8 Ottobre 2024
Sapienza Greca

Sull’Edipo Re – Luigi Angelino

L’Edipo re, come è noto, è il capolavoro di Sofocle che incarna uno degli esempi più emblematici della tradizione della tragedia greca. Non si conosce in maniera precisa la data della sua prima rappresentazione, anche se si pensa che possa essere collocata tra il 430 ed il 420 a.C. ad Atene (1). Prima di metterne in evidenza i significati più importanti, ritengo opportuno ripercorrere i punti maggiormente salienti della trama. La tragedia dell’”Edipo re” è compresa nel cosiddetto ciclo tebano, cioè la narrazione fantastica delle origini della città di Tebe. La trama è incentrata su Edipo, un sovrano stimato e rispettato dal suo popolo, all’apice del potere che, in una sola giornata, vede la propria fortuna capovolgersi.

Apprende, infatti, la sconcertante verità che avvolge il suo passato, avendo ucciso il proprio padre senza conoscerne l’identità ed avendo sposato, ancora ignaro, la propria madre. Edipo perde la dignità di capo carismatico ed apprezzato da tutti per diventare una specie di reietto, maledetto dagli dèi, inviso agli uomini ma soprattutto a sé stesso. Preso dall’angoscia e dalla disperazione, Edipo si acceca, deponendo la carica reale e chiedendo di essere allontanato in esilio. Sofocle, da gran maestro qual era, riesce ad imprimere un ritmo crescente all’opera, a cominciare dal prologo che introduce Edipo impegnato a combattere una pestilenza che opprime la città di Tebe, supplicato da una folla di cittadini terrorizzati dal morbo fortemente contagioso. Il re, sempre disponibile verso i suoi sudditi, aveva già inviato Creonte, suo cognato, a consultare l’oracolo di Delfi in merito. Quando rientra Creonte rivela che la causa dell’epidemia, secondo il famoso oracolo, doveva essere addebitata all’uccisione di Laio, il precedente re di Tebe, perchè rimasta senza espiazione a carico del reo. Edipo, non soddisfatto da tale versione, chiede maggiori dettagli al cognato che gli spiega che in quel tempo la città era dominata dalla Sfinge e che Laio era stato ucciso da alcuni briganti, mentre stava viaggiando verso l’oracolo di Delfi (2). Nel primo episodio della tragedia, il re proclama un bando per far esiliare l’uccisore di Laio, interrogando l’indovino cieco Tiresia (3) sull’identità dell’assassino. Questi, che conosce la verità, tace, non volendo turbare Edipo. Ma il sovrano si adira e costringe il vecchio indovino a svelare l’arcano. All’inizio Edipo rimane attonito e non vuole credere alle parole di Tiresia, pensando che la rivelazione faccia parte di un piano ordito con Creonte per spodestarlo dal trono. L’indovino allora si allontana e gli lancia un’orribile maledizione: entro la sera stessa l’assassino di Laio sarebbe stato punito ed esiliato cieco in un territorio straniero.

Nel secondo episodio Edipo si confronta con Creonte, accusandolo di tradimento. Interviene a questo punto Giocasta, attuale consorte del re ed ex-moglie di Laio. La donna esorta il marito a non credere nelle profezie di oracoli ed indovini, ricordandogli che anche per il marito era stata prevista una morte orrenda, quella per mano di suo figlio, quando invece era stato ucciso da alcuni briganti. Edipo rimane molto turbato dalle parole della moglie e le racconta che, quando era principe ereditario di Corinto, era fuggito dalla sua patria, perchè l’oracolo di Delfi gli aveva predetto che un giorno avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Sulla strada tra Delfi e Tebe, tuttavia, nei pressi di un crocevia, aveva litigato con un uomo e lo aveva ucciso. A quel punto si chiede: e se quello strano viandante fosse stato proprio Laio? Nel successivo e terzo episodio, Edipo riceve la notizia che Polibo, il re di Corinto, che lui credeva fosse il suo vero padre, è morto. Il re di Tebe tira un sospiro di sollievo, ma quando apprende che i regnanti di Corinto non erano i suoi veri genitori, un orrendo sospetto comincia a formarsi nella sua mente e convoca il vecchio servo di Laio. Nel frattempo Giocasta ha capito la terribile verità ed implora Edipo a non andare avanti con le ricerche, ma il marito non vuole ascoltarla. Anche il servo cerca di convincere il re a non interrogarlo, ma questi insiste e la tremenda verità non si fa attendere. Il servo rivela che gli era stato consegnato il bambino per ucciderlo, in quanto la profezia lo indicava come futuro patricida e consorte incestuoso, ma che per pietà gli aveva risparmiato la vita, cosnegnandolo ad un pastore diretto a Corinto. Giocasta, intanto, che fino ad allora aveva tenuto un comportamento ambiguo, si impicca ed Edipo si acceca con la fibbia della veste di lei. A nulla valgono le rassicurazioni di Creonte che cerca di incitare il disperato sovrano ad avere fiducia in Apollo. Prima di essere esiliato, Edipo non rinuncia ad abbracciare le due figlie, Antigone ed Ismene, di cui teme la sorte in quanto frutto di nozze incestuose.

Non a caso Aristotele definì l’Edipo re di Sofocle la “tragedia perfetta” (4). E questa definizione derivò da due aspetti fondamentali, che proveremo a delineare. Prima di tutto è necessario sottolineare il cosiddetto “capovolgimento dei fatti” su cui è costruita l’intera vicenda, “peripeteia”, utilizzando un termine ellenico, mediante il quale si giunge alla “anagnorisis”, l’inevitabile riconoscimento della verità. E’ evidente come la sorte di Edipo si trasformi profondamente: da famoso e stimato sovrano di Tebe ad untore della terribile pestilenza, causata dalla sua condizione di maledetto dagli dèi. In secondo luogo, lo Stagirita rimarca la profondità del senso tragico sul quale si regge l’intera storia, facendo leva soprattutto su due sentimenti umani predominanti: la pietà e la paura, capaci di portare alla catarsi, cioè alla tanto sospirata purificazione. Nell’assistere alla rappresentazione dell’opera, lo spettatore si sente coinvolto, in quanto è portato a provare compassione nei confronti di Edipo che, in fin dei conti, non ha fatto nulla di male, risultando soltanto vittima di uno sfortunato destino.
La paura è originata dal fatto che Edipo, pur essendo un re, è un uomo come tutti gli altri, sul quale si è abbattuta una terribile sciagura, vittima del fato e di un errore inconsapevole che gli stessi dèi sono portati a determinare. Nonostante ciò, nella visione di Sofocle non vi è spazio per una rivalsa contro le divinità. Egli mostra un approccio religioso che non tende a negare l’esistenza degli dèi o la validità di quanto affermato dagli oracoli. In Edipo si può individuare il prototipo dell’eroe tragico che, pur cercando di opporsi alle forze superiori del destino, ne esce quasi sempre sconfitto, al punto che la vera e propria essenza dell’umanità si confronta con la consapevolezza di accettare i propri limiti e la propria finitezza. Nella tragedia dell’”Edipo re” assume una notevole rilevanza il precetto del “conosci te stesso” (5), ripetuto dall’oracolo di Delfi, dove la sofferenza, che in epoca cristiana sarà perfino assunta a “paradigma” della salvezza, diventa un mezzo fondamentale per riuscire a conoscere il nostro intimo più nascosto. Pertanto, si può dire, che la tragedia di Sofocle rappresenti una riflessione per l’uomo di ogni tempo che non deve mai dimenticare che la propria vita è animata da forze che non possono essere controllate e soltanto accettando questa innegabile verità è possibile intraprendere la strada verso l’evoluzione interiore.

Prima di parlare della ricca simbologia compresa nell’”Edipo re”, ritengo indispensabile chiarire alcuni aspetti relativi all’antefatto della vicenda. Il mito narra che Laio, ospite di Pelope, si fosse invaghito di suo figlio Crisippo (6), ancora fanciullo, e che l’avesse rapito, conducendolo con sé a Tebe, dove lo rese oggetto delle sue continue ed insane attenzioni. Il fanciullo per la vergogna si tolse la vita. Pelope, allora, distrutto dal dolore per la morte del figlio maledisse Laio, augurandogli di non generare figli, oppure, se li avesse avuti, di essere ucciso dallo stesso frutto del suo seme. E, come detto in precedenza, una volta nato Edipo, il padre lo strappò dalle mani della madre Giocasta e, legando le sue caviglie l’una all’altra, diede ordine di ucciderlo sul Monte Citerone, dove un pastore lo avrebbe salvato, per la pietà del servo inadempiente. Il nome Edipo, infatti, si può tradurre con l’espressione “piede gonfio”. Notiamo, legando anche l’antefatto alla trama vera e propria della tragedia, come si sviluppi il tema della “colpa sociale” che, a differenza del “peccato” di matrice cristiana, non può essere espiata, perfino quando non dipende dalla propria volontà. Volendo analizzare la dinamica degli eventi, è Laio colui che si macchia di una colpa orribile, rapendo e provocando la morte di un giovinetto, per soddisfare i propri appetiti sessuali, mentre su Edipo ricade inesorabilmente la maledizione del genitore, non solo lussurioso, ma soprattutto pavido, non esitando ad abbandonare il proprio figlio per scongiurare l’avverarsi della profezia. E gli appassionati dei racconti greci sapranno di certo che la colpa di Laio non si estiguerà con il figlio Edipo, colpendo senza soluzione di continuità i suoi figli Eteocle, Polinice, Ismene e la famosa Antigone, tutti diretti verso un tremendo destino. Quando conosce la verità, Edipo sceglie di accecarsi, un’allegoria iniziatica che indica come il re di Tebe abbia vissuto fino a quel momento, osservando una realtà illusoria, al contrario del vecchio indovino Tiresia che, pur affetto da cecità, riesce a comprendere la verità, perchè “vede” con gli occhi della mente.

Edipo è il simbolo dell’uomo che cerca la verità ad ogni costo e che, una volta conosciuta, non aspetta la decisione degli dèi, ma trova il coraggio di autoinfliggersi una orrenda punizione. Nei miti ellenici di solito sono le divinità a provocare l’accecamento degli uomini per punire un atteggiamento di superbia, iubris, quando si tendono ad oltrepassare i limiti della propria finitezza. Nel caso specifico, invece, è lo stesso re ad accecarsi, quando si rende conto di essere stato il protagonista di una realtà illusoria. Non ha molta importanza indagare se il gesto tenda a punire più gravemente la colpa dell’incesto o quella del parricidio, quanto il raggiungimento della consapevolezza di aver costruito la propria esistenza sulle menzogne (7). E Sofocle ci pone di fronte ad un paradosso: con l’atto dell’autoaccecamento Edipo passa da una dimensione in cui era stato un semplice burattino in balìa degli eventi ad un’altra in cui diventa finalmente artefice del proprio destino, incarnando lo spirito del poietes, o homo faber, in grado di creare e di plasmare la realtà. In sintesi, si può dire che Edipo si autoinfligga l’accecamento per non esser stato capace di vedere la verità e non semplicemente perchè prova orrore a causa dell’incesto e del parricidio. Si potrebbe arrivare a dire che in quel momento di disperazione, il re di Tebe compia una scelta dettata da una straordinaria lucidità, comprendendo come l’unico mdo per non essere ingannati dalle illusioni, sia proprio la cecità. Si tratta di un tema che ritroviamo in altri autori greci, come del passo in cui Plutarco narra della condizione di Democrito, il quale sarebbe stato accecato al fine di riflettere in maniera più profonda (8). In tal senso, si comprende come Edipo non fosse affatto pazzo, quando si infila la fibbia negli occhi, al contrario di quanto crede il popolo interpretato nella rappresentazione scenica dai “coristi”.

Uno dei simboli esoterici più importanti dell’intero ciclo edipico è senza dubbio la sfinge, l’animale mitologico, metà donna e metà bestia (corpo di leone, ali di aquila e coda di serpente), inviata da Era ed Apollo a Tebe proprio per punire la colpa del re Laio. La sfinge era collocata su un dirupo e ripeteva a tutti lo stesso indovinello e chi non riusciva a ripondere veniva gettato dalla roccia e poi divorato (9). L’indovinello recitava così: “Che cos’è che al mattino va su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre?”. Soltanto Edipo riuscì a capire che si trattava dell’uomo, che da bambino va’ carponi sulle mani e sulle gambe, da adulto si muove con le due gambe, da vecchio si appoggia al bastone che rappresenta la terza gamba. Sembra, quindi, che Edipo risolva l’enigma, ma in considerazione delle disgrazie che poi lo colpiscono, forse la risposta non era del tutto esatta, o meglio che, pur essendo esatta nella forma, non fosse pienamente soddisfacente nella sostanza. Dal punto di vista esoterico, infatti, l’enigma della sfinge sembra porre l’eterno problema del legame tra l’Essere, unico principio, il dualismo, il ternario ed il quaternario. Prima della materia, esisteva solo Dio, tutto era nell’immobilità e non vi era né il tempo, tantomeno lo spazio. Quando il grande Architetto dell’universo decise di creare il mondo, iniziò il rapporto binario con il creato e soprattutto con la creatura plasmata a sua immagine e somiglianza, l’uomo. In relazione a ciò, si può notare che in natura tutto presenta il suo contrario: vita e morte, luce e tenebre, bene e male e così via. Non è un caso se nei monumenti megalitici preistorici e nelle cattedrali gotiche fosse di frequente raffigurato, come motivo ornamentale, il simbolo della doppia spirale, una centripeta ed una centrifuga, come emblema delle due forze uguali e contrarie. Il principio ternario è il logos che, in ambito cristiano, diventa il verbum, come mirabilmente delineato nel prologo del Vangelo attribuito a Giovanni.

Si tratta di un principio intelligente ed assoluto, di cui il sole è uno dei simboli più emblematici, perchè, pur riscaldando e fecondando di vita la Terra, rimane irraggiungibile, altrimenti la sua eccessiva vicinanza avrebbe effetto contrario, producendo un’inevitabile disintegrazione. Il principio ternario è stato reso, poi, dalla religione cristiana come il suo principale dogma, trasfigurato nella Trinità, i cui motivi propedeutici sono riscontrabili nei principali sistemi di culto più antichi. Ed, infine, arriviamo al “quaternario”: quattro sono i principali elementi cosmici della filosofia greca (aria, acqua, terra, fuoco), quattro sono i punti cardinali, quattro gli evangelisti e così via (10). La croce è un evidente simbolo “quaternario”, di cui la prima immagine è rappresentata proprio dall’uomo, così come raffigurato dall’eccezionale disegno dell’uomo “vitruviano” di Leonardo da Vinci. Pertanto, la risposta esatta alla domanda della sfinge doveva essere “l’uomo risvegliato”, cioè colui che riesce a superare il dualismo delle forze della materia, riesce a comprendere il principio assoluto del “ternario”, per diventare un “uomo nuovo”, il quaternario, l’opera più mirabile del cosmo, la quadratura del cerchio, ossia il microcosmo che esprime il macrocosmo, così in alto così in basso. Tra le interpretazioni più significative della tragedia dell’Edipo re di Sofocle, vi è sicuramente quella di Freud, dalla quale deriva appunto il titolo del complesso maschile durante l’infanzia che porta ad attaccarsi in maniera eccessiva alla madre e ad odiare il padre. Dal punto di vista femminile, ci sarebbe il cosiddetto complesso di Elettra, della bambina cioè che vorrebbe sbarazzarsi della madre per unirsi al padre. In tale contesto è doveroso ricordare come fosse importante per Freud, e per l’intera psicoanalisi, in primis per la corrente junghiana, basarsi sui racconti mitologici per chiarire meglio alcuni aspetti del nostro inconscio, allo scopo di far emergere quanto abbiamo rimosso. Freud sottolinea il senso di colpa del re tebano, quando scopre di essere incentuoso e parricida, quasi come esempio paradigmatico del percorso tracciato dallo psicanalista per il paziente. La posizione freudiana è stata criticata da alcuni autori, tra i quali Jean Pierre Vernant (11), che considerava l’analisi dello studioso viennese troppo carica di elementi etici, filosofici e sociali elaborati nella propria epoca, avulsi dalla contestualizzazione storica dell’Atene del V secolo a.C.. Di grande interesse è lo sviluppo del complesso edipico proposto da Fromm, secondo il quale la narrazione di Edipo andrebbe letta come ribellione del figlio contro l’autorità patriarcale del genitore, aspetto che viene ripreso nelle altre due tragedie che compongono la trilogia, l’Edipo a Colono e l’Antigone (12). E, ripercorrendo l’intera vicenda di Edipo, Hilman spiega in maniera compiuta come le scienze psicoanalitiche abbiano guardato all’istituzione sociale della famiglia quale nucleo principale da cui trae origine il destino di ciascuno.

Il mito di Edipo, nei suoi molteplici significati, continua a stupire l’uomo moderno non meno che gli antichi cittadini di Atene, di cui l’interpretazione freudiana può essere considerata soltanto la punta dell’iceberg. Come abbiamo accennato in precedenza, si tratta di una narrazione basata su un paradosso: la cecità come mezzo per arrivare alla verità e trasfigurata in metodo psicoanalitico. Ci sentiamo un po’ tutti come Edipo quando cerchiamo di sfuggire ai nostri fantasmi personali, diventando ciechi davanti al nostro io interiore. Analizzando l’intero schema del racconto, soltanto in un modo Edipo avrebbe potuto sfuggire al suo orrendo destino, cioè se avesse sbagliato la risposta all’enigma della Sfinge, venendo divorato dalla bestia. Anche questa è una verità parziale, perchè come abbiamo già detto, la risposta di Edipo può essere considerata risolutiva solo sotto il profilo formale, ma non sostanziale. Soltanto la cecità gli conferisce una nuova consapevolezza che l’orienterà verso un difficile quanto insperato rinnovamento interiore.

Note:

1 – Cfr. Sofocle, Edipo re-Edipo a Colono-Antigone, traduzione di R. Montanari, Edizioni Mondadori, Milano 2006;
2 – Cfr. Vincenzo di Benedetto ed Enrico Medda, La tragedia sulla scena, Edizioni Einaudi, Torino 2002;
3 – Tiresia era figlio di Evereo, appartenente alla stirpe degli Sparti e della ninfa Cariclo. Sul cieco indovino vi sono varie tradizioni mitiche, di cui quella più famosa riporta che fu accecato dagli dèi, perchè non profetizzasse argomenti privati;
4 – Cfr. Aristotele, Poetica, a cura di Domenico Pesce, Edizioni Bompiani, Milano 2004;
5 – Cfr. Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Edizioni Rizzoli, Milano 2001;
6 – Un’altra tradizione mitologica su Crisippo ispirò la tragedia di Euripide appunto intitolata al fanciullo, secondo cui questi sarebbe stato assassinato dalla matrigna per far accusare Laio dell’omicidio;
7 – Cfr. Franco Maiullari, Segno e omertà nell’Edipo re. Una tragedia per tutti e per nessuno, Editore Istituto veneto di scienze, Venezia 2001;
8 – Cfr. Plutarco, De Curios, 12D;
9 – In alcune raffigurazioni la sfinge era anche dotata di ali e generalmente veniva associata ad edifici come i templi religiosi o le imponenti tombe reali;
10 – Cfr. Immanuel Velivosky, Edipo e Akhenaton, Profondo rosso edizione, Milano 2014;
11 – Cfr. Jean Pierre Vernant, Edipo senza complesso. I problematici rapporti tra mitologia e psicoanalisi, traduttore A. Masullo Costa, Editore Mimesis, Milano 2013;
12 – Cfr. Il complesso di Edipo secondo la psicoanalisi di Erich Fromm su https:documen.site, consultato in data 24/05/2021.

Luigi Angelino

1 Comment

  • Paola 30 Maggio 2021

    È stato un piacere leggerLa, grazie. Tragedia che tutti dovrebbero conoscere e apprezzare, in ogni verso, anche chi non conosce il greco classico, avvalendosi di una buona traduzione (sebbene si perdano inevitabilmente grandezza e sfumature della “lingua geniale”-cit.-). Per quanto mi riguarda, è il testo che più volte ho letto nel corso della vita, dalla terza liceo (portando greco all’esame orale come prima materia), all’università (la trilogia tebana), alle riletture successive, riletture “private”, con la medesima emozione.

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