Heidegger, nel suo ormai celeberrimo saggio “La questione della tecnica”, ritiene che l’essenza della tecnica non sia tecnica: infatti egli scrive che: “La tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica” (1). Che cosa significa essenza in questo caso? La parola tecnica, di origine greca (tèchne), indica la capacità di saper fare e di saper operare sia in senso artigianale che artistico. Per Heidegger l’essenza della tecnica ha come proprio fondamento ontologico l’Essere stesso, nel senso aristotelico-scolastico del “quod quid erat esse”. Per cui tale fondamento non è da trovarsi nel semplice saper fare, ma nel perché si sa fare. Il fondamento, perciò, si trova nell’Essere stesso. L’Essere si manifesta, in quanto principio che entifica gli enti, nell’ente umano, il quale, essendo l’unico ente che si interroga sull’essere, viene appositamente definito da Heidegger come Esserci. In questa manifestazione l’Essere fa un “dono” all’Esserci: questo dono è una forma di disvelamento della verità, nel senso del greco antico di alètheia. Una modalità di questo dono, da parte dell’Essere, è appunto la tecnica, che è : “… un modo del disvelare. La tecnica dispiega il suo essere (west) nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza (Unverbogenheit), dove accade l’alètheia, la verità.” (2).
Ma perché l’Essere si disvela nell’Esserci, permettendo a questi di poter dispiegare, nel suo agire, la tecnica? Ora, la tecnica in sé, nella sua essenza intrinseca, è un insieme, sempre citando Heidegger, di manipolabilità (zuhandenheit) e di usabilità (zeughaftigkeit). In altre parole con la tecnica si costruiscono cose che vengono create dalla capacità umana di dare una forma ad una materia generica, come ad esempio un marmo, un legno, un pezzo di ferro, ecc. che vengono trasformati in una statua, in un tavolo o in una macchina. La cose sono dunque il prodotto di una materia formata, che solo in senso linguistico è di tipo aristotelico, ma non nel concetto di fondo, in quanto la forma non è per Heidegger la componente perpetua delle cose (la forma come sostanza), bensì ciò che rende usabile una cosa. Resta comunque da spiegare perché l’Esserci sia in grado di formare la materia e perché questa capacità sia un disvelamento dell’Essere. La risposta viene data dal nostro filosofo già nella sua opera “Essere e tempo” e in particolare nel capitolo secondo in cui si tracciano le linee fondamentali dell’essere nel mondo a partire dall’essere in quanto tale.
Intanto però bisogna chiarire come Heidegger intende l’uomo nel suo rapporto con l’Essere: “L’Essere dell’Esserci si rivela come Cura (Sorge). L’elaborazione ontologica di questo fenomeno esistenziale fondamentale richiede la sua determinazione rispetto a fenomeni che di primo acchito potrebbero essere confusi con la Cura. Tali fenomeni sono la volontà, il desiderio, la tendenza e l’impulso. La Cura non può essere dedotta da fenomeni di questo genere perché è nella Cura che essi trovano il loro fondamento” (3). La Cura è una sollecitudine, un preoccuparsi, un darsi da fare verso qualcosa o qualcuno. L’Esserci, pervaso dalla Cura, si prende cura soprattutto del mondo e degli altri Esserci. Queste due modalità dell’essere nell’Esserci costituiscono i due principali esistenziali (existenzialien) che caratterizzano l’esistenza umana. In particolare il primo esistenziale è strettamente connesso con la questione della tecnica. L’Esserci si trova gettato nel mondo e in questo essere-nel-mondo (in der welt sein), si prende cura di esso. Egli si prende cura del materiale che gli sta intorno, e quindi lo muta, lo manipola, lo modella, insomma lo forma per costruire cose che saranno poi utilizzate. Le cose diventano appunto degli utilizzabili. Nessun essere vivente è in grado di costruire tante cose come l’uomo: basti pensare ad una stanza in cui si vive e si vede che nessuna cosa è estranea ad un certo grado di utilizzabilità. Il prendersi cura implica perciò la capacità di progettare. Manipolare per poi usare è un agire che prelude ad una prospettiva futura. Il progetto è un pre-vedere il futuro, e ciò implica una dimensione temporale verso la trascendenza (Transzendenz). Il futuro si configura quindi come la dimensione fondamentale del tempo, e questo significa che la tecnica, come arte del saper fare è pervasa, proprio perché costruisce sempre un qualcosa di usabile in-vista-di, da tale dimensione temporale. Il futuro rimanda necessariamente al passato, in quanto se si progetta si deve ricordare ciò che si è fatto, altrimenti il progetto stesso non sarebbe più possibile. L’Esserci quindi vive in e tra un futuro-passato, per cui il suo presente è sempre un mentre. Si può dire allora che Esserci è l’unico ente che è caduto nel tempo. Ciò significa che tutti gli altri esistenziali (l’essere con gli altri, la comprensione, la situazione emotiva, ecc.) sono intrisi delle rispettive dimensioni temporali. Pertanto la struttura della Cura, a cui si rimandano tutti gli esistenziali, è possibile poiché il tempo si temporalizza nell’Esserci. In conclusione l’Essere è il tempo stesso è l’Esserci è l’ente che vive la temporalità resa possibile da questa temporalizzazione, che per Heidegger costituisce l’Evento (Ereignis) originario. L’Evento poi, eventualizzandosi storicamente, si palesa come linguaggio e come co-appartenenza fra Essere ed Esserci.
Su come sia avvenuta questa caduta nel tempo, Heidegger non scrive. E’ da considerare implicito che se l’Esserci è caduto nella dimensione della temporalità, ciò è dovuto al fatto che doveva procurarsi da vivere e quindi procurarsi del cibo. Questo bisogno viene enunciato originariamente nella storia del pensiero europeo da Platone, il quale nel II libro della Repubblica (369 b-d) scrive in tal senso. Con ciò egli non intendeva semplicemente dire che l’apertura verso il mondo delle cose dipendesse da bisogni economici, bensì anche da una naturale propensione politica, in quanto l’uomo può sopravvivere solo nell’ambito di una comunità. Heidegger sottolinea che l’Esserci è costitutivamente con gli altri (egli è un mit-sein), perché non esiste nessun uomo che possa vivere solipsisticamente. Su questa scia di pensiero sia Hegel che Marx hanno ritenuto che la nascita dello stato sia dipeso dal lavoro (che è per l’appunto l’arte per procurarsi il vivere e per convivere con gli altri), e quindi dal progetto. Hegel addirittura affermò che con lo Stato vi è “l’ingresso di dio nel mondo”, cioè l’ingresso della Ragione nella sua fase dell’Autocoscienza. E in effetti possiamo dire che la figura servo-signore descritta nella “Fenomenologia” sintetizzi perfettamente la concezione storica della nascita dello stato. Marx, dall’altro canto, pur aderendo al concetto che è il lavoro che dà origine allo stato, considera negativamente, in quanto comunista, la divisione gerarchica della società in servi-signori, considerando lo stato come un organo contro il popolo e non per il popolo. Ma al di là di queste radicali differenze di prospettiva, il concetto di base è lo stesso.
Crediamo comunque che la più convincente ipotesi sulla nascita dello stato nella sua fatticità storica l’abbia fornita Arnold Toynbee, nel suo capolavoro “Storia comparata delle civiltà”, (ed Newton) in cui ritiene che le prime civiltà statuali sono sorte dal rapporto sfida-risposta nell’ambito ambientale. Infatti solo quella parte di umanità che è stata “costretta” al lavoro organizzato è stata di fatto la pioniera della civiltà e quindi dell’apparire dell’Autocoscienza nella storia. Importantissimi sono stati gli studi di Karl August Wittfogel e recentemente di Umberto Melotti sul collettivismo burocratico e sulle società idrauliche (anche Marx, in verità, si occupò di tali argomenti nei suoi “Grundrisse”). Tutti questi studiosi hanno convenuto che solo con i lavori organizzati, ordinariamente di tipo per lo più idraulico, sono nate le società gerarchizzate e quindi gli stati. Arginare, canalizzare, deviare le acque erano lavori che richiedevano una lunga progettualità, per cui la protensione verso il futuro apriva l’ingresso ai principi logici della causalità e della non-contraddizione che sono due principi potenti del nostro intelletto. Del resto ciò lo si comprende bene esaminando la struttura stessa del principio di causa, che è basato proprio sulla successione temporale del prima (causa) e del poi (effetto). L’associazione fra ciò che facciamo oggi e quello che faremo domani è possibile solo all’interno di una relazione temporale fra passato e futuro. Heidegger ha scritto a tal proposito un libro fondamentale dal titolo “Il principio di ragione” (Ed. Adelphi). La caduta nel tempo significa che l’Essere è tempo, in quanto governatore degli enti (come aveva genialmente capito Anassimandro 2.500 anni fa). E questa caduta rivela una dimensione estatica (da ec-stasi, star fuori, ovvero apertura alla trascendenza). La costituzione della Cura stessa è possibile solo perché il tempo (l’Essere) si temporalizza nell’Esserci (che è quindi temporalità). Il carattere estatico di tale Evento viene esplicitato chiarissimamente da Heidegger quando scrive che “…l’apertura storiografica si temporalizza a partire dall’avvenire…” (4) e che “… solo in quanto l’Esserci è storico, cioè aperto al suo essere-stato in virtù della temporalità estastico-orizzontale , la tematizzazione del “passato” ha via libera in seno all’esistenza…” (5). Il senso della Cura è quindi la temporalità: il progetto proietta l’Esserci verso il futuro, che è la dimensione fondamentale della temporalità, e l’essere-gettato inchioda invece l’Esserci verso il passato.
Tutto questo discorso, che ci rendiamo conto essere sintetico e parziale, lo si è sviluppato comunque per spiegare il perchè Heidegger ritenga che il fondamento della tecnica, non è la tecnica stessa, bensì l’Essere che si disvela nell’Esserci anche in questa modalità. Nel mondo antico il disvelamento dell’Essere nell’Esserci come modalità tecnica fu definito da Platone nel Simposio (205b) come poìesis, cioè una produzione intesa con pro-duzione, un condurre a favore della natura: a tal riguardo Heidegger fa l’esempio di un mulino a vento oppure di un ponte su di un fiume che avvicina due mondi separati. L’artigiano forma le cose, il contadino custodisce la natura. Nel mondo moderno, invece la tecnica si manifesta come una pro-vocazione (Herausforden), la quale pretende che l’energia che v’è in natura venga estratta ed accumulata per creare un fondo (Bestand). Tale accumulazione viene conseguita sfruttando e consumando le risorse in modo irreversibile, attraverso una razionalizzazione del processo lavorativo che viene ottenuto grazie alla meccanizzazione e alla matematica quantitativa applicata in tale processo. Si ha quindi il trionfo di quello che Guènon chiamava il “Regno della quantita”. Questa configurazione tecnica dell’Essere nell’ente nell’età moderna viene chiamata da Heidegger “Das Gestell”, che letteralmente significa scaffale o suppellettile, ma che in senso più comprensivo assume il significato di impianto, imposizione o meglio ancora di dispositivo.Tali significati rivelano il fatto che è la tecnica a guidare la scienza, in quanto essa impone la sua esigenza di esattezza, propria delle scienze applicate, per potersi dispiegare come dominio.
Del resto la rivoluzione scientifica del Sei-Settecento nasce per le esigenze tecniche nell’ambito architettonico, fisico, chimico e balistico precedenti. Quello che è interessante però è osservare che anche il Gestell fa parte del disvelamento, Per cui l’imposizione tecnica è pur sempre un modo destinale con cui l’Essere si rapporta all’Esserci. Infatti Heidegger, quando cerca di dare delle “definizioni” dell’Essere, definizioni che egli stesso ritiene comunque sempre inadeguate e parziali, pensa a concetti-metafora, quali “Lichtung” (radura luminosa), “Ereignis“ (evento), Spache (linguaggio), oppure come “ZusammengehoerigKeit” (coappartenenza). Quest’ultimo concetto-metafora ci sembra il più interessante per via delle domande che esso ci pone sul piano storico-filosofico. Vi è infatti, una differenza ontologica fra Essere ed Esserci, differenza ribadita da Heidegger in quasi tutte del sue opere sin dagli anni ’30, differenza che implica la naturale subordinazione dell’ente nei confronti del principio: l’Esserci, come ente, non è nient’altro che una semplice ed accidentale manifestazione dell’Essere che appunto lo entifica. Ora se l’Esserci, pur avendo il privilegio di domandarsi cos’è l’Essere e quindi di sentirsi legato a lui, è ente accidentale, viene spontaneo pensare che i disastri causati dal Gestell siano colpa dell’Essere stesso, in quanto il disvelamento di tale configurazione tecnica dipende principalmente dall’Essere stesso. Sarebbe come dire che la colpa del peccato originale è da addossarsi interamente a Dio, poiché egli essendo onniscientemente eterno sapeva che Adamo avrebbe peccato. Riguardo l’Antico Testamento tale obbiezione venne poi “superata” con la teoria del libero arbitrio, in base alla quale Dio, sommamente buono, lasciava all’uomo la completa libertà ontologica all’azione umana. Per cui anche il peccato è pur sempre una manifestazione della bontà divina. Ebbene in Heidegger la questione sembrerebbe venga affrontata con concetti similari, perché la libertà viene concepita come un dono preliminare dell’Essere all’Esserci. Un dono che viene configurarsi come “l’accadere dell’Essere stesso”. Tuttavia l’Essere non si dà mai interamente all’uomo, per cui la differenza ontologica può condurre l’Esserci a dimenticarsi dell’Essere. L’oblio dell’Essere (Seinvergegessenheit) è forse il tema centrale della meditazione heideggeriana a partire dalla svolta (kehre) avvenuta sempre negli anni ‘30. Perciò l’uomo coappartiene, sì, all’Essere, ma è anche libero di scegliere di allontanarsi dal suo principio. Si intravede qui l’influenza del pensiero di S.Agostino e di Lutero i quali ritenevano che l’uomo non potesse non peccare, perché, pur essendo egli completamente subordinato a Dio, si distoglieva da lui per la grande distanza ontologica che poteva smarrire il sentimento della fede. Con il Gestell l’Esserci non solo dimentica l’Essere, ma crede addirittura di diventarne il padrone. Per cui l’oblio dell’Essere è imputabile soprattutto alla tecnica e alla metafisica tradizionale che ha illuso l’Esserci di poter conoscere l’Essere stesso. Atto di superbia che comporta l’estendersi spirituale del nichilismo in tutte le azioni umane. La tecnica moderna livella, omologa, uccide la natura, vuole distruggere le differenze fra Essere ed Esserci, e fra gli Esserci stessi. E’ la nebbia fittissima in cui non si distingue più nulla. E’ il perfetto nichilismo realizzato. Esso corrisponde quindi all’oblio dell’Essere. Il Gestell ne è la massima attuazione in quanto la sua esigenza fondamentale, nella sua logica intrinseca, è l’uniformità: una uniformità che tende implacabilmente a rendere gli individui ed anche le cose (il funzionalismo) ad un livellamento generale. Qualsiasi aspetto qualitativo che distingua gli uni dagli altri viene ridotto a semplice “unità” numerica. E’ chiaro allora che nel mondo del riduzionismo, in cui tutto viene ricondotto a macchina, anche le concezioni democratiche e egualitarie secondo le quali tutti gli individui si equivalgono sono conformi, fanno parte integrante del sistema. La quantità è inversamente proporzionale alla qualità.
In questo sistema alligna il nichilista. E su questa realtà filosofico-sociale Heidegger si misurerà potentemente con quello di Nietzsche. Sappiamo che Heidegger scrisse su di lui per circa un decennio (dal 1936 al 1946) e che rischiò per davvero la depressione psichica sul finire degli anni ’30. L’ultima parte (la seconda) del suo lavoro “Nietzsche” è dedicata proprio al nichilismo. Spesse volte si crede che fra Heidegger e Nietzsche ci sia un continuum come fra Hegel e Marx. Nulla di più sbagliato: Heidegger in realtà svolge una critica radicale a Nietzsche, poiché egli considera il nichilismo dichiarato una malattia mortale, parafrasando Kierkegaard. Una malattia mortale perché l’Esserci difetta di libertà, poiché le sue possibilità sono limitate, e difetta pure di necessità, poiché chi nasce dal nulla non può che perire nel nulla e quindi non ha fondamento. Lo stesso Essere che per il filosofo si era aperto all’Esserci per una sua necessità, in quanto l’Essere poteva essere pensato solo da un ente pensato (la coappartenenza di cui si diceva). Col Gestell l’Essere stesso si ritira e ritira quindi la sua necessità di coappartenere con l’Esserci. L’Essere ritirandosi si dirada e non si svela più. L’Esserci, rimasto solo, sta diventando quel povero attore del Macbeth che si dibatte in scena e di cui non resterà più nulla. Per questi motivi il pensiero heideggeriano è incompatibile con quello nicciano.
Nietzsche infatti, si dichiara un nichilista perfetto nella sua forma attiva, come nichilismo della forza che deve essere esercitata in forme estrema, o estatica o classica in cui si dà un senso a ciò che senso non ha.
Abbiamo già scritto sul nichilismo in questa rivista tempo fa. Come in tutti i saggi brevi vengono tralasciati passaggi o nodi teorici importanti. Del resto questa forma di scritto tende a sviluppare un unico, o al massimo due, temi. Ora Heidegger ritiene che il nichilismo, in tutte le sue connotazioni incompleto-completo, passivo-attivo costituisca il massimo pericolo che l’umanità abbia mai corso. E questo perché l’Esserci, soprattutto nella configurazione del Tecnico, e io aggiungerei anche del Banchiere, si è in toto sostituito all’ Essere. Una volta si sarebbe detto che si sarebbe sostituito a Dio. Ma perché questa autoesaltazione super-oltre umana è così pericolosa? Evola e Guènon lo avevano compreso per primi. Tutti i nichilisti da Gorgia a Nietzsche escludono un qualsivoglia principio trascendente, per cui tutto è immanente. La Trascendenza viene spesse volte considerata come una invenzione atta a screditare la realtà terrena. L’iperuranio, il Dio dei cristiani e comunque ogni dio che sta al di là sono viste come alienazioni che impoveriscono la gioia di vivere e che sminuiscono la volontà di potenza. Ora però se esiste solo il finito, con l’esclusione di un principio trascendente, si esclude l’unità infinita e l’eternità. Il fondamento di ciò che è, apparendo, si trova pervaso interamente dalla dimensione spazio temporale, che è una dimensione finita. Ciò che è finito non può mai diventare infinito o eterno: il suo fondamento è un nullo fondamento, in quanto la finitudine in sé non ha fondamento. Guènon nei suoi straordinari libri di metafisica chiarisce in modo illuminante ciò che si è detto. Credere che nell’opera di Nietzsche si possa celare il bisogno di una religiosità, forse a causa del suo stile profetico nello “Zarathustra”, non ha capito nulla, su questo tema, del pensiero del filosofo. Nietzsche è perfettamente ateo: semmai gli unici dei che ammette sono i Fauni del bosco. Infatti se si ritiene che il fondamento dell’uomo sia l’uomo stesso, anche se sotto la veste superomistica, si cade per forza dentro il nichilismo, poiché il fondamento di tutto ciò che è finito, è appunto, come si diceva, il nulla. Il Dionisio che si identifica nell’eterno ritorno dell’uguale (tesi fra l’altro che Guènon dimostrò insostenibile nel suo “Errore dello spiritismo” (6)appartiene al finito. Il super-uomo regge alla morte di dio, e sprigiona la sua volontà di potenza nell’apoteosi dell’eterno ritorno dell’uguale. Una apoteosi senza stabilità e senza ancoraggi proprio perché è esclusa la Trascendenza. L’eterno ritorno è un divenire per un divenire che si ripete e in cui il super-uomo afferma se stesso.
Ora, però, sorge una domanda cruciale che è: il super (per la destra) o oltre (per la sinistra) uomo è davvero esistito storicamente? La risposta non può essere che affermativa. I super-uomini tuttavia non sono stati gli uomini d’eccezione, come Cesare o Napoleone, che sono stati uomini certamente straordinari e grandi creatori di stati che comunque agivano nell’ambito di una “civitas” o di una “republique”, ovvero nell’ambito di una comunità fortemente sentita. Il super-uomo in realtà è stata un idea, anzi una ideologia nicciana fortemente fraintesa, ma fortemente creduta da forze possenti presenti nell’Europa del primo cinquantennio del ‘900. Una ideologia manifestata e resa popolare da grandi intellettuali come D’Annunzio, George, Strindeberg, Mann, ed altri (si veda il libro di E. Nolte, Nietzsche e il Nietzscheanismo, Sansoni editore). Queste forze sociali erano i ceti medi che volevano combattere contro la minaccia della proletarizzazione, dell’abolizione della proprietà privata, del livellamento. Erano quei ceti che la seconda ondata di industrializzazione andava creando sempre più numerosi e che si sentivano, per i propri meriti, promossi socialmente e che quindi temevano l’abbassamento di livello sociale. I nazionalismi prima, i fascisti e i nazisti dopo hanno incarnato tale tensione trasformandola in azione politica. Ormai, dopo la lezione di De Felice, questa verità è accettata comunemente. La sconfitta nella seconda guerra mondiale ha portato alla ribalta gli yankee e i mugiki (ora sono rimasti solo i primi). Il super-uomo, il nichilista attivo non c’è più, perché non esistono più le forze sociali che avevano condiviso l’idea. L’insegnante, l’impiegato, il tecnico, il professionista, la piccola borghesia proprietaria rurale e cittadina nel suo insieme, sono figure in via d’estinzione e non sono più ceto medio. La borghesia in quasi tutte le sue stratificazioni è diventata plebe anonima, così come la classe operaia è diventata plebe di basso rango.
Il capitalismo assoluto tecnico-finanziario è riuscito là dove il comunismo aveva fallito. Attraverso il Gestell, tutto tende all’uniformità. Questi sono i nostri tempi. Tempi in cui prospera, si fa per dire, l’ultimo uomo, l’uomo descritto nelle pagine memorabili di “Essere e tempo” riguardanti le dimensioni esistenziali dell’uomo moderno deietto a livello degli oggetti (Verfallenheit), eimmerso nella passività ovina e nell’indifferenza feroce. Nietzsche ancor prima è stato colui che ne ha visto la nascita: egli è perciò in realtà il profeta della morte di dio e dell’avvento dell’ultimo uomo, del plebeo che vive nella stupefazione bestiale del presente.
E. Cioran, nella sua opera “La caduta nel tempo” ed. Adelphi, proponeva la caduta fuori dal tempo: tal caso ci aspetta il ritorno alla scimmia. E se si considera in modo distaccato l’uomo d’oggi, privato di ogni futuro e ridotto a mero homo consumens, c’è da dire che il nuovo evento non è così lontano.
Note:
1) M.HEIDEGGER, “La questione della tecnica”, sta in “Saggi e discorsi”, ed. Mursia.
2) IDEM, op.cit., p.10.
3) IDEM, Essere e tempo, ed. Longanesi. P.229.
4) IDEM, op. cit., p.472.
5) IDEM, op. cit., p.470.
6) R.GUENON, Errore dello spiritismo, ed. Adelphi, cap.VI, parte II.
Flores Tovo
f.tovo@libero.it