Da innocuo giocattolo e utile servigio a cane da pastore.
Da organismo di perdizione a spunto di redenzione.
A quale domanda vuoi rispondere?
Intorno a fine maggio 2018 Repubblica.it titolava così un video:
«Facebook, la lavata di capo del parlamentare Ue a Zuckerberg: “Hai creato un mostro».
Non si capisce se lavata di capo era un modo gentile per alludere che l’ha messo al muro o se l’autore – ignoto – del titolo e del trafiletto che segue era immacolato nei confronti di quanto stava presentando così:
«Mark Zuckerberg ceo e fondatore di Facebook, è stato convocato dal Parlamento europeo per rispondere sul caso di Cambridge Analytica. Molti parlamentari si sono innervositi perché Zuckerberg non è riuscito o non ha voluto rispondere a tutti i quesiti postigli. Guy Verhofstadt, ex primo ministro del Belgio e oggi parlamentare europeo dell’Alde, ha caricato sui social il suo discorso a Zuckerberg, tra i più infervorati della seduta: “Lei deve domandare a se stesso se vuole essere ricordato come Steve Jobs e Bill Gates, i quali hanno arricchito la società, o come il creatore di un mostro digitale che sta distruggendo le nostre democrazie”».
Tecnologia da tartufo
Ma i tartufi siamo noi e qualcuno ci farà il suo risotto.
Quanto dice il signor Guy Verhofstadt a Mark Zuckerberg sarebbe abbastanza per aprirci gli occhi sul potere che ci sovrasta. Sul controllo assoluto che si sta compiendo.
In realtà non basta affatto. Come possiamo comprendere dal video qui sopra, è necessario riconoscere e considerare le oligarchie finanziarie che sormontano anche Zuckerberg, accettando di credere alla sua trasparenza e/o innocenza. Vere timoniere dell’orbita del mondo, in grado di accendere e spegnere guerre, governi, spostamenti di popoli, patologie e forse anche clima, per estendere e affermare il proprio dominio planetario, spesso sotto l’egida della pace nel mondo.
Fallout esiziale
Oltre del potere che ci sovrasta, sarebbe necessario prendere coscienza anche di quello che ci permea e ci impregna: umore originariamente alieno ma ormai biologico, bypassato da una vita trascorsa sotto la permanente pioggia del fallout di migliaia e migliaia di bombe Com. Quelle lanciate dalle emittenti di chi possiede la comunicazione, e infinitamente rilanciate da ignari dj convinti di lavorare in qualche – si diceva e spero non si dica più – radio libera. Fallout del quale non ci avvediamo, del quale non percepiamo – eroinomani nel flash – la tossicità esiziale.
Nelle innocue particelle di jingle, che precipitano h24 ormai a tutte la latitudini, c’è il potere della tecnologia in tutti i suoi tentacoli: giocattoli, il tempo reale, gli ogm, la guida assistita, ecc. Dotato di una sua mente, esso semina e miete. Con abilità artroscopica non lascia tracce. Non c’è settore merceologico che non ne sia avviluppato.
Serve un dio
La tecnologia è ontologicamente un dio, al cui potere vogliamo genufletterci, alla cui gloria vogliamo celebrare.
Spesso, quando non sempre, nel fallout è fatta corrispondere e vissuta come progresso, unico e solo. Nella tecnologia è per noi insito, implicito, costituente la quadratura, il giusto, il perfetto, cioè, ciò che il pensiero comune fa coincidere con quanto ci manca. Così, abbracciando la tecnologia, crediamo di poter dare risposta al mistero, gonfiamo l’ego sociale, politico, individuale ad arroganti misure divine. Queste, meglio di altre, offrono la stima della perdizione in cui viviamo, l’abrogazione di noi stessi in nome della scienza.
Mimesi strategica
Il potere tecnologico è il più occulto. Non è segretato. È diffuso sotto il cielo a tutti noi. Come ciliegie a maggio, ci sembra un diritto e non vorremmo ci venisse sottratto. E continuerà a esserlo tanto più lo crederemo un vantaggio, tanto più lo continueremo ad accreditare di doti superiori per il (flaccido) miglioramento della vita che ha permesso.
Progressiva assuefazione
Ma quale progresso può esserci se l’uomo è dipendente da quelle macchine così vantaggiose; se la nostra profondità spirituale da denigrata che era è passata a miglior stato, visto che ora è dimenticata. Visto che ora la ragnatela, ormai composta da fili solo economici, si sta chiudendo su se stessa, soffocando il ragno.
Che c’entro io con Mr Burbank Truman?
Ad ognuno il proprio ragionamento su come sottrarsi a un destino nel quale essere fuggevole e controllata comparsa della propria vita, ma solido protagonista al momento degli acquisti. L’assuefazione è tale che non ricordiamo più d’aver sostituito lo spirito originario con quello offerto dai banchi dei commercianti. Ora crediamo di poter raggiungere i sogni acquistando merci, loro indegne, destabilizzanti, impoverenti succedanee. Ora possono far tramontare il sole e mandarci a nanna. Di come stiamo, allo show non interessa. Siamo tutti uguali, e nonostante le nostre apparenti libere stravaganze, tutti buoni per sostituire il protagonista.
Pilota automatico
A chi preferisce – leggi, sceglie – adeguarsi, adagiarsi protetto dal solito ritornello che è difficile cambiare rotta, che non possiamo farci niente, va fatto presente che non è quello il punto. Che portare l’attenzione sulla difficoltà è la modalità sconveniente al cambiamento, personale o sociale che sia. Il punto è che la rotta è sempre il risultato di una scelta.
Tuttavia, c’è anche chi si avvede della trappola e pensa che, più che adeguarsi, che vuoi fare? Smantellare il sistema è difficile, impossibile.
Legami, credenze e dipendenze, sono le esche del grande pescatore. La logica di una misura di noi stessi limitata al modesto raggio d’azione dei nostri più biechi interessi, rendono possibile e vera e quell’impossibilità, quel che vuoi fare?
Pilota manuale
Cambiare diviene invece assolutamente accessibile e vicino – indipendentemente dalla durata indicata dai calendari amministrativi del mondo – semplicemente mettendosi in cammino, dando l’esempio, avendo fede ed esprimendo la propria concezione, vuota da proselitismo positivistico. Tutti godono o penano per l’operato di chi ci ha preceduti.
Se stiamo andando dove non ci piace è nostra responsabilità cambiare, quanto mantenere la via. Così infatti sarà, quando dirigeremo verso mari non più di plastica, di progresso, di opulenza, di miseria spirituale. Mari in cui le reti del Grande Pescatore avranno maglie inadeguate.
Dov’è il problema?
Non sappiamo più cucinare il cibo, né coltivarlo o procurarlo, non sappiamo più rispettare il ritmo delle stagioni con tutto il loro significato per la vita terrena, e crediamo davvero se ne possa fare a meno, ci ammaliamo e diamo la colpa all’età. Il nostro impegno è avere e invidiare chi ha di più, sentire un fiotto di autostima davanti a chi ha di meno. Il nostro impegno è donare uno spicciolo al semaforo e proseguire verso i fatti nostri, lasciando che l’empatia con chi sta peggio vada a farsi benedire. Sulla crescente distanza dall’indipendenza non ci affrettiamo a ragionare, a capire a sentire a scegliere per compierla, per permettere ai nostri figli di avere una distanza ridotta rispetto alla nostra.
Ma è solo un assaggio. Insufficiente per cogliere e stimare quale terribile misura dalla terra e da noi stessi, abbiamo raggiunto; a quale bordo dell’abisso siamo affacciati; quanto, ancora ridenti, i nostri occhi non lo trovino orrifico. Siamo sensori e abbiamo disimparato a raccogliere i segnali del corpo e del mondo. Imbrattati di falsi valori non siamo più in grado di sfruttare noi stessi. Vibrisse incrostate di conoscenza, capaci ormai di vibrare solo al comando di idee infiltrate, ci rendono disponibili a crasse risate al cospetto di un rabdomante. Dovremmo invece evitare d’intossicarle per tornare a captare la conoscenza presente nel mondo e divenirla. Questo è il problema.
Il problema è che pensiamo che la medicina faccia il nostro bene, che i farmaci siano proprio quello che serve. È che non ci avvediamo che sono proprio loro, collusi alla classe medica, che alimentano e implementano malattie e persone malate; che la salute è uno dei più grandi business capitalistici del mondo. Il problema è li crediamo i farmaci necessari e salvacondotti verso la salute; che non vediamo la dipendenza che ne è implicata; non vediamo come questa e altre ci rendono vincolati e succubi, facilmente accontentabili e ricattabili, certamente uniformati, quindi orientabili. Capaci infatti di batterci contro altri Truman, giusto per il benefit e la carriera. Regalini che ci pacificano nel politico e nel privato. Di più, ci soddisfano. Non resta che identificarci ancora nel buono e nel bello di un film romantico, fingendo, senza saperlo, che sia quella la nostra vita.
La forza come dono a chi verrà
È che siamo polli allevamento, spiriti obnubilati, siamo merce. I giovani e non solo, sono contenti di fare la pubblicità per una multinazionale. Per pochi denari precari danno i loro migliori sorrisi.
I figli sono deboli. In una sola generazione digitale l’abbiamo constatato in diretta. I padri anche. Cosa significa essere forti? Non riguarda saper scaricare una motonave a spalle, riguarda avere la capacità di riconoscere se stessi, le proprie doti e le proprie debolezze, significa saper coltivare le une e ridurre le altre, significa valorizzare quanto sentiamo e ridurre il monopolio della razionalità e della sapienza da ciò che abbiamo anonimamente appreso; significa libertà dalle ideologie e dagli interessi personali; significa poter riconoscere ciò che fa per noi da ciò che è opportuno scartare; saper rinunciare senza per questo risentire di qualche occasione perduta. Certo, perché significa anche non invidiare, semmai amare chi è meglio di noi per coltivare quanto ci manca. Compiremo le scelte per donare un esempio di forza a chi verrà o daremo la colpa a qualcosa per non esserci riusciti?
Biblio
– Enrico Grassani – L’altra faccia della tecnica – Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi) 2002
– Enrico Grassani – L’assuefazione tecnologica – Delfino, Milano 2014
– Raoul Vaneigem – Trattato del saper vivere – Castelvecchi, Roma 2006