre per la distruzione delle fortezze (pur-) dei nemici (dasa/dasyu). Burrow[18] in seguito interpreta la parola vedica armaka- (Ṛgveda I, 133, 3) come ammasso di rovine, di macerie, risultato della distruzione effettuata dagli arii delle fortezze degli abitanti indigeni. Ora i dati archeologici in nostro possesso confermano che le città della Valle dell’Indo sono state distrutte non dopo il XV secolo a.C., quindi i Veda devono essere stati composti in concomitanza con questo periodo.
Le parole servono anche per ricostruire il passato. Dal confronto con le lingue appare che la radice su (quella ad esempio di suino) indica spesso il maiale selvatico (cinghiale), mentre porku il maiale domestico. Dato che nella maggioranza delle lingue indoeuropee le due radici adombrano questi significati, si ipotizza che l’indoeuropeo distingua anch’esso tra cinghiale e maiale domestico utilizzando le stesse radici. Però ci sono delle eccezioni. In un rito sacrificale dell’antica Roma si immolano agli dei tre animali: uois, taurus, sus. Dato che i romani non sacrificarono mai animali selvatici[19], ne risulta che la radice su indica il maiale domestico e non il cinghiale. Benveniste studia ancora la questione e arriva alla conclusione che porcus indica semplicemente il maiale da latte. Ma la radice di porcus non si ritrova né in sanscrito né in iranico. Non vi erano in quelle zone maiali da latte? In un dialetto medioiranico dell’Est, il khotanese, c’è la parola pasa che vuol dire maiale, quindi si ricostruisce un termine *pasha per l’indoiranico. Ma continua a non esserci in sanscrito. Come spiegare queste contraddizioni? Esse in realtà sono frequenti in ogni ricostruzione linguistica. Meillet, in casi del genere, proponeva di accettare la forma linguistica più abnorme, isolata, strana. Un rilevante problema per la ricostruzione è anche quello per cui le lingue si influenzano a vicenda. Quindi si può supporre, quando le cose non tornano, una influenza straniera di cui non sappiamo nulla. È documentato che già nell’ittita ci sono stati scambi di parole e significati con il paleoassiro, lingua semitica in uso nell’Anatolia per via dei commerci tra stati. In questa lingua semitica è documentato un affisso NN preso dall’ittita, per esempio nella forma targumannum. Sempre l’ittita diede al paleoassiro la parola ubadi, “possedimento terriero”. Nel mondo paleoassiro la parola cambiò significato in “unità militare”, e con questo nuovo significato passò di nuovo in ittita (prestito di ritorno)[20]. Nell’Editto di Telipinu l’espressione ittita n=uš arunaš irhuš iia-, “renderli (cioè i paesi conquistati) i confini del mare”, utilizzata per descrivere le straordinarie conquiste dei predecessori di Telipinu, ricorda una formula documentata nei testi accadici per indicare la massima espansione territoriale[21]. L’ittita presenta spesso prestiti dalla lingua hurrita[22] o da un’altra lingua anatolica detta luvio. In merito è da segnalare il Rituale di guarigione di Bappi, un testo magico in ittita ma pieno di luvismi[23]. Ci sarebbe una corrispondenza tra il sumerico DU.SU.A, l’accadico DUSU.PARASHI e l’ittita KA.DINGIR.RA. La parola ittita qui riportata si riferisce alla “pietra di Babilonia”, che sarebbe una pietra preziosa di cui parlano molti testi: essa potrebbe essere inquadrata meglio in base alla comunanza semantica di queste tre parole[24]. Al dio ittita Giorno Favorevole veniva offerto un NINDA-takarmu, un pane il cui nome è di origine cattica, ipotesi avvalorata dal fatto che la divinità in questione è sempre cattica[25]. Il problema principale per lo studio della lingua cattica è la ricostruzione della fonologia: se non sappiamo bene i suoni della lingua, non siamo in grado di ricostruire adeguatamente la morfologia. Laroche ricorda che il segnario cattico è uguale a quello hurrico (di Hattusa). È interessante lo studio delle iscrizioni bilingui cattico-ittita (le maggiori sono tre). Nelle traduzioni ittite dal cattico emerge un grande uso di particelle enclitiche in funzione cataforica: l’uso di pronomi enclitici in ittita per l’oggetto diretto fa pensare a un accordo con l’oggetto diretto in cattico, ma quei pronomi compaiono anche con soggetti intransitivi, quindi si ipotizza che il cattico abbia una marca per il soggetto intransitivo: siamo di fronte a ergatività nel cattico?[26]. esistono anche molte parole in comune tra la poesia greca e la lingua ittita, che gli studiosi non sanno bene spiegare: si tratta della comune origine indoeuropea o di prestiti? In Iliade VI, vv. 38 e 41 compare il verbo greco atuzomai, dalla dubbia etimologia, ma che Sapir e Benveniste mettono a confronto con l’ittita hatuki-, “terribile, temibile”[27].
Un problema spinoso che gli storici della lingua e i filologi si trovano ad affrontare è quello della ricostruzione del significato delle parole. Noi oggi abbiamo i dizionari, ma anticamente è possibile che una parola sia testimoniata ma non si sappia bene il significato o lo si ignori del tutto. Pensiamo al verbo ittita palwae-, associato alla musica e alla danza, attività molto importanti in quel mondo di celebrazioni religiose. Non sapendo esattamente il significato, gli studiosi provano a ricostruirlo in vari modi, dalla etimologia possibile oppure dal contesto. Probabilmente è un verbo del dire (forse significa “recitare”) in quanto chiaramente in una iscrizione ittita l’atto di chiamare le divinità da parte del dio Tašmišu è indicato con questo verbo[28]. Il latino è sempre una lingua indoeuropea antica, ma più recente di ittita, greco e vedico. Nell’antichità però il grammatico Filosseno di Alessandria pensava che il latino fosse un dialetto greco. Anche recentemente i linguisti hanno ipotizzato una unità tra greco e latino (in entrambe le lingue il pronome personale è ego). La fusione del latino con le parlate locali decretò la nascita delle lingue neolatine (dette anche romanze), pensiamo solo al francese, allo spagnolo, ma anche all’italiano.
“Dopo che il latino medioevale ebbe perduto a poco a poco il suo monopolio letterario, e che le lingue neolatine più importanti ebbero cominciato a loro volta a produrre opere letterarie, il vocabolario si rivelò troppo povero, insufficiente a esprimere i sentimenti e le idee dei poeti e degli scrittori; ancora una volta, si trassero parole dall’unica fonte di cui si disponeva, il latino. Si produsse così una seconda latinizzazione che raggiunse il suo apogeo nel XIV, XV e XVI secolo. Il secondo strato di parole sfuggiva ovviamente agli sviluppi fonetici che vi erano stati prima del loro ingresso nelle lingue neolatine; esse furono accolte nella loro forma latina e adattate alla morfologia e alla pronuncia in uso”. Per esempio, in francese esisteva già la forma popolare veiller, dal latino vigilare, ma questa parola latina fu introdotta una seconda volta e diede vita al sostantivo dotto vigilance[29]. In italiano la parola latina ripa, “riva”, dà dapprima il termine popolare riva (attestato dal XIII secolo), in seguito darà il vocabolo dotto ripa (attestato dal 1313). La grammatica italiana nacque con Pietro Bembo (Prose della volgar lingua, redatte tra 1512 e 1516). Nella penisola vi era una situazione di plurilinguismo, le persone nel quotidiano si esprimevano in parlate locali dette volgari. Quindi Bembo decretò come lingua migliore, degna di essere parlata da tutti, il volgare toscano, che ebbe la migliore espressione in Dante. La più grande opera di Dante è la Commedia. In quest’opera memorabile Dante portò alle estreme conseguenze di realizzazione il volgare toscano. C’è però un problema filologico rilevantissimo: non è possibile ricostruire con precisione il testo della Commedia vista la mole impressionante di manoscritti che la tramandano. Anche la famosa edizione di Petrocchi non è scevra da dubbi. “Date queste premesse, è evidente che la lingua della Commedia si sottrae a un’analisi esaustiva: non solo niente si può dire della fisionomia grafica del testo, ma anche l’originario aspetto fonomorfologico è destinato a rimanere in parte occultato e non può essere oggetto di conclusioni libere da sospetti”. Appare che la lingua usata da Dante sia fondamentalmente aderente al fiorentino degli ultimi decenni del XIII secolo. Il fiorentino è comunque accolto nella sua dimensione più ampia e articolata: Dante sfrutta tutte le possibilità di una lingua che non solo si presenta ricca di varietà al suo interno (come nell’alternanza tra “ora” e “otta”), ma nel particolare momento a cavallo tra Duecento e Trecento si configura come un sistema altamente dinamico rispetto all’epoca precedente[30]. Nel Medioevo i musulmani cercarono di conquistare l’Europa, giunsero fino in Spagna e lì si insediarono. Ma le navi musulmane imperversavano in tutti i mari. Soprattutto la costa tirrenica ha tuttora molte torri: servivano per difendersi dagli attacchi dei musulmani. Questa continua presenza araba vicino all’Italia influenzò anche la lingua.
L’arabo appartiene alla famiglia delle lingue semitiche, che si dividono in orientali (accadico), meridionali (nordarabico, sudarabico, arabo, etiopico) e nord-occidentali (aramaico, ebraico, cananaico). È stata sostenuta da alcuni la parentela tra lingue indoeuropee e lingue semitiche. Una somiglianza è la marca –i del genitivo singolare: in latino si dice lorum equ-i, “la briglia del cavallo”, in arabo il fedele musulmano dice spesso la basmala, che ricorre prima di tutte le sure del Corano tranne la sura IX, cioè bismi illah-i, “nel nome di Dio”. Inoltre l’indoeuropeo avrebbe tre consonanti laringali: H1 (colorata in e), H2 (colorata in a), H3 (colorata in o). E’ stato ipotizzato che le laringali indoeuropee coincidano con le laringali semitiche, dimostrando così la parentela tra le due famiglie di lingue. Oggi la maggior parte degli studiosi non accetta la parentela, anche perché, oltretutto, pare che le laringali indoeuropee siano in realtà faringali. In ogni modo nel passato le laringali indoeuropee non erano dimostrate nelle lingue, invece con la scoperta dell’ittita si impose all’attenzione che questa lingua indoeuropea attesti articolazioni di tipo laringale: l’ittita harki, “bianco” (cfr. latino argentum), oppure ittita newahh-, “rinnovare” (cfr. latino novare)[31].
Attraverso le vie dei commerci l’arabo arrivò fino alle lingue neolatine lasciando molte parole soprattutto nel lessico marinaresco: ammiraglio, arsenale, darsena, cassero, garbino, scirocco, dogana, gabella, magazzino, sensale, tara, tariffa. Parole arabe nella vita quotidiana sono: caraffa, giara, materasso, tazza, baldacchino, albicocca, carciofo, zafferano, zucchero, facchino, tamburo, sceicco, sceriffo. Pensiamo poi a parole come cifra, zero e azzurro[32]. Tutti noi amiamo stare seduti su un divano, chi più chi meno, specie dopo una giornata di lavoro. Gli studiosi pensano che la parola sia di origine persiana: dīvān. Indicava la lista, l’inventario o il ruolo. La parola passò quindi in arabo: dīwān, modificando leggermente la pronuncia, perché l’arabo non ha la lettera V e tende a sostituirla con la W. Questa parola fu usata già sotto il califfo ‘Umar nel 641, trovando il suo primo significato politico: dīwān al-jund, l’elenco dei primi nomadi arabi che avevano partecipato alle conquiste (jund indicava l’esercito, quindi è uno stato costrutto: elenco dell’esercito). La principale occupazione di uno stato sono le tasse, quindi la parola iniziò a significare l’elenco delle tasse, poi la burocrazia in genere, che deve riscuotere le tasse, indicò in seguito vari gradi delle istituzioni governative. In questo senso arrivò con i normanni in Sicilia e il dīwān diede il nome all’ufficio della “dogana”, che stilava elenchi di dati. Quindi la parola passò ad indicare la raccolta poetica (elenco di versi). I turchi poi si fregiarono delle istituzioni politiche precedenti, anche quella del divano, che passò ad indicare alcune cariche dell’Impero Ottomano. Vi era una propria stanza del divano, cioè la stanza del consiglio dei nobili ottomani. I cristiani raccontavano tante storie riguardo i turchi, anche quella per cui il Bascià, cioè l’autorità turca, stava in udienza (chiamata divano), spesso si parlava anche del posto dove sedeva questa autorità turca, detta a sua volta divano. In tale maniera la parola iniziò gradualmente a penetrare nell’italiano con il senso di sofà[33]. I commerci avvicinavano al mondo italico anche i greci, oltre al fatto che il Sud dell’Italia era stato una colonia greca. Molti contatti anche con il mondo bizantino. Questo ha influenzato i dialetti italiani meridionali. Pensiamo al calabrese. Andando da nord a sud della Calabria la grecità è gradualmente più presente. Il fiume Potamo, il fiume Marepotamo, un altro Sciarapotamo: dal greco potamos, “fiume”. La città Stilo (colonna), Monasterace (piccolo monastero), Platù (largo), Pentedattilo (cinque dita). Cognomi come Piromalli (dai capelli rossi), o quelli che finiscono in –iti (Politi, Apostoliti). L’espressione “u labbru di u mari”, “il bordo del mare” (in cui il “bordo” è indicato dalla parola “labbro”), è di provenienza greca. Impopolarità dell’infinito (“vogliu ma dormi”, “voglio che dormo” al posto di “voglio dormire”).
Anche la lingua ebraica è molto importante per la cultura occidentale. Per molto tempo si è pensato che sia stata la prima lingua dell’umanità. I pensatori medioevali ebrei hanno esercitato una potente influenza su tutto il pensiero rinascimentale. Pensiamo solo alla Cabala, che è stata rivisitata in chiave cristiana mediante cenacoli di studiosi operativi anche oggi. Sembra che il primo libro della Cabala ebraica sia il Sefer Yetzirà, nel quale compare per la prima volta la grande cattedrale di pensiero costituita dalle dieci Sephirot. In base ad esse e alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico è possibile spiegare l’intero universo creato da Dio (in cui l’uomo è disceso) e la successiva ascesa da esso al Creatore. La parola Sephirà deriva dalla radice ebraica S-PH-R, che ha tre significati: numero, storia, luce. Quindi ci si chiede a cosa il Sefer Yetzirà alluda quando parla di Sephirot. Esse si comprendono mediante i primi dieci numeri? Esse si comprendo mediante le storie dei testi sacri? Esse sono irradiazioni della Luce divina? Inoltre le lingue giudeo-italiane (parlate dagli ebrei nella penisola e nelle isole) sono intrise di storie interessanti tra linguistica e tradizione culturale. Gli ebrei hanno tramandato ai posteri non monumenti ma la religione della Bibbia e un pensiero filosofico-mistico ad essa strettamente collegato, del quale la Cabala è solo un aspetto. Esiste un nesso antichissimo tra sapienza, influenza e sacro. Ficino (Teologia platonica XIV, 10) scriveva che secondo Porfirio “presso tutti i popoli coloro che erano in assoluto i migliori nello studio della sapienza si consacravano alla preghiera”.
Anche il pensiero islamico è stato molto importante per la cultura occidentale, pensiamo solo all’influenza dell’averroismo nel Medioevo. Nel Medioevo le opere di Aristotele non erano conosciute nell’originale greco bensì nelle versioni in latino fatte su quelle arabe. Forse una espressione molto calzante per indicare chi studia è quella usata dal filosofo islamico Ibn Bajja, per il quale il filosofo è uno “straniero in patria”, cioè un “germoglio” (in arabo nawābit), cioè non è compreso, la sua unica soluzione quindi è quella di ritirarsi in solitudine (e in casi estremi il suicidio). Come non pensare al suicidio stoico o alla caverna di Platone? Chi vede ciò che sta oltre la caverna non può essere accettato dai molti che non vedono.
Oggi però questa caratteristica del filosofo di essere “controcorrente” sembra essere meglio accettata. Viviamo in un mondo, quello occidentale, in cui sembra che tutti possano esprimere liberamente la loro opinione. Questo è un fenomeno alquanto nuovo nella storia dell’umanità. Le varie civiltà, infatti, sono state sempre molto legate al proprio passato e ai valori, anche al linguaggio. Il linguaggio di una comunità sociale ha delle vere e proprie parole chiave, dei nuclei semantici attraverso i quali si struttura l’identità del gruppo sociale. Oggi invece viviamo in un mondo dove i valori e le parole chiave di una comunità tendono a disgregarsi sempre di più. In Egitto ancora oggi le chiese cristiane copte celebrano un rito che ha 5000 anni di storia, perché risale sino all’epoca dei faraoni egiziani: è la festa di Shamo, parola egiziana che significa “rinnovo della vita”, che i cristiani copti chiamano in arabo con un suono simile, Shamm El-Nessim, che vuol dire “profumo della brezza”. È in sostanza una festa primaverile della rinascita della natura e del cosmo intero, che a volte coincide con la data della Pasqua. Invece in Occidente i giovani di oggi sono spesso restii a riconoscersi in tradizioni ben consolidate. Siamo molto diversi dal passato antico, nel quale continuava una antichissima tradizione che risaliva alla preistoria con gli indoeuropei e si riversava nelle varie letterature: pensiamo che nel mondo celtico irlandese la dea Boann, protettrice di un fiume, trae il nome da “vacca bianca” e nei Veda gli dei assicurano la prosperità donando vacche, le quali quindi in India sono sacre fino ad oggi. Gli antichi ragionavano in un’altra maniera anche quando parlavano di “libertà”. La libertas senatoria non era la volontà di fare quello che si vuole, ma la prerogativa dei senatori di far valere senza ostacoli la tradizione romana nella vita pubblica, cioè i mores. La libertà quindi era consolidata nel passato. Ricordiamo per inciso che il diritto romano era consuetudinario, si basava sulla interpretazione del materiale tradizionale fatta dai giurisperiti, mentre la legge (norma giuridica approvata nell’assemblea) era un fenomeno raro. Più in là nei secoli, gli stoici romani avevano concetti analoghi. Trasea Peto considerava la libertas come possibilità di far rivivere quella senatoria. Persio ne aveva un concetto più morale, ma sempre con connotati politici: chi vuole intraprendere la carriera politica deve essere libero, è libero colui che è privo delle passioni, in una condizione di virtù circoscritta sempre dalla grande tradizione morale antica. In questo senso anche Giovenale vuole chiedere agli dei un animo libero dalle passioni. Giovenale diceva espressamente che il popolo romano fu veramente libero quando proclamò Cicerone “padre della patria” dopo che questi sventò la congiura di Catilina: non si tratta della libertà di fare scelte arbitrarie, ma della possibilità di far rispettare lo status quo. Nella Satira XIV, vv. 38-43 Giovenale rimpiange Bruto e Catone Uticense, eroi repubblicani per eccellenza, che egli osannava di contro al nuovo che stava avanzando. Oggi invece la libertà si caratterizza sempre più come assenza dei valori sia del passato sia in quanto tali. Anche nella sfera religiosa. Oggigiorno in Occidente assistiamo a un fenomeno molto particolare, che i teologi chiamano “immanentismo religioso”, per cui a causa di una pretesa libertà assoluta si piega la religione ai propri scopi, rendendola un sistema spirituale senza dogmi precisi. E spesso con una spiccata tendenza sincretistica. È vero che il sincretismo riguarda molto da vicino le religioni monoteiste: nell’Antico Testamento vi sono tendenze iraniche, Paolo sviluppa lo stoicismo, il Corano riprende molto dall’ebraismo e dalla gnosi cristiana. Tuttavia oggi si assiste spesso a un calderone eterogeneo di tendenze religiose.
Nel mondo vedico il senso del mondo sta sul sacrificio. L’intero universo si regge sul sacrificio, il quale è una ripetizione del primo sacrificio in assoluto, quello compiuto dal dio Prajāpati. Esisteva solo questo dio, tutto il resto non c’era. Quindi quello che il dio faceva aveva valore assoluto. Quindi dalla bocca generò il figlio Agni, il fuoco sacro, il quale, essendo generato dalla bocca di Prajāpati, era una bocca divorante. Da qui nacquero le sorti dell’umanità: la terra sarebbe stata il luogo dove qualcosa divora qualcosa, il fuoco divoratore che brucia e vive distruggendo qualcosa. Come poteva fare il dio Prajāpati a scampare dal pericolo di essere divorato dal figlio Agni? Qualcosa uscì da Prajāpati e cominciò ad avere vita autonoma: era la Parola, Vāc. Un essere femminile che la paura aveva fatto sprigionare dal dio e ora la Parola gli si poneva davanti come un altro essere, che gli parlava. Quindi il dio offrì ad Agni qualcosa da mangiare per non essere divorato, un po’ di liquido bianco che Prajāpati aveva prodotto sfregandosi le mani dalla paura. Doveva dare quel liquido bianco come il latte ad Agni? Il dio era incerto. All’improvviso una voce esterna risuonò: Offri! Allora Prajāpati mentre compiva il gesto dell’offerta sacrificale a Agni si rese conto che era stato lui stesso a parlare. Il mito indiano dice: “Quella voce stessa era la sua (sva) grandezza che aveva parlato (āha) a lui”. Il dio quindi esalò quel suono (svāhā), che da allora sarebbe stato imitato dai sacerdoti vedici fino ad oggi in innumerevoli offerte di latte ad Agni. Il momento di questo mito è cruciale perché sull’offerta si fonda il mondo successivo: se il dio Prajāpati fosse morto mangiato da Agni, il mondo non sarebbe sorto. Prajāpati, infatti, è il dio creatore di tutto. Scrive Calasso: “L’offerta fu il mezzo, l’unico mezzo possibile per sfuggire a una minaccia mortale. Ben prima che per gli uomini, per il loro Progenitore. Perciò gli uomini devono imitarlo celebrando l’agnihotra, versando latte nel fuoco, ogni mattina e ogni sera”[34].
Note:
[1] L’ittita è una lingua indoeuropea anatolica. Esistono altre lingue indoeuropee anatoliche. La loro peculiarità è quella di avere caratteristiche particelle di luogo. Una buona grammatica dell’ittita: R. Francia, V. Pisaniello, La lingua degli Ittiti, Milano 2019.
[2] Possono risultare utili anche: P. Di Giovine, Gli studi sul sistema verbale indoeuropeo ricostruito: problemi di metodo e prospettive di ricerca, in Incontri linguistici 20 (1997), pp. 11-27; A. G. Ramat, P. Ramat, Le lingue indoeuropee, Bologna 1997.
[3] Per approfondire questioni sulle lingue indoeuropee anatoliche: H. Berman, The Stem Formation of Hittite Nouns and Adjectives, diss. University of Chicago 1972; O. Carruba, La notazione dell’agente animato nelle lingue anatoliche (e l’ergativo), in Per una grammatica ittita, Pavia 1992, pp. 61-98; R. Francia, Le funzioni sintattiche degli elementi avverbiali di luogo, Roma 2002; C. F. Justus, Hittite and Indo-European Gender, in M. R. V. Souther, Indo-European Prospectives, Washington 2002, pp. 121-150; H. C. Melchert, Studies in Hittite Historical Phonology, Gottingen 1984; H. C. Melchert, Anatolian Historical Phonology, Amsterdam, Atlanta 1994; C. Melchert, The problem of ergative case in Hittite, in AA. VV., Grammatical Case in the Languages of the Middle East and Europe, Chicago 2011, pp. 161-167; D. Sasseville, Anatolian Verbal Stem Formation, Brill 2020; I. Yakubovich, Sociolinguistics of the Luvian Language, Leiden, Boston 2009. Molto utile per le ricerche anche: J. Puhvel, Hittite Etymological Dictionary, 3 voll., Berlin 1984-1991.
[4] Per approfondire: H. A. Hoffner, H. C. Melchert, A Practical Approach to Verbal Aspect in Hittite, in S. De Martino, F. Pecchioli, Anatolia antica, Firenze 2002, pp. 377-390.
[5] Per l’ittita geroglifico si dicono cose diverse. C’è senza dubbio una correlazione tra ittita cuneiforme e ittita geroglifico. Poi, il primo appare chiaramente una lingua centum, invece il secondo da alcuni è inquadrato in maniera aspecifica. Gelb nel 1942 propose che l’ittita geroglifico abbia due caratteristiche dell’indoeuropeo orientale: è una lingua satem e ha pronome relativo *yos.
[6] F. Starke, Die funktionen der dimensionalen Kasus und Adverbien im Althethitischen, Wiesbaden 1977.
[7] H. Hoffner, C. Melchert, A Grammar of the Hittite Language, Winona Lake 2008.
[8] J. J. S. Weitenberg, Proto-Indo-European Nominal Classification and Old-Hittite, in Münchener Studien zur Sprachwissenschaft 48 (1987) pp. 213-230.
[9] F. J. Ledo-Lemos, Femininum Genus: a Study on the Origins of the Indo-European Feminine Grammatical Gender, München 2000.
[10] R. Matasovic, Gender in Indo-European, Heidelberg 2004.
[11] I principali eolismi di Omero sono (a detta di Nagy): esito labiale della labiovelare indoeuropea; participio perfetto con formazione tematica; dativo in –essi; infiniti in –menai; forme pronominali in ammi e ummi con psilosi e baritonesi; femminile thea, “dea”; genitivo in –oio; forme poti e proti per pros; genitivo in –ao e –aōn con alfa lunga.
[12] H. N. Parker, The Linguistic Case of Aiolian Migration, in Hesperia, Vol. LXXVII, No. 3 (2008), pp. 431-464.
[13] G. Nagy, The Aeolic Component of Homeric Diction, in Proceedings of the 22nd Annual UCLA Indo-European Conference, Bremen 2011, pp. 133-179.
[14] G. Paduano, Follia e letteratura. Storia di un’affinità elettiva, Roma 2018.
[15] M. Black, An Aramaic Approach to the Gospels and Acts, Oxford 1967.
[16] Per approfondire il vedico: A. A. MacDonnel, A vedic grammar for students, Oxford 1916; H. Grassman, Wörterbuch zum Rig-Veda, Wiesbaden 1996. Per il mondo indiano la prima manifestazione dell’Assoluto è la Parola, quindi essa ha una valenza importantissima, ma non può indicare ciò che c’è prima, cioè l’Assoluto. Nel Brahmasūtra (I.III.3), che fa parte della letteratura vedica più recente, è scritto: nānumānam atacchabdāt, che vuol dire che l’Assoluto non può essere dedotto perché non c’è parola che lo possa indicare. Nondimeno la Parola è un veicolo che riconduce all’Assoluto, come avviene con il mantra AUṂ. La sapienza vedica insegna (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad 3, 1, 2): “Come può un officiante, hotṛ, sottrarsi alla morte? Mediante lo hotṛ del sacrificio, che è parola”. L’officiante si sottrae alla morte facendo ciò che fa ogni giorno, cioè recitando e compiendo il sacrificio.
[17] R. E. M. Wheeler, Harappa 1946, in Ancient India 3 (1947) pp. 58-130.
[18] T. Burrow, On the significance of the term arma-, armaka- in early Sanskrit literature, in Journal of Indian History XLI, pt, 1 n. 121 (1963) pp. 159-166.
[19] Nella ritualità avestica del Nērangestān si immolava di solito una pecora. Quasi tutte le religoni si fondano sul sacrificio. Anche il mondo avestico dimostra di essere ancorato a questa prassi rituale, nonostante le ipotesi di Benveniste, Boyce, e altri. Esistono punti di contatto tra sacrificio avestico e sacrificio vedico, come il fatto che i sacrificatori appartengono alle più alte classi sacerdotali. Per approfondire: A. Panaino, Avestico rec. pasuuāzah. Vecchie e nuove considerazioni a poposito della immolazione animale nella ritualistica indo-iranica, in Anantaratnaprabhava, Vol. 11, No. 1 (2020), pp. 137-151.
[20] M. Marazzi, Fenomeni interlinguistici e interscrittori nella più antica documentazione hittita, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 79, No. 2 (2010), pp. 184-206.
[21] P. Dardano, Die Worte des Königs als Repräsentation von Macht, in G. Wilhelm, Organization, Representation and Symbols of Power in the Ancient Near Est, Winona Lake 2012, pp. 613-630.
[22] S. De Martino, Nomi di persona hurriti nella prima età imperiale ittita, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 79, No. 2 (2010), pp. 130-139.
[23] G. F. Del Monte, Il rituale di guarigione di Bappi (CTH 431), in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 73, No. 4 (2004), pp. 337-347. Il luvio è un’altra lingua anatolica, che, in quel contesto di frequenti scambi con il mondo mesopotamico, presenta prestiti. Per esempio, nella tarda iscrizione dell’VIII secolo di CEKKE compare un termine luvio come titolatura di un personaggio. Il termine è hazani, che potrebbe essere un prestito da una variante minoritaria dell’accadico che emerge dall’età medio-assira. Per approfondire: F. Giusfredi, Note sui prestiti accadici e urartei in luvio-geroglifico di età del Ferro, in AA. VV., Interferenze linguistiche e contatti culturali in Anatolia tra II e I Millennio a. C., Genova 2012, pp. 153-172.
[24] A. M. Polvani, La Pietra di Babilonia nella documentazione ittita, in Studi Classici e Orientali, Vol. 31 (Dicembre 1981), pp. 245-256.
[25] D. Silvestri, Riflessi linguistici delle ideologie funerarie nell’Anatolia ittita, in G. Gnoli, J. P. Vernant, La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Paris 1990, pp. 407-418.
[26] A. Rizza, I pronomi enclitici nei testi etei di traduzione dal hattico, Pavia 2007. Invece l’hurrita è sicuramente una lingua ergativa. Questo comportò notevoli problemi di traduzione da parte degli scribi ittiti, come evidenzia De Martino, oltre al fatto che tra le due lingue ci sono altre divergenze: per esempio, le forme hurrite non finite (forme participiali in –iri, espressioni verbali in –lai) vengono rese dall’ittita con proposizioni subordinate relative. S. De Martino, Problemi di traduzione per antichi scribi ittiti: il caso della bilingue “hurrico-ittita”, in Tradizione, società e cultura, No. 8 (1998), pp. 27-42.
[27] A. Moreschini Quattordio, Su alcune particolarità linguistiche del Libro VI dell’Iliade, in Studi Classici e Orientali, Vol. 23 (Maggio 1975), pp. 31-53.
[28] E. Badalì, Il significato del verbo ittito palwae-, in Orientalia, NOVA SERIES, Vol. 59, No. 2 (1990), pp. 130-142.
[29] E. Auerbach, Introduzione alla filologia romanza, Torino 1963.
[30] Per approfondire rimandiamo a questa preziosa opera: P. Manni, La lingua di Dante, Bologna 2013.
[31] F. Fanciullo, Introduzione alla linguistica storica, Bologna 2007. Fu il giovane Kurylowicz nel 1927 a dare l’annuncio di aver trovato traccia delle laringali nell’ittita. La H1 era andata perduta (almeno in posizione iniziale), mentre la H2 si era conservata con il suono della spirante h. Ma questo giovane linguista negò che in ittita si fosse conservata anche H3. Invece fu Cuny ad affermarlo: in ittita si sarebbero conservate sia H2 sia H3. Egli ipotizzò in indoeuropeo anche una H4 (con lo stesso effetto di H2, cioè producente una a), in ittita perduta esattamente come avvenne con H1: ittita eszi. “è” = greco esti = indoeuropeo *H1esti.
[32] Per approfondire: L. Serianni (a cura di), La lingua nella storia d’Italia, Roma 2001.
[33] A. Vanoli, Storie di parole arabe, Milano 2016.
[34] R. Calasso, L’ardore, Milano 2010.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 35 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.