Quando Julius Evola, rientrato dall’ospedale, avverte che prossima ormai è la fine, chiede che l’aiutino ad esaudire l’ultimo suo desiderio. Essere sorretto per poter vedere, in piedi, dalla finestra le cime degli alberi lassù, al Gianicolo. Magrissimo, debilitato, si appoggia a Mario che, piccolo di statura, l’accontenta. Poco dopo il suo cuore la sua mente il corpo saranno donati, sotto forma di cenere al ghiacciaio del Monte Rosa. Nel carcere di Regina Coeli, pensando ad altra cenere, avevo scritto:
‘L’essenza mi rimane nelle mani – solo quando è cenere, – ma è tanto già quando questo succede – per aversene a male…’.
(A ritroso questi versi appartengono a Sandro e nel presente sono il suo dolore la sua forza la sua dignità).
Oggi dedico queste righe proprio a Mario – pur abitando vicini non riusciamo a vederci, ad intrecciare un ulteriore e proficuo momento di dialogo (che sia vero come le cose che ci appaiono prossime distano anni-luce e quelle lontane viceversa? La memoria e la vita ad esempio, quando s’invecchia e si rende in ricordo). Alla Chiesa Nuova c’è un convegno, credo si presentasse il libro di Enzo Erra Le radici del Fascismo, presenti operatori della televisione. Sono seduto, per innata modestia, in prima fila (bisogna donare agli altri un po’ di bellezza, che diamine!). Mi raggiunge, mi stringe il braccio, sorride e sussurra: ‘Pensa che diranno… Mario l’ebreo, Mario il bombarolo…’. Ciò che conta è essere sempre e comunque ‘dall’altra parte’, istintivamente contro e quale unico rimedio in un mondo e in un’area ove va imponendosi – e da anni – una marmellata di pessimo gusto e colore.
Pochi giorni prima è venuto a parlare a scuola, davanti ai miei alunni della VB, sul volontariato nella R.S.I di cui fece parte e di cui si tende ad ignorare l’esistenza. E’ stato Renzo De Felice a ricordarlo e a ricordare come esso fu, sia durante gli anni del conflitto che dopo l’8 settembre, ben più superiore rispetto a quello della Grande Guerra di cui tanto s’è detto e scritto. E siccome è di cuore nobile s’è commosso al pensiero di quei suoi coetanei d’allora che sono caduti combattendo o, i più, uccisi con un colpo alle spalle o dopo aver consegnato le armi con la promessa di un salvacondotto. E questa commozione s’è trasmessa, per sin-patia, ai ragazzi che sono rimasti ad ascoltarlo come imprigionati nel magico cerchio di immagini emozioni parole. ‘Quale strana sensazione sentir parlare con accenti così simili a quelli di quando mio nonno raccontava della guerra’, mi confida successivamente Aurora, ‘solo che lui era stato partigiano…’.
E Mario racconta del ‘suo’ 8 settembre: … dal pennone il tricolore pende mogio e stanco. Cielo grigio, lieve e compatta scende la pioggia. E’ settembre, eppure sembra una premessa autunnale. Verso Porta S. Paolo il cannone romba costante e rabbioso, ma pur arrampicato sul ripiano dell’ascensore i tetti mi impediscono vedere cosa realmente sta accadendo. Con il binocolo seguo le indicazioni del colonnello nostro coinquilino, a cui tutti si sono rivolti per capire cosa succederà ora che il maresciallo Badoglio ha annunciato l’armistizio alla radio. Fra tanti adulti io sono poco più di un ragazzino e, come la piccola vedetta lombarda di Cuore, mi hanno spedito sul punto più alto del palazzo per scrutare e riferire. Sulla torretta del Quirinale il tricolore sì pende mogio e stanco, ma è ben visibile.
‘Se c’è la bandiera, vuol dire che il re è al suo posto. E, finchè c’è il re a guida della Nazione, siamo salvi!’, la voce del colonnello, squillante e decisa, è una iniezione salutare. La patria vissuta nel fascismo, con le sue realizzazioni e la sua organizzazione, si è suicidata il 25 luglio. Fu, allora, che vidi mio padre, immobile in poltrona, con la testa fra le mani due lacrime scorrergli sulle gote, muto inebetito e abbattuto. Rimaneva il re, un omino piccino in uniformi sempre troppo grandi per la sua statura, ma era pur sempre il sovrano, che dopo Caporetto aveva incitato alla resistenza sul Piave, il sovrano della vittoria; ed era sempre lui ad aver chiamato Mussolini al governo contro il disordine della politica e la sovversione dei rossi. Era lo Stato, della patria il simbolo unitario fin dalle lotte del Risorgimento. Questo ci veniva insegnato a scuola e questo si credeva, considerando il fascismo il compimento di quella unità. Dal colle del Quirinale, da quel palazzo ove avevano regnato per secoli i pontefici, attraverso la sua presenza simboleggiata dalla bandiera su quella torretta, egli proteggeva noi tutti, teneva ben salda la sorte di tutti noi…
Guardavo e lentamente, attimi inesorabili, quella bandiera il tricolore l’intangibile espressione della patria incarnata in quell’omino piccino (che avremmo preso coscienza essere uno spergiuro), scivolava lungo il pennone. Stavo incollato alle lenti del binocolo, confuso e ignaro dell’esatto significato di quanto andavo assistendo, mentre la voce imperiosa del colonnello insisteva ‘E allora? Allora?…’. Silenzio secondi meno di un minuto. ‘Signor colonnello, la stanno ammaiando! Sì, non c’è più!’… Rimango lì con il binocolo puntato ormai sul vuoto, solo cielo grigio e nudo il pennone. Ancora silenzio. Mi volto verso il pianerottolo. Contro il muro l’ufficiale sta piangendo coprendosi il volto con il braccio.
Uno dei tanti modi d’aver condiviso la tragedia collettiva di una nazione, la morte della Patria (nonostante che da Ciampi in poi s’è tentato di accreditare della sua rinascita). Aggiungo: andare volontario nella R.S.I., figlio unico e ad un’unica condizione, dato quel cognome così riconoscibile, evitare di indossare la camicia nera. Uno dei tanti perché irrisolti e negati di quella complessità della storia che c’insegnò a pensare Edgar Morin e che, nella retorica semplicistica dei presunti vincitori, va disconosciuta. La voce rotta trova energia di uno scatto d’orgoglio, lucida rivendicazione di una generazione generosa: ‘Non fui il solo. Se l’otto di quel settembre, gravido di pioggia e tragiche conseguenze rappresenta il momento più vile del nostro paese, vi furono mezzo milione di giovani, tutti volontari, pronti a riscattare il tradimento e il disonore con il loro mettersi in gioco. E molti donarono la vita’. Risento l’applauso immediato, spontaneo (ecco perché, l’ho ripetuto più volte, non sopporto chi fa del gratuito pessimismo sui giovani d’oggi. Ennio Flaiano diceva che in ciascuno di noi si nasconde un imbecille e che, oggi, quest’imbecille ha successo… bene, possiamo dire che in ciascuno di noi è sopito uno spirito ardito e ribelle).
Altro racconto, altra storia esemplare: un posto di ristoro dietro le linee per bere un bicchiere, incontrarsi fra camerati, un insieme di reparti italiani e tedeschi. Una sera un gruppo ferrigno di WaffenSS, misto di curiosità discreta e riverente timore. Parlano fra loro; qualcuno alza il tono della voce; si finisce per prestare ascolto. Io mi tengo in disparte. Potrei avere complicazioni se richiedessero i documenti e leggessero del mio cognome. ‘Ma non sono tedeschi!’, rileva il più vicino. Sulla manica della giubba lo scudetto azzurro e bianco e rosso. Sono volontari anticomunisti della Milice Française di Joseph Darnard. (Dopo il 25 aprile, arresisi, saranno consegnati ai gollisti e da costoro fucilati, quasi tutti. Nascostosi a Edolo, lo stesso Darnard verrà catturato dietro una spiata un mese dopo e, rimandato in Francia, dove subirà la medesima sorte il 10 ottobre del 1945. Aveva custodito e, poi, restituito la cassa con i fondi, ‘appartenuti allo Stato francese’ come aveva scritto su un foglio e che avrebbe potuto utilizzare per la propria fuga, per quella di altri dei suoi. D’altronde l’ampiezza della collaborazione e la spietatezza della repressione in Francia sono tuttora in parte coperte da un velo di ipocrito silenzio. Recentemente Franco, che s’intende di cose francesi, mi rivelava che si parla di una cifra aggirantesi intorno alle 350.000 esecuzioni).
Ci si avvicina. Li si sfotte: ‘Dopo la batosta del giugno 1940 come fate ad indossare l’uniforme germanica?’. Siamo giovani, sprovveduti, il nostro orizzonte limitato alla patria tradita, che il fascismo aveva reso grande e il re avvilito. Tanto ci bastava e per tanto ci si batteva. Ci risponde un ufficiale, occhialetti rotondi , il volto – questo sono io ad immaginarmelo simile a Robert Brasillach -, professore di storia, Mario ammiccando e con bonario sorriso ci tiene a precisare … ‘Il Fascismo è stato un grande avvenimento, una lezione per tutti noi. Ma voi siete ancora troppo nazionalisti, legati ad un’idea di patria ormai superata, che va superata’. Era difficile per noi comprendere, avremmo imparato in seguito. ‘Certamente anche noi avremmo desiderato indossare la nostra divisa e combattere all’ombra dei nostri vessilli. Oggi, però, questa è l’uniforme, unica possibile e imperfetta, per difendere l’Europa, per dare all’Europa un nuovo ordine. Questa abbiamo e con questa guardiamo sereni al futuro, non per noi che siamo consapevoli di cosa ci aspetta, per i nostri figli, i figli di un’altra Europa’.
Qui la forza evocatrice della parola stende le sue ali e consente agli occhi di creare visioni… Léon Degrelle su un terrazzo di Malaga che racconta di quel milione ed oltre di giovani esistenze generose, tese a costruire l’Europa anche contro le gabbie del pan-germanesimo; le pagine de I leoni morti di Saint-Paulien che cercavo di tradurre in una sorta di mappa, di itinerario di una Berlino sepolta sotto il rombo del cannone e dei cingoli dei carri armati sovietici, e che rimanevano sconosciute alla mente ma si disvelavano geografia del cuore; ecco Franco Aschieri, sabotatore repubblicano, fucilato nella cava di Sant’Angelo in Formis e che conclude la lettera inviata alla madre con l’esortazione ‘viva il fascismo! Viva l’Europa!… La memoria di Mario, uno dei tanti, forse con una nota diversa, forse stonata, ma capace di accettare il lavacro purificatore del sangue e dell’Onore…