Sarà capitato anche a voi di sentire qualche intellettuale à la page ironizzare sulla guerra “sola igiene del mondo” del manifesto futurista del 1909 o di leggere qualche grosso calibro di terza pagina che cita con disgusto il Papini che nel 1913 sentenziava: “La vita non è sacra”, per concludere che si tratta di fenomeni di proto-fascismo (orrore !).
E, allora, ecco una chicca: un autore non sospetto, Giovanni Amendola, vittima dello squadrismo fascista, animatore dell’Aventino, che, in epoca non sospetta, nel 1911, così recensiva un libro pacifista:
« (…) la lotta contro la natura interna, la conquista del mondo dello spirito dall’individuo richiedono quelle virtù di sacrificio, di fortezza, di audaci, che costituiscono il fondo del combattente, e che fanno dell’uomo di guerra, con tutti i suoi eccessi e le sue brutalità, un tipo infinitamente superiore a quello dell’accorto sibarita che trova nel culto della pace la miglio espressione della sua concezione voluttuaria della vita… la massa degli uomini ai quali l’ascesa e la spiritualità non sono possibili, mantiene intatta la virtù combattiva nella sua forma più comune; ed è grazie a questa folla semplice, incosciente, ma sana, che libri come quello in questione non serviranno a niente, e che, grazie a Dio, gli uomini continueranno a scannarsi piuttosto che ad incanaglirsi ».
La verità è che per secoli in Europa i valori di lotta sono stati considerati positivi, atti a formare il carattere, a suscitare il coraggio e a sviluppare la capacità di dare tutto se stesso. La comunità trovava proprio nell’esaltazione del sacrificio supremo degli eroi i suoi valori fondanti di durata e coesione, convinta che “il sangue degli eroi è più sacro dell’inchiostro degli eruditi e della preghiera dei devoti”.
Alle spalle di tutti c’era una costante epica, che risaliva, praticamente senza interruzioni, sino alle origini della comune civiltà europea, ai poemi omerici.
L’ascesi guerriera era, con la contemplazione, una delle due grandi vie di realizzazione di sé, che consentiva di allontanarsi dalla “via delle madri” e portava alla “via del Nord”.
E così che, fino al 1945, l’esperienza bellica è vissuta senza grossi traumi: essa appartiene all’umanità più del pacifismo; in essa si cercano i valori positivi, si rifiutano gli apriorismi moralistici e pietistici, pur apparendo chiara a tutti la tragicità dei conflitti.
Remarque, con il suo All’Ovest niente di nuovo del 1929, primo vero romanzo pacifista a grande diffusione, costituisce l’eccezione: la regola sono i memoriali, le ricostruzioni, i racconti di esaltazione della guerra… ed anche nella letteratura italiana, fino al 1945 non esiste alcuna opera degna di essere definita “pacifista”.
Tra i molti nomi che vengono in mente, mi soffermo un attimo su tre autori, due tedeschi e un italiano, particolarmente significativi ed utili ai fini del discorso.
Letterariamente – ma la cosa è qui secondaria – questi autori possono essere considerati l’espressione più alta delle testimonianze europee sulla Prima Guerra Mondiale, e i loro romanzi, racconti di esperienze vissute, non hanno la fastidiosa morbosità di certi bellicismi da salotto, ricchi di gusto barocco di stupire e scandalizzare. Sono veramente esempi di “realismo eroico” in letteratura.
L’italiano è Ardengo Soffici troppo noto per aggiungere altro, i tedeschi sono Ernst Junger e Ernst Von Salomon, riconducibili, in qualche modo, a quella “rivoluzione conservatrice” ben nota ai miei lettori.
Soffici ci ha raccontato la sua esperienza come Tenente dei 128° Fanteria alla presa del Kobilek, nell’ambito della battaglia della Bainsizza, in uno scarno libretto, intitolato, appunto, Kobilek; libretto denso di episodi, talvolta crudo nelle descrizioni, senza concessioni a nessun estetismo della guerra, che non manca di sottolineare due elementi essenziali:
– il formarsi tra i soldati al fronte di una vera comunità di combattenti, interclassista, interideologica, interregionale, unita dalla “mistica del fronte”, e destinata a continuare nelle attività di pace (in primis nelle squadre d’azione fasciste), con il netto superamento della mentalità borghese;
– la valutazione comune che tutti, anche i più umili e meno attrezzati culturalmente (e forse loro più degli altri) fanno della guerra come esperienza interiore e come ascesi non riservata a pochi, ma aperta a ognuno, quale possibilità totale.
Simile, anche se più “teutonica” – mi si passi il termine – è l’esperienza di Junger, ventenne volontario di guerra, ferito sette volte, tenente dei Reparti d’assalto, ricostruita in Tempeste d’acciaio. La guerra ha, per Junger e i giovani della sua generazione, “l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli”.
Anche nello scrittore tedesco niente si concede agli estetismi ed alle menzogne: non ci sono risparmiate le immagini di nature sconvolte, di uomini e animali sventrati dalle bombe, che autorizzano la feroce polemica contro il cannone, vero protagonista della Prima Guerra Mondiale, che trasforma il conflitto di uomini in un conflitto di mezzi.
Il libro è, però, anche ricco di momenti esaltanti ed irripetibili: l’istinto del cacciatore e l’angoscia della preda si fondono nel combattente che sente nascere dentro di sé la coscienza di essere invulnerabile, a dispetto della morte che gli dà una caccia spietata.
L’esperienza della guerra segnerà Junger e i suoi commilitoni, fino a fargli scrivere:
«La guerra è la madre di tutte le cose, e anche la nostra: ci ha martellato, bulinato e indurito, facendo di noi ciò che siamo. E sempre, finché la ruota vibrante della vita si svolgerà in noi, questa guerra sarà l’asse intorno al quale essa stride. Essa ci ha educato al combattimento, e finché esisteremo noi saremo guerrieri».
Guardiamoci intorno e confrontiamo: vedremo uomini “martellati” dalle droghe pubblicitarie, “bulinati” dagli imbottigliamenti automobilistici, “induriti” dalla schiavitù del telecomando.
Anche nel romanzo di Junger sono presenti gli elementi già individuati in quello di Soffici, della guerra come esperienza interiore e della comunità di combattenti. Ad essi se ne aggiunge un terzo: in nemico è rispettato e riconosciuto come un altro “uguale a sé”, e non “altro da sé”, come vorrebbero certe teorie falsamente umanitarie e d egualitarie.
Tra il fante tedesco e quello inglese si crea un clima di solidarietà che non è tra “poveracci”, ma tra simili che si riconoscono vicendevolmente le stesse doti di audacia e di coraggio.
Junger è poi, innegabilmente, capace più di Soffici di immagini efficacissime, che si scolpiscono nella memoria, come quella della «sentinella con l’elmo a chiodo, ricoperta di panno grigio, le mani affondate nelle tasche del lungo pastrano, in piedi dietro la feritoia, mentre soffia il fumo della pipa soprani calcio del fucile».
Un’immagine che non può non ricordare quella della sentinella di Pompei, immobile al suo posto e coperta di lava, vera “traccia iconica nella storia” come scriverà Spengler.
Molto diverso è quel che accade ne I proscrittidi Von Salomon: qui tra il protagonista, l’autore adolescente (che non ha fatto in tempo a partecipare alla guerra, e che nelle settimane successive alla resa tedesca si batte contro nemici interni ed esterni) e i suoi avversari c’è una frattura non sanabile.
In questo caso sì che i borghesi, i proletari, gli intellettuali che in qualche modo hanno permesso la sconfitta tedesca sono “altra cosa” rispetto al giovane cadetto, allievo di scuole militari prussiane.
La guerra diventa ideologica e, quindi, per certi versi “totale”, attraente solo per chi cerca dogmi ai quali affidarsi ciecamente, ma comunque terribile e senza pietà: sia che si combatta ai confini nord orientali che per le strade di Monaco, i nuovi lanzichenecchi che fanno disperata offerta della vita alla Patria sconfitta inseguono un ideale di guerra dell’onore
contro una realtà di guerra tra mercanti.
contro una realtà di guerra tra mercanti.
Per loro, la visione di un uomo che sa giocarsi spavaldamente la vita, provoca sempre entusiasmo. Per imitazione, i principi delle trincee, la nuova aristocrazia che nel dopoguerra vuole comandare perché non ci siano più guerre, si scatena in manifestazioni gioiose e tremende di furor teutonicus.
La moralità del combattimento è il parametro su cui tutto si misura; il milite è soddisfatto solo se “in regola” e sa guadagnarsi il rispetto degli altri uomini – che rispetta a sua volta – in un giornaliero confronto:
«Fa uno strano effetto sapere che l’indomani mattina bisognerà gettarsi in una avventura mortale e ascoltare, prima di addormentarsi, le voci della propria coscienza, e regolare i conti con se stesso».
Quanta tristezza, per noi, che all’indomani siamo attesi al più da un incruento confronto sul posto di lavoro con colleghi e superiori, ancora inebetiti da una serata televisiva ma, nonostante questo – o forse proprio per questo – prima di addormentarci non riusciamo a sentire le “voci della coscienza”, e, quindi, non riusciamo a “regolare i conti” con noi stessi.
Come si è accennato, molte sono le differenze tra questi tre autori, che rappresentano un ideale progressione nella consapevolezza del valore della guerra come esperienza interiore.
Per tutti, comunque, la guerra non è una bandiera da far garrire al vento, né una fanfara che inumidisce gli occhi: essa è l’esplosione della cosa in sé, atto iniziatico, origine di un mondo nuovo. Il diritto alla guerra altro non è che il diritto alla vita, contro i moralisti dell’ordine costituito, trasgressione della vita parlata per una vita vissuta, intensamente vissuta.
Questo elemento della trasgressione consente di accennare ad un’altra “faccia” della guerra: secondo alcuni studiosi e storici, soprattutto di scuola francese, nella guerra tradizionalmente intesa, nella guerra pre-rivoluzione francese, cioè non ideologica e non “totale”, è evidente il carattere di “gioco”, il sentimento ludico.
Come un gioco, la guerra ha le sue regole ben stabilite, e di un gioco, di una “festa” essa ha soprattutto i connotati della violenza, dell’eccesso, della distruzione e dello spreco di ricchezza, della temporanea sospensione delle norme del vivere civile, della rottura – e della successiva restaurazione – di un ordine sentito come usurato, e quindi necessario di un rinnovamento.
Ipotesi suggestiva, e che meriterebbe un approfondimento…
A qualcuno potrà sembrare strano che, fin qui io abbia prescisso completamente da esempi americani; la spiegazione è semplice: il modello americano è, anche in questo campo (con le inevitabili eccezioni) quanto di più lontano dalla tradizione europea, e talora ad essa antitetico.
La mentalità quacchera e puritana dominante in America infatti non considera la guerra come un aspetto del reale, ma una violazione dell’ordine costituito; il soldato americano è – anche nei romanzi – poco sensibile, proprio per il suo sentimento della vita, agli appelli eroici e drammatici ben noti agli Europei: il quadro esaltante della morte in battaglia lo lascia indifferente.
Nella realtà questo vuol dire, per esempio, entrare in guerra quando i contendenti sono già abbastanza sfiancati (è quello che avvenne nei due conflitti mondiali) e sfruttare al massimo la propria superiorità tecnologica, secondo la regola “to use a hammer to smash a pea” (usare un martello per schiacciare un pisello).
Il lavoro militare, l’assalto alla postazione nemica costituiscono il proseguimento dell’impegno che il cittadino ha assunto in pace di difendere il diritto e la giustizia….ma bisognerà che l’azione appaia tecnicamente possibile, altrimenti il soldato americano cercherà di venir via, di non spendere la sua vita “in perdita”.
Questo significa che sono rari in America il coraggio inglese quando ci si fa uccidere, senza scomporsi, anche se è assurdo o “ingiusto” (“right or wrongy, my country”), e il coraggio tedesco quando ci si fa uccidere soprattutto quando è “assurdo”, quando tutto è perduto.
Ecco perché la letteratura di guerra americana lascia, in genere, indifferenti: mancano in essa gli impeti, le emozioni, la spiritualità della letteratura europea e soprattutto tedesca: essa è popolata da emarginati che la guerra dovrebbe riscattare o da vittime di quella che proprio
la sociologia americana ha individuato come la “mama’s baby sindrome”.
la sociologia americana ha individuato come la “mama’s baby sindrome”.
Per la verità, una qualche inversione l’aveva iniziata tempo fa un certo cinema sempre statunitense, e penso per primo agli eroi de Il cacciatore, vera comunità in pace in guerra contro il mondo abbruttito dalle ciminiere e dall’odio ideologico.
Poi c’è stato il Colonnello Kurtz di Apocalypse now, mistico combattente di una guerra tradizionale nei modi e nelle motivazioni, contrapposto agli Ufficiali cialtroni ed impotenti della guerra tecnologica fatta con squadroni di mostruosi elicotteri.
Tutto è praticamente finito con quel Rambo, guerriero moderno, reduce dal Vietnam, che ha con la natura un rapporto di tipo tradizionale, che desidera la pace ma non rifiuta lo scontro, che a fare anche a meno delle diavolerie tecnologiche, sicuro vincitore in cento duelli uomo contro uomo.
Ma, alla fine, è prevalso lo star system: eroi gonfiati nei muscoli dalle iniezioni e svuotati nel cervello dalle droghe televisive e modaiole, intrisi di super tecnologia, pronti ad arrendersi – perché privi di ogni motivazione ideale ed ideologica – di fronte ad un nemico uguale a loro, ma solo meglio dotato di gadgetsguerreschi.
Contro di loro, faccio mio l’appello di Von Salomon:
«Eravamo folli… non volevamo rassegnarci ad un’epoca in cui la rinunzia era la parola d’ordine. Dicevamo “no” a quel mondo perché avevamo già sulla punta della lingua il “sì” per quello futuro. Così la nostra follia non era che orgogliosa ostinazione. Eravamo pronti a sopportare le conseguenze estreme di quell’ostinazione. Un uomo non può fare di più».