di Giacinto Reale
Le guerre condotte in nome della negazione del principio della realtà della guerra, le moderne guerre per la democrazia e la giustizia, cioè, sfociano così in conflitti manichei, come rilevato da Carl Schmitt:
“Guerre di questo tipo si distinguono fatalmente per la loro violenza e la loro disumanità, per il fatto che, trascendendo il politico, è necessario che discreditino il nemico che occorre rimettere al suo posto, ricondurre all’interno delle sue frontiere”.
Discreditare il nemico significa anche criminalizzarne i comportamenti: da questo nascono i processi del dopoguerra – a futuro monito e tardiva vendetta – contro i “criminali di guerra” tedeschi e giapponesi.
Inevitabile conseguenza è, in prospettiva, la squalifica del principio di obbedienza agli ordini: si ritorna, in pratica, alle tesi di Grozio, che fu tra i primi a teorizzare il diritto del soldato a disobbedire agli ordini in nome del principio di obiezione di coscienza.
Si ragiona come se la coscienza individuale fosse sempre in grado di giudicare una situazione e di valutare la scelta dei mezzi. Si apre la strada, di fatto, al moltiplicarsi delle soggettività, delle valutazioni individuali dell’ordine “giusto” o potenzialmente “criminale”.
Giusto deve essere l’ordine e, soprattutto, la guerra: le moderne religioni laiche, le ideologie, hanno identificato questa “giustezza” nelle tre componenti:
- legittimazione dell’autorità che bandisce la guerra;
- giusta causa;
- retta intenzione in nome della quale è dichiarata la guerra.
Ogni bella costruzione teorica, ogni conseguente discussione sul diritto internazionale e di guerra, si infrange, però, di fronte alla semplice considerazione che, mentre ogni e qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione, il risultato della guerra è proprio l’opposto: dar ragione a chi vince.
Non si può prescindere da Nietzsche: “Voi dite che la buona causa santifica perfino la guerra; io vi dico che è la buona guerra che giustifica ogni causa”.
La verità è tutta qui: la guerra non è necessariamente né buona né piacevole, né augurabile, ma fa parte del reale, come insegna la concezione tradizionale europea del mondo, fondamentalmente “polemologica”, secondo la quale l’uomo combatte su due fronti:
– la “grande guerra”, inevitabile e perenne, che appartiene all’ordine spirituale, ed è la lotta contro i nemici che ognuno porta in sé;
– la “piccola guerra”, eventuale ed episodica, che appartiene al mondo fisico e materiale e non viene intesa come un fenomeno patologico, ma come una possibilità che non si può negare né far scomparire solo con la buona volontà.
Nessun timore quindi a dirsi, anche in questo campo, debitori di teorie e autori oggi non “alla moda”; nessun complesso di colpa o di inferiorità di fronte al pacifismo ed ai pacifisti più o meno in buona fede.
Scriveva Ga
etano Salvemini dall’esilio di Harvard:
etano Salvemini dall’esilio di Harvard:
“Il pacifismo ha un grande vantaggio: che il pacifista non deve studiare nessun problema internazionale nei suoi elementi spesso terribilmente complessi. È sufficiente per lui coltivare nella testa e nel cuore una sola idea e un solo sentimento: l’opposizione alla guerra. Egli ha fatto voto di non capire niente, e per mantenere il suo voto non ha bisogno di affaticarsi il cervello”.
Ciò era vero ieri, ed ancor più oggi: la responsabilità maggiore del pacifismo moderno è che dicendo no alla guerra, dice in realtà no alle regole della guerra, per sostituire ad un conflitto limitato da norme la falsa pace del ricatto nucleare o la selvaggia guerra senza regole del terrorismo e della lotta civile, nei quali l’aggressività umana non viene più costretta e ritualizzata – il che vuol dire anche compressa – nelle regole militari, ma esplode nel suo furor belluinus, appena nobilitato dagli alibi ideologici.
Ma, soprattutto, contro il pacifismo gioca la lapalissiana osservazione apparsa qualche tempo fa su un giornale francese:
“Dire che non si farà mai la guerra e che non si riconosce alcuno come nemico non impedisce all’altro di considerarvi, lui sì, come suo nemico… I pacifisti ignorano che la pace è un fatto politico come la guerra e non dipende dalle loro buone intenzioni. Ho un bel protestare la mia amicizia davanti al nemico che mi vuole asservire. Sono suo nemico dal momento che egli vuole che io lo sia”.
Ciò è tanto più vero oggi, in una società che –come rivelano tutte le indagini– è alla disperata ricerca di certezze alle quali ancorarsi. L’unica via è quella di riconoscere il conflitto come possibilità del reale, dotarsi dei mezzi per prevenirlo e, qualora esso si manifesti, contenerlo entro limiti che vorremmo definire “umani”.
Assolutamente da evitare è la tentazione di rinunciare all’idea, comune a tutta la cultura europea, e tramandataci dai nostri padri, che l’umiliazione, la schiavitù, la compressione del nostro diritto ad essere uomini, siano peggiori della morte.
Occorre elevarsi sopra il quotidiano, sentire ancora il fascino di Kakania, la mitica terra dei fermi valori che resistono all’incalzare del tempo e della storia. Terribile è il presente, fatto degli idoli obesi e senza onore della civiltà informatica e dell’omogeneizzazione incalzante.
In chiusura, associandola all’immagine del superbo cavaliere di Durer che cavalca nella foresta della vita, solo, con il suo cavallo e il suo cane, fra la morte e il diavolo, una riflessione di Jean Cau, che a quel cavaliere ha dedicato un libro:
“La guerra uccideva i giovani. Certo. La pace continua ad uccidere e svuota la gioventù. E poi, la guerra designa l’Altro, il nemico. Io non sono un individuo che a patto che l’Altro esista. Il mio essere si esaspera tanto più fortemente quanto più quest’Altro mi si oppone e mi si rifiuta. Il nemico mi è necessario: mi costringe nelle mie definizioni, mi obbliga a volermi, mi forza a disegnare il tratto che mi comprende, e all’interno del quale vive, di vera vita, la mia differenza”.
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