Per quanto abbia forse subito un calo d’attenzione negli ultimi tempi (del resto, anche il dibattito etico ha i suoi cicli), quello relativo alla legittimità o meno della pena di morte si pone tra gli argomenti precipui della modernità e della tarda modernità, coinvolgendo tanto la riflessione pratica quotidiana quanto quella che si svolge all’interno di una pluralità di ambiti scientifici e disciplinari. In un certo senso, esso rientra nella cifra stessa della modernità e dei suoi mutamenti di carattere istituzionale, relativi al passaggio da forme politiche fondate sulla personalità a strutture impersonali ed improntate alla massima razionalità. Non a caso si è inteso parlare di legittimità: il problema è sempre quello, per così dire, fondazionale: sulla base di che cosa la pena di morte può essere giustificata? Quali sono i criteri che consentono di affermare il diritto, da parte di quel corpo artificiale che chiamiamo Stato, di poterla comminare?
A questo riguardo, è interessante ripercorrere i punti salienti di una polemica che ha impegnato, a distanza, due tra le figure più rappresentative del pensiero europeo moderno: Cesare Beccaria, giurista, giusfilosofo ed eminente esponente dell’I
A questo punto, per rendere conto della posizione di Hegel, dobbiamo operare un salto sia storico che epistemologico. Come sempre è dato di verificare nella storia delle idee, proprio quando un contesto matura e si completa, appaiono già le prime avvisaglie del suo rovesciamento, fermo restando che è ormai assodato il fatto che ragionare in termini di netta cesura corrisponde ad una visione particolarmente ingenua dei processi ideali; e, soprattutto, che storia delle idee e storia degli eventi non corrono mai separatamente, dal momento che la teoria e la prassi sono fatte per compenetrarsi a vicenda. Dalle pretese illuministiche di concepire tutto sotto l’aspetto puramente razionale ed eudaimonistico non poteva che sorgere un ripensamento tanto del soggetto quanto del mondo in cui esso si trova ad operare; dalla filosofia critica di Kant, che costituisce l’ultimo tentativo di giustificare razionalmente la morale, non poteva che sortire una critica della critica stessa; in questo senso, ciò che verrà dopo il pensatore prussiano dalla proverbiale puntualità, da Fichte, ad Hegel, a Marx, costituirà espressione della volontà dell’uomo di riprendere possesso, in modo pieno ed esclusivo, del reale. Per sancire tale presa di possesso, è necessario che tutto possa essere inquadrato all’interno di un ordine; sostanzialmente, per quanto tutto questo possa apparire riduttivo (ma una più completa descrizione del complesso sistema speculativo hegeliano esulerebbe dalle finalità di questo scritto), si tratta di essere consapevoli di quel processo che conduce al compimento supremo, vale a dire lo Stato.
Ecco che, allora, ci troviamo di fronte a due poli opposti: Beccaria non nega certo l’essenza politica dell’individuo, ma non accetta che esso sia sacrificato oltre un preciso limite alle esigenze dello Stato; Hegel, al contempo, non intende giungere all’annullamento dell’individualità, ma appare chiaro come essa non possa porsi al di fuori e contro quanto rappresentato dallo Stato (che egli definisce come l’ingresso di Dio nel mondo, e quindi come qualcosa che unisce, che ricompone una scissione; qualcosa la cui negazione costituirebbe un’irresolubile contraddizione). La sintesi del pensiero etico, politico e giuridico del filosofo tedesco è contenuta nei Lineamenti di filosofia del diritto, pubblicati nel 1820. Qui, Hegel espone una serie di riflessioni che influenzeranno notevolmente le concezioni della penalità sorte in seguito. Il termine di paragone per illustrare la prospettiva penalistica hegeliana è individuato, appunto, nel pensiero di Beccaria.
Hegel riconosce anzitutto un merito a Beccaria: quello di aver contribuito a ridurre il numero delle esecuzioni, inducendo alla riflessione su quali delitti fossero meritevoli di subire la massima punizione. Tuttavia, la critica hegeliana va a colpire la radice stessa della elaborazione giuridico – politica del milanese: lo Stato non può nascere da un contratto, e tra le sue finalità non vi è quella di difendere la vita e la proprietà dei singoli. Inoltre, non solo occorre calibrare la pena in termini di retribuzione per il male commesso (del resto, il retribuzionismo costituisce uno degli indirizzi essenziali del diritto penale moderno), e quindi correlare la pena più grave al delitto più grave, ma il reo ha il diritto di essere sottoposto, qualora colpevole, alla pena capitale, in quanto essa lo riconosce come essere razionale, come sintesi che vale a superare l’antitesi da esso opposta alla tesi costituita dall’ordine. Certo, si può presumere che, per il lettore odierno, le tesi di Beccaria appaiano più umane rispetto a quelle, terribili, di Hegel; in tempi nei quali l’aspetto predominante della libertà è quello negativo, il rifiuto di tutto ciò che può essere visto come una prevaricazione del Leviatano contro il singolo giunge addirittura fisiologico. Tuttavia, ad una lettura più attenta, qualche dubbio sorge. Beccaria, infatti, sostiene che, ai fini degli effetti penali, l’ergastolo sia di efficacia di gran lunga superiore rispetto alla pena di morte. Non risulta difficile capire come, di fatto, si operi in tal senso una strumentalizzazione della persona umana ben più inquietante di quanto non possa essere la sentenza che dispone l’esecuzione di quella stessa persona. Hegel, al contrario, non accenna nemmeno ad una pretesa utilità della pena. Non si tratta di darsi ad una mera contabilità sociale, ma di istituire una corrispondenza tra ciò che si è commesso e ciò che si deve subire in quanto eversori dell’ordine statuale. Anzi, proprio il riconoscimento della dignità del condannato come essere razionale parte di un processo dialettico vale a scongiurare ogni tentazione di ridurlo a mero strumento di autosostentamento dello Stato stesso.
E’ proprio la linearità del rigore illuminista di Beccaria a costituire il problema principale: essa si pone come fattore imprescindibile di un progetto, quello posto a base della modernità. Un progetto che fallirà, e che pure arrecherà infinite sofferenze, perché in ultima istanza porterà a ridurre l’uomo ad una grottesca commistione tra astrazione ed estensione. Per contro, il richiamo di Hegel alla presa in considerazione della dignità e della razionalità, ben lungi dal costituire una formula vuota, appare ancora oggi come un dovere ineludibile e cogente quando non s’intenda cedere alla tentazione di concepire la realtà non più come magma che può ancora generare ma come processo e dispositivo.
Marco Zenesini
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