La cultura tedesca, dalla fine del Settecento fino alla prima metà del Novecento, ha dibattuto il tema del Nuovo Inizio. Molti dei suoi interpreti l’hanno letto quale possibile ritorno alla Grecia e ai suoi valori.
Otto si sofferma sull’ermeneutica del mito propria della psicologia del profondo: «il percorso più fuorviante. Questo tipo di psicologia infatti asseconda nella maniera più nefasta il fatale narcisismo dell’uomo moderno» (p. 31), ritenendo di poter pervenire all’individuazione di immagini mitiche attraverso l’analisi dei sogni di soggetti psichicamente turbati. Al contrario: «il mito genuino […] è sempre spiritualmente ricco […] non nasce da sogni dell’anima, bensì dalla lucida contemplazione dell’occhio spirituale spalancato sull’essere delle cose» (p. 33). Tratto più rilevante dell’esegesi del Divino in Otto è da individuarsi nel fatto che tale rivelazione sia esperita in prossimità al mondo degli uomini e della storia. Lo si evince con chiarezza dalla tesi secondo la quale la Grecia non ha sentito alcun bisogno di una rivelazione autoritativa. Ciò è chiarito da Schelling: «Il gran beato è Dio […] proprio perché tutti i suoi pensieri sono costantemente all’interno di quel che gli è all’esterno» (p. 47). Ai greci fu concesso di pensare gli Dei liberamente: essi si mostravano in ogni accadimento, in ogni essere, tanto che non si ebbe, presso di loro, incredulità. Il Dio per i Greci fu un’esperienza, un mostrarsi esplicito. Il loro antropomorfismo, in realtà, fu una forma di teomorfismo.
L’annuncio religioso dell’Ellade, sostiene Otto, trovò voce nelle Muse: il poietes aveva contezza di svolgere funzione medianica, in quanto in lui parlavano le potestates divine, nel cui canto «risuonava la verità di ogni cosa come essere ricolmo degli dei» (p. 51). La loro è lontananza-prossimità estrema, atta a tacitare i lamenti umani, a conferire pienezza all’esistenza. Gli uomini, dagli Dei, traevano una spinta anagogica, la vita si configurava come tensione inesausta verso il cielo, escludente qualsiasi primato del soggettivo: «Quel che agita l’interiorità degli umani è l’essere afferrati da forze eterne che agiscono ovunque in maniera divina» (p. 71): esse sono presenti in tutta la natura. Il perseguimento del bene era privo del tratto moralistico che avrebbe assunto in seguito. Gli Dei erano vicini all’uomo greco, tanto che questi veniva: «sollevato nel divino nell’attimo più significativo» (p. 78) del proprio agire. Gli Dei lo proteggevano, del resto, anche nella colpa, come testimoniato da tanti luoghi della letteratura ellenica. Il dolore, lo si evince dalla tragedia attica, era sempre commisto alla gioia. In tale religione, ruolo essenziale era svolto dal culto dei morti. I passati, erano venerati come: «l’essere di ciò che è stato» (p. 85), era loro conferita una realtà superiore a quella dei viventi. Le pagine più intense e belle, a parere di chi scrive, sono quelle che Otto dedica al Pudore come sacro timore e a Cháris, ciò che è gioioso. Il primo è: «pudore nei confronti di ciò che è inviolabile, della tenerezza di cuore e di spirito, del riguardo, del profondo rispetto […] e purezza nella vita sessuale» (p. 108). Tale sentimento rinvia alla Cariti, le Grazie romane, benedicenti tanto le più nobili creazioni, quanto: «le ore della più dolce felicità», stigma della vita religiosa greca.
Otto chiarisce che tale sapere della pienezza divina nulla ha a che fare con il panteismo, anzi il politeismo ellenico rappresenta la forma più spirituale di monismo, quale Unità trascendente dell’Essere. Gli Dei sono i diversi volti del divino nel mondo, che è retto dalla forza simpatetica di Eros. Lo studioso presenta, nella parte conclusiva del volume, alcune figure divine emblematiche: Afrodite, che: «appena toccò terra, il suolo fiorì» (p. 131), Artemide, il cui regno è la selva : «intimamente connessa a tutto quel che vive libero in natura» (p. 141), Apollo, il dio che nel tumulto: «appare all’improvviso, e il suo braccio teso impone la quiete» (p. 147), Atena dea della chiarezza e dall’azione consapevole, Dioniso dio del mondo primigenio. Ognuno di questi Dei, correttamente inteso, è per Otto un mondo intero.
A dire di Moretti, la lezione di Otto è rilevante. Egli si pone sul confine del dibattito che vide coinvolti romantici ed antiromantici, conclusosi paradossalmente in Nietzsche. Ne, La nascita della tragedia, questi condusse ad esiti estremi il dibattito sul dionisismo, celebrandone la fine. Nietzsche sostenne l’impossibilità di conciliare paganesimo e cristianesimo. Egli negò: «l’intuizione bachofeniana secondo la quale la religione è il motore della storia» (p. 181). L’esegesi di Otto rifiuta la concezione dualistica della grecità, che poneva la religiosità olimpica al fianco di quella misterica, centrata sull’immortalità dell’anima individuale. In Teofania, lo studioso, contro Nietzsche, difende l’apollineo nei termini di una conoscenza: «di cui il dionisiaco continua a far parte» (p. 183). In tale struttura conoscitiva si rivelerebbe, non una scelta volontarista, ma il Divino: «centro pulsante di significati sì mondani e realistici, e però mai prodotto dell’uomo» (p. 183). Da ciò l’attuale inattualità di questo libro.
Giovanni Sessa