7 Ottobre 2024
Appunti di Storia Controstoria

Torino, 25 aprile: mamma vado forse a morire (prima parte) – Giacinto Reale

“L’Ufficiale zompa come un grillo tra i sedili, e il suo lavoro di braccia è di una persuasione particolare”.

 

Il 26 febbraio del 1921 si svolge, a Torino, il Congresso dei Fasci piemontesi. Al termine di un biennio che nell’ex Capitale sabauda è stato più duro che altrove, per la presenza di forti masse operaie politicizzate e del vertice di quello che poi sarà il Partito Comunista d’Italia, con “L’ Ordine Nuovo”, organo di stampa anche più combattivo del vecchio “Avanti”, fondato da Antonio Gramsci il 1° maggio del 1919, sembra che qualcosa stia cambiando, per la parte “nazionale”.

I fascisti arrivano alla Galleria Subalpina, dove è indetta la riunione, incolonnati e in bell’ordine, per quella che è la prima manifestazione di forza in città. Cesare Maria Devecchi (scritto così fino al 1925, quando, dopo l’assegnazione del titolo di Conte di Val Cismon, sarà cambiato in De Vecchi) e Mario Gioda, in ritrovata armonia, hanno la guida del movimento, e se il primo assumerà l’incarico “operativo” di Segretario Regionale, al secondo, con la direzione de “Il Maglio”, toccherà dare la linea politica.

Devecchi, due lauree, avvocato, è pittore e poeta dilettante, oltre che esponente di spicco della cittadina “Società promotrice di Belle Arti”. Capitano in guerra, prima nei Bombardieri e poi negli Arditi, si è meritato tre medaglie d’argento e due di bronzo.

Nel marasma del dopoguerra è anch’egli, insieme a tanti altri ex combattenti, uno di quelli che non prova vergogna e non si pente per ciò che ha fatto al fronte, ed è pronto a battersi contro gli infangatori e i rinnegatori del sacrificio di ieri.

È questa intenzione alla base della sua – sofferta – adesione al movimento fascista. Monarchico convinto e intimamente di sentimenti conservatori, si sente “costretto” ad una vicinanza con ex anarchici e socialisti, ai quali cercherà in tutti i modi di rendere la vita difficile, nell’ambito del Fascio.

Sui dubbi di natura politica, fa però premio la sua natura impetuosa e portata all’azione. Ancora molti anni dopo, nella sua autobiografia, ricorderà orgogliosamente la definizione di “cazzottatore formidabile” attribuitagli da Filippo Tommaso Marinetti in occasione degli incidenti al primo Congresso fascista fiorentino dell’ottobre 1919.

Rivelatore è anche il modo nel quale racconterà, nello stesso libro, un episodio torinese di quei giorni lontani:

Uscii da solo dal mio ufficio, e, con grande meraviglia, nonostante lo sciopero in atto, sentii squillare le campanelle del tram. Una lunga fila di vetture veniva avanti dalle rimesse, non già per servizio, ma a scopo, diciamo così, pubblicitario. Sulle fiancate, infatti, recavano grandi scritte a calce, che dicevano. “Morte al Re! Morte ai preti! Morte al Papa! Morte alla borghesia! Morte ai combattenti!”

Nessuna scritta riguardava il fascismo e i fascisti che, del resto, quasi non esistevano e nessuno prendeva in considerazione. Saltai sulla vettura di testa, con la scritta “Morte al Re!” e indussi il manovratore a fermarsi. Questi tentò di reagire staccando la manovella, e agitandola in aria, ma non gli diedi il tempo di colpirmi. Tenevo l’uomo per i risvolti della giacca e sentivo che le sue forze si ammorbidivano, fino a sparire del tutto. Lo costrinsi a scendere e gli ordinai di cancellare la scritta.

“Con che cosa la pulisco?” mi domandò, pallido di paura.

“Con la lingua!” gridai. (1)

Tutt’altro discorso con Mario Gioda, di estrazione anarco-sindacalista, che ha seguito il suo amico Mussolini nella scelta interventista, fino a partire per il fronte, anche se non giovanissimo, e nonostante sia affetto da una grave forma leucemica, Al rientro ha fondato il Fascio in città, e, compatibilmente con la sua malattia (che lo porterà, nel 1924, alla morte), ne ha assunto la direzione, sempre in polemica con l’eterno rivale Devecchi.

Con loro, a mettersi particolarmente in luce è anche l’ex Ufficiale dei Bersaglieri Piero Brandimarte, reduce decorato, campione sportivo (“lottatore emerito”) dell’Esercito, che dal 1919 milita nel movimento mussoliniano.

Il suo esordio “attivistico” –per curiosa analogia con quanto accaduto a De vecchi – si svolge su un tram, e merita di essere ricordato:

Una mattina di novembre… L’American Bar è pieno di folla, e tra questa, emerge un Ufficiale dei Bersaglieri in divisa, alto, solido, quadrato.

L’Ufficiale sta bevendo il caffè, in piedi davanti al banco, È solo. E, d’improvviso, ode in lontananza echeggiare le note di una fanfara. Sentir queste note e lasciare la tazza sul bancone e farsi sulla porta fu affare di un attimo. Il Bersagliere si affaccia sulla via, guarda a sinistra, guarda a destra: ma non vede nulla che possa dargli sospetto…È una musica che in questi mesi piace a parecchia gente. È “Bandiera rossa”.

L’Ufficiale dei Bersaglieri, che è del 4° Reggimento, e che si chiama Brandimarte, è il comandante in seconda de “La Disperata”. Si capisce benissimo il perché questa “Bandiera rossa” non sia di suo genio.

L’Ufficiale rientra nel bar e riprende la sua tazzina di caffè. Ma, giusto in questo momento davanti al bar passa a tutta velocità un carrozzone tranviario col rimorchio pieno zeppo di musicanti. La fanfara è in tranvai e suona a pieni polmoni l’inno sovvertitore…

Il carrozzone fila verso piazza San Carlo, ma l’Ufficiale è campione di fondo, e in questa gara di corsa avrà la meglio. Brandimarte insegue il tranvai, e all’imbocco della piazza raggiunge il rimorchio e vi salta su. I musicanti suonano con tutto slancio, passando tra la gente un po’ curiosa e un po’ intimidita, ma l’era annunciata con tanto fiato e tanta buona volontà è interrotta dal diavolo.

Mentre il tranvai va, ecco l’Ufficiale dei Bersaglieri iniziare il suo lavoro, con velocità e precisione, e senza nemmeno spendere una parola. Sui musicanti attoniti piove d’improvviso una tempesta di pugni durissimi. Di destro e sinistro. L’Ufficiale spedisce, appunto a sinistra e a destra, i suoi biglietti da visita, che mutano i connotati ai più duramente colpiti.

L’Ufficiale zompa come un grillo tra i sedili, e il suo lavoro di braccia è di una persuasione particolare. I musicanti sono sgomenti per questo assalto fulminante. Sono in trenta, ma davanti a quella furia scatenata cade in essi ogni istinto di iniziativa. Poiché infine Brandimarte ha strappato a un rosso una cornetta e con questa mena colpi da orbo su pifferi e tromboni e tamburi. I vetri della vettura vanno in frantumi., strumenti nasi e teste sono acciaccati. La folla si sbanda intimidita a quel gran fracasso: s’aspetta, da un istante all’altro, qualche colpo di rivoltella. Ma gli assaliti decidono di arrendersi armi e bagagli e poiché l’assaltatore è un Bersagliere, ciascuno di essi ha, nel medesimo atto, il medesimo pensiero: se “Bandiera rossa” ha la virtù di scatenare questo diavolo, gli sia offerta istantaneamente l’unica musica che abbia la virtù di ammansirlo.

E, d’improvviso, tutti gli ottoni intonano la marcia gaia e veloce che batte il tempo alla corsa dei Bersaglieri. (2)

 

Fra i tre sarà lui, Comandante delle squadre cittadine nel 1921, ad avere un ruolo nella storia che stiamo raccontando.

In verità, Torino ha già conosciuto un “uomo di mano” capace di opporsi, con pochi altri, al dilagante sovversivismo: Gino Covre, ex Tenente degli Arditi, che tra il 4 e il 12 novembre del 1918, in successive manifestazioni, dopo aver guidato una cinquantina di “Fiamme” all’assalto di un corteo con bandiere rosse, invade la Camera del Lavoro in corso Siccardi e per una settimana fa il bello e il cattivo tempo in città. Di lui arriverà ad occuparsi lo stesso Gramsci, scopertosi “uomo d’ordine”, su “L’Avanti” del 19 marzo 1919:

Perché Masaniello Covre poté, per ben otto giorni, scorazzare le vie e le piazze di Torino col suo codazzo di armati di coltello, potè capeggiare un pronunciamento contro la Prefettura, poté oltrepassare, le tasche piene di sassi, in un’automobile “ufficiale” il cordone di Carabinieri che circondava la Casa del Popolo di corso Siccardi, poté lanciare i sassi nel salone gremito di operai, di donne di bambini. Perché non fu arrestato? …No, non è un avventuriero comune questo falso Capitano Luigi Covre…

E Torino ebbe il suo Masaniello, ebbe il suo Coccapieller, Luigi Covre, che non è un avventuriero comune, non è un volgare scroccone, ma un eroe, un eroe sociale, un uomo rappresentativo, il quale continua la serie di quegli eroi rappresentativi che nella terza Italia, nell’Italia del capitalismo, abbondano più dei Cromwell, dei Martin Lutero e dei Mazzini. (3)

Ben diversa la versione dei fatti che sarà fornita dal Chiurco:

Un eroico Capitano degli Arditi, Gino Covre, che giaceva ferito in un ospedale, esce in piazza, e con alcuni Arditi, impadronitosi di un tricolore, raccoglie intorno a sé tutti gli Ufficiali e i soldati, feriti e non, che incontra.

Cantando l’“Inno degli Arditi”, gli animosi vanno incontro alla colonna dei forsennati, la cui testa era già in via Roma fra piazza San Carlo e piazza San Felice.

Saranno stati sì e no una cinquantina, quando si trovarono di fronte al corteo sovversivo. Al grido “Abbasso lo sporco tricolore” rispondono le revolverate e le grida di “Viva l’Italia”, “Viva l’Esercito”. Tutta quell’orda vigliacca fugge terrorizzata.

Dalle caserme, dagli ospedali, fu un rovesciarsi di ufficiali, soldati, sicché in piazza San Carlo parecchie migliaia di grigioverdi ascoltavano poco dopo la parola incitatrice e tonante di odio del Covre.

La giornata d’allora contò diversi feriti. Fu, forse, quella la prima giornata dello squadrismo fascista… (4)

Covre poi lascerà Torino e sarà, quasi “rivoluzionario di professione” della parte fascista, prima Segretario del Fascio di Udine e poi di quello veneziano, sempre non in linea con l’ufficialità del movimento, che è progressivamente avviato a scelte normalizzatrici. Aderirà alla RSI, e, per una curiosa coincidenza, morirà proprio durante le “radiose giornate” dell’aprile del ’45, ma non –come spesso si dice – per vendetta partigiana, bensì per un male incurabile, in una clinica di Padova.

Per ora, è in strada, e fa quel che può, in una realtà che è particolarmente ostile a chi le ragioni della guerra non intende rinnegare e sogna un’Italia rinnovata nel segno della concordia nazionale.

Il 3 dicembre del 1919 viene ucciso lo studente Pierino Del Piano, intervenuto in difesa di un Ufficiale assalito da una turba di manifestanti, e un anno dopo, il 22 settembre, tocca a Mario Sonzini e Costantino Scimula sequestrati dagli operai che occupano le fabbriche e condannati alla morte negli altiforni, tramutata nel classico colpo alla nuca solo perché gli impianti sono spenti proprio a causa dello sciopero.

Nonostante la facile tentazione di fare –sia pure momentaneamente e tatticamente – fronte comune contro il nemico, il Fascio di Torino, non avrà mai una linea filo-padronale. Diffidenza, in verità, abbondantemente ricambiata, come, con qualche distinguo di troppo, sarà detto anche da fonte antifascista:

Nondimeno, le resistenze degli industriali a utilizzare o a riconoscersi nel Fascio non sono poche, a partire dall’oscillazione presente in non pochi fascisti tra il riconoscimento della disciplina e dell’ordine in fabbrica come elementi da ristabilire da parte degli industriali e l’appoggio dato ad alcune vertenze operaie per cercare maggiori consensi popolari. (5)

Poche settimane dopo la sua costituzione, un articolo di Mario Gioda, apparso su “Il Popolo d’Italia” del 29 giugno del 1919, e significativamente intitolato “Un formidabile colpo dei pescecani a Torino, cento milioni che spariscono”, è stato violentemente polemico con Agnelli e gli altri azionisti della FIAT, fatti oggetto della peggiore accusa per i tempi, e cioè quella di aver speculato sulle spese di guerra, creando così un fossato che resterà incolmabile.

Il fatto che l’industria automobilistica sia diventata in poco tempo, sotto la spinta degli eventi bellici, con i suoi operai passati dai 4.000 del 1914 ai 40.000 del 1919, una realtà con la quale bisogna fare i conti, e dalla cui benevolenza sarebbe meglio non prescindere, non interessa più di tanto i fascisti rivoluzionari riuniti intorno all’ex anarco-sindacalista.

Alla fine dell’anno poi, dopo la fallimentare esperienza del sostegno elettorale agli infidi alleati (nazionalisti, liberali e monarchici) del “Blocco della vittoria”, il Fascio effettuerà una sterzata, proponendo la formazione di “comitati a larga base, con inclusione di operai”, che definitivamente smontino la voce messa in giro dagli avversari che dipinge i neroteschiati come borghesi, guardie bianche del capitale.

Infatti, nessuna iniziativa verrà presa contro gli occupanti delle fabbriche, nonostante le minacciose mitragliatrici brandeggiate sui muri di cinta e le violenze diffuse (anche in città) che toccano il vertice con gli accennati omicidi di Scimula e Sonzini.

Eppure, proprio nello stesso periodo, forse anche come conseguenza della linea “operaista” imposta da Gioda che si sposa con l’effervescenza organizzativa di Devecchi, le cose cominciano ad andare meglio per il Fascio, che fino ad allora ha potuto contare quasi esclusivamente sulla militanza e sullo spirito di sacrificio di Arditi e studenti.

Sono sempre numericamente pochi quelli che danno vita alla ventina di Sezioni locali sparse nella provincia, ma decisi. E basta questa loro determinatezza a capovolgere la situazione, sia pure pagando un caro prezzo.

A Casale Monferrato, città di origine proprio di Devecchi, viene inaugurato il gagliardetto fascista il 6 marzo del 1921, con una manifestazione rumorosa (bande, cori, sfilate militaresche, etc) ma pacifica.

Quando tutto è finito, però, contro gli squadristi che stanno tornando a Torino, con un’auto e un torpedone, viene aperto il fuoco da attivisti social-comunisti appostati nella Camera del Lavoro, con un tragico bilancio. Resta ucciso il diciassettenne Luigi Scaraglio, già giovanissimo legionario fiumano, e due anziani ex tamburini dell’Esercito (Antonio Strucchi di 74 anni, e Costantino Brioglio, di 69) che sono seduti in auto con Devecchi e hanno partecipato alla cerimonia, per rappresentare la simbolica continuità tra Risorgimento e fascismo.

Un evento triste che è anche un segnale del precipitare della situazione. Né vale “a compensare” che tutti gli squadristi presenti a Casale, accorsi al rumore degli spari, occupino i locali, dopo aver sostenuto un oneroso conflitto a fuoco con alcune centinaia di sovversivi che vi si erano asserragliati, armati di tutto punto.

Un episodio impensabile fino a qualche mese prima, che dimostra come ora che i mussoliniani cominciano a farsi attivi con costanza e un po’ dovunque, chi si sentiva già vincitore reagisce con estrema durezza, in un clima infettato dalla propaganda di odio che nel fascista vede il “nemico” da sopprimere, ogni volta che se ne presenti l’occasione.

Proprio da questa malsana idea della lotta politica come susseguirsi di una violenza senza fine, nascerà, un mesetto dopo, a Torino, l’omicidio a sangue freddo dell’operaio fascista Cesare Odoni, che cercava il dialogo.

Sarà la scintilla che appiccherà l’incendio della notte del 25 aprile.

FOTO NR. 1: Piero Brandimarte

FOTO NR. 2: Mario Gioda

 

NOTE

  1. Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, Il quadrumviro scomodo, Milano 1983, pag. 29
  2. Guerrando Bianchi di Vigny, Storia del fascismo torinese, Torino 1939, pag. 430
  3. Articolo intitolato “Luigi Covre” in “Opere di Antonio Gramsci, sotto la mole 1916-1920”, Einaudi 1960, pag. 471
  4. Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, Firenze 1929, vol. III, pag. 392
  5. Nicola Adduci, Barbara Berruti, Bruno Maida, La nascita del fascismo a Torino, Torino 2020, pag. 28

 

 

 

2 Comments

  • Gianfranco Bilancini 7 Aprile 2021

    Dove si può reperire la prima parte dell’art. “1922 anno primo dell’era fascista”? Da “Ereticamente” non apre il pdf anche se indicato.

  • Ereticamente 7 Aprile 2021

    Gianfranco, clicca sull’icona pdf sullo sfondo arancio, l’altro non funziona. Saluti

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