“Signor Prefetto, sono nato scemo, sono cresciuto scemo, ma non voglio morire scemo. Da questo momento noi occupiamo la Prefettura…
Le ragioni della politica incombono, e il Fascio torinese, alla vigilia delle elezioni, alle quali si presenta, come nel resto d’Italia, inserito nei “Blocchi Nazionali”, esordisce con un manifesto dallo stile certamente inconsueto:
Italiani!
Il fascismo che non diserta da nessuna battaglia, scende sul terreno elettorale con tutti i suoi gagliardetti superbamente spiegati al vento. Altri Partiti – e vecchi e nuovi – si diffondono in dichiarazioni prolisse, nella illusione di suscitare le simpatrie delle masse: noi saremo brevi e schietti, com’è nel nostro costume. Due anni di storia parlano per noi.
…Il fascismo, che si è affermato vittoriosamente sul terreno dei fatti, non teme il responso delle urne… Tocca agli Italiani cancellare le elezioni del 1919 che diedero al mondo l’impressione di una Italia prossima allo sfacelo. (1)
Il responso delle urne vede l’elezione di Devecchi a Torino e Ezio Maria Gray a Novara, in una giornata contraddistinta da una serie di violenze che fanno soprattutto vittime fasciste.
Ecco perché la linea dettata dal vertice è dura, e dà un’indicazione di metodo che, di fronte alla diffusa tecnica avversaria dell’agguato con susseguente fuga, risulta l’unica ragionevolmente applicabile:
…risultando che tali aggressioni sono dai socialisti e dai comunisti preordinate e premeditate, per opera di chi li istiga, standosene però nell’ombra, si fra obbligo a tutti i Fasci di Combattimento di rispondere con immediate e inesorabili rappresaglie contro l’aggressore o gli aggressori se individuati, e quando ciò non sia possibile,si ordina di ritenere responsabili i capi locali (comunisti e socialisti). Quei Fasci che non si atterranno a queste precise disposizioni saranno proposti al Comitato Centrale per la radiazione. (2)
Soluzione che, però, non risolve il problema. Il 5 luglio, mentre si reca al fiume a pescare, nei pressi di Brandizzo, viene aggredito e ucciso a roncolate il ventunenne Aldo Campiglio, impiegato alla FIAT, già amico di Mario Sonzini e l’11 tocca al diciassettenne Dario Pini, già ferito in precedente occasione, che si era recato nei prati della Pellerina per fare un bagno nel canale.
Sono due casi di assassinii individuali di avversari “scovati” da soli, in un momento di tranquillità, non in una mischia o durante una manifestazione. Essi confermano la volontà che Mussolini sta maturando da tempo, di porre un freno al degrado generalizzato della situazione, anche a costo di andare contro la volontà dei suoi che aspirano ad una “giustizia” vendicatrice.
Nascerà così il Patto di Pacificazione, firmato (non dai comunisti, però) a Roma il 5 agosto, contro il quale si schierano la grande maggioranza dei Fasci, ma non quello di Torino che con i suoi due maggiori esponenti, questa volta d’accordo, mentre spesso sono stati in contrasto tra loro, manifesta piena solidarietà al Capo.
La buona volontà, però, non basta alla vecchia classe dirigente (tuttora al potere) che contro i mussoliniani pensa bene di utilizzare tutte le armi a disposizione, a cominciare dalle Forze dell’Ordine e dalla stampa.
L’episodio più grave si svolgerà a Sarzana, il 21 luglio, dove la linea di durezza scelta dai Carabinieri – pur in assenza di un effettivo pericolo – farà un totale di 15 vittime fasciste.
Ne deriverà un attrito forte tra i mussoliniani e i tutori dell’ordine, che troverà facile alimento nella tradizionale ostilità dei non pochi ex Arditi dei Reparti d’Assalto – ora fascisti – verso i “cappelloni” che in guerra erano spesso stati loro implacabili persecutori in nome di Regolamenti e disciplina.
Il tempo non sarà per questo la “migliore medicina”. Ancora un anno dopo, a Novara, in occasione della occupazione della città, dove pure momenti di estrema tensione non mancheranno, sui muri apparirà la scritta: “Carabinieri, voi non conoscete ancora i fascisti!”
Per non dire che, sempre a Torino, alla fine dello stesso 1922, contro l’inizio di un ammutinamento delle Guardie Regie, che univa motivazioni antigovernative alla rabbia per l’annunciato scioglimento, furono impiegate (senza soverchio dispiacere, è da credere) le camicie nere, con un bilancio di alcuni morti.
In parallelo alle manovre repressive, si muove la grande stampa, tradizionalmente “vicina” al potere e delegata a conformisticamente orientare la pubblica opinione. “La Stampa” è in prima linea in questo, e si guadagna l’ostilità fascista, che cova per un pò sotto la cenere, finché, all’alba del 31 maggio del 1922, squadre appositamente organizzate fermano tre autovetture destinate a portare il giornale in provincia.
Le copie (circa 30.000) sono sequestrate e alimentano il fuoco in piazza Carlo Felice.
L’invito del mondo “d’ordine” agli intemperanti in camicia nera sarà sintetizzato al meglio dal “Giornale d’Italia” del 15 luglio, dopo che alcuni squadristi hanno “visitato” la casa del padre di Miglioli, nelle giornate di occupazione della città:
Veramente sarebbe tempo che i fascisti se ne stessero un po’ tranquilli e non venissero con le loro gesta inopportune ad ingarbugliare una situazione politica abbastanza delicata: noi siamo benevoli verso i fascisti, riconoscendo la loro grandiosa indimenticabile benemerenza, di avere cioè salvato il Paese dalla catastrofe bolscevica, ma appunto agli amici deve essere detta la verità. E la verità è questa, che l’on. Modigliani avrebbe perfettamente ragione di mandare, all’uso meridionale, i caciocavalli a casa dell’on. Farinacci.
Ma come? Si sta giocando alla Camera una grossa partita per impedire ai socialisti di provocare la formazione di un Ministero di reazione antifascista, per mantenere intatta l’alleanza tra tutti i Partiti costituzionali della Camera, e per tenere in piedi il Governo liberale dell’onorevole Facta, e i fascisti di Cremona non trovano nulla di meglio da fare che rompere e bruciare quattro sedie e quattro tavoli della casa avita dell’on. Modigliani, dando così all’on. Modigliani il pretesto per la sua tirata melodrammatica dell’altra sera, e all’on. Miglioli il mezzo per…commuovere il Gruppo Popolare e condurlo dalla propria parte? (3)
Gli squadristi non se ne danno per intesi. Essi si muovono ormai in un’ottica che mira chiaramente alla conquista del potere, con l’inevitabile prova di forza che deve piegare i due nemici che sono il sovversivismo (quel che ne resta) e lo Stato borghese.
Ottica che deve fare i conti con le esigenze di carattere più strettamente militare.
Per ciò che riguarda il Piemonte, essenziale appare assicurarsi il controllo di Novara, ganglio vitale delle comunicazioni nel triangolo industriale. Anche qui (come quasi ovunque, e meriterebbe di fare un calcolo per verificare l’assoluta predominanza di tale costante, che vede prima una o più vittime fascista e solo dopo la reazione dei mussoliniani), tutto nasce dall’uccisione, ad opera dei “Ciclisti rossi” di uno squadrista, l’agricoltore ventisettenne Angelo Ridoni, il 9 luglio. La reazione dei camerati del Caduto provoca lo sciopero generale, con il consueto contorno di violenze, finché in città arrivano squadre da Torino e da altre località di Piemonte, Lombardia e Liguria.
Per 15 giorni lo sciopero va avanti, mentre si susseguono – anche per l’arrivo di squadre comuniste da fuori, “anelanti alla lotta” – incidenti che interessano tutti i paesi della provincia, con un bilancio finale di oltre 50 sedi sindacali distrutte, 40 Comuni amministrati dalle sinistre assaliti, una dozzina di morti e una cinquantina di feriti dalle due parti.
Il comando viene assunto da Devecchi, il quale deve sudare le classiche sette camicie per controllare l’attivismo dei suoi uomini e tenere testa alle Autorità ed alle Forze dell’Ordine, senza per questo perdere un certo spirito ironico:
Improvvisamente, la porta dell’ufficio del Prefetto si apre, e irrompono nel medesimo gli Onorevoli De Vecchi, Gray e Lanfranconi. L’On. De Vecchi, avvicinatosi al Prefetto, gli rivolse queste testuali parole:
“Signor Prefetto, sono nato scemo, sono cresciuto scemo, ma non voglio morire scemo. Da questo momento noi occupiamo la Prefettura… (4)
Singolare, quasi deamicisiano (soprattutto nell’ultima frase), ma che dà l’idea del personaggio, la chiusa del manifesto di smobilitazione che lo stesso futuro quadrumviro farà affiggere prima della partenza, dopo giornate di grande tensione, anche – e forse soprattutto – con le Autorità, come quando:
Camicie nere!
Tornando alle vostre case, prima dei canti della vittoria, gettate tre funebri alalà per Luigi De Michelis e Luigi Coppa. I nostri morti hanno dato una nuova vita alla terra bagnata dal loro sangue. Inginocchiatevi davanti alle bare, e pregate Iddio Giusto che mantenga all’Italia la pace tricolore conquistata col sacrificio.
Vi bacio tutti. (5)
Sono, in pratica, gli ultimi fuochi del vecchio squadrismo torinese e di tutto il Piemonte. Di qui alla fine dell’anno si avrà un forte afflusso di elementi nuovi (assettati di “gloria”, sia pur della venticinquesima ora), non di rado anche poco affidabili.
E di pace hanno veramente desiderio i migliori fascisti, anche nel capoluogo. La giornata del 28 ottobre passerà sostanzialmente tranquilla in città. Un Comitato Segreto d’Azione, formato da Gioda, Annibale Monferrino e Luigi Voltolina (padre di Carla, futura staffetta partigiana e moglie di Pertini), coordina la mobilitazione delle squadre, il cui comando, con pieni poteri, è affidato a Brandimarte.
Il 29 vengono “visitate” le sedi dei maggiori giornali, e il 30 tocca alla Camera del Lavoro, che viene incendiata, con esclusione dei locali del laboratorio medico e delle associazioni assistenziali.
In prima fila, molti dei protagonisti dell’azione del 25 aprile dell’anno prima, che intendono completare l’opera:
S’è visto il Comandante delle squadre, solo, in piedi, sprezzando il nemico e le bombe, in mezzo al viale, a dar l’esempio di ogni temerarietà, mentre cercava di individuare il punto debole della fortezza
…
La trincea nemica è ancora una volta conquistata dopo un rapido e duro combattimento all’interno.
In questa azione perigliosa e veloce, tra i più arditi squadristi si distinguono il Comandante della “Battisti”, Capitano Bigliocca, Giuliani e Revel… Sempre al fianco di Brandimarte, ne imitano l’esempio in ogni istante. (6)
Dello stabile poi “prendono possesso” i fascisti, che si ritengono autorizzati a ciò dalla mutata realtà, che li vede – così sostengono – espressione maggioritaria delle masse lavoratrici.
È una situazione comune ormai a molte città d’Italia. A Firenze, per esempio, qualche mese prima, dopo lo sciopero legalitario, Edmondo Rossoni e Persindo Giacomelli fornendo una giustificazione politica, chiederanno alle Autorità di legalizzare l’avvenuto impossessamento fascista della ex sede sovversiva: “tenendo conto che la maggioranza degli aderenti alla Camera del Lavoro cittadina ha sconfessato l’opera vile e nefasta dei suoi dirigenti”.
Devecchi, nelle giornate immediatamente successive alla Marcia, fedele alla sua ferma convinzione monarchica, organizza, l’11 novembre, in coincidenza con il compleanno del Re, il concentramento in città di oltre 20.000 camicie nere:
È l’occasione perfetta per il quadrumviro torinese per mostrare la forza numerica delle sue squadre, e al tempo stesso la sua indiscussa fedeltà monarchica.
I fascisti marciano attraverso una città in festa, dalle finestre sventolano bandiere tricolori e si affacciano cittadini plaudenti ed entusiasti. I principali destinatari del messaggio sono gli antifascisti, ma anche una parte dei fascisti torinesi e il neo primo ministro Mussolini.
Tutto è stato pensato per impressionare e suscitare meraviglia negli spettatori.
“Meravigliosa” è proprio l’aggettivo che usa il quadrumviro per definire la parata, quando, al termine di questa, e di fronte alla sede del Fascio, improvvisa un breve comizio in cui ringrazia le sue camicie nere e Vittorio Emanuele III per aver salvato il Paese dal pericolo di una guerra civile. (7)
Quando quindi tutto sembra andare per il verso giusto, come un ciclone si abbattono sul fascio di Torino e sui suoi uomini più rappresentativi, i tragici avvenimenti del 18 e 19 dicembre.
Farne la storia esulerebbe dai limiti di questa ricostruzione, perciò in sintesi, dirò che, a seguito dell’uccisione di due fascisti e del ferimento di un terzo, si scatena la rappresaglia, in modi e forme mai viste, favorita dall’incapacità di Questore e Prefetto (che verranno, infatti, subito destituiti) e dallo stato di anarchia in cui si muove il locale Fascio (che, infatti sarà subito dopo sciolto d’autorità).
Alla fine, si contano 11 morti (infondata la voce che parla di una ventina di vittime) e molti feriti. Tra i Caduti anche un simpatizzante fascista, a riprova di una confusione generale, nella quale vendette personali e delazioni fanno la loro parte, in giornate nelle quali un ruolo ha anche – come fu a suo tempo sostenuto – il desiderio di neofiti fascisti, che nulla avevano a che vedere con i componenti delle vecchie squadre, di dimostrare la propria fede e determinazione.
Pressochè unanime la condanna dei mussoliniani, e, per dirne una, Gioda e Rocca inviano ostentatamente fiori al funerale di una delle prime vittime, il ferroviere sindacalista Carlo Ferrero, loro vecchio amico e compagno di lotta.
Nei fatti, vale la testimonianza di Angelo Pastore, redattore dell’“Ordine Nuovo” gramsciano, che con Andrea Viglongo viene sequestrato quando le camicie nere irrompono nel giornale e portato alla sede del Fascio, in corso Cairoli, tra ripetute minacce di morte. Qui, però, le cose si presentano subito in maniera diversa dal temuto:
Giungemmo nel covo delle camicie nere. Una tramezza divideva la stanza in cui eravamo, dall’altra dei fascisti. Si sentiva il vocione di Brandimarte. Gridava che ci voleva tutti morti. Secondo me c’era un conflitto. Brandi marte voleva ucciderci. Scarampi e Revel no. Scarampi ci disse: “Dobbiamo dare una soddisfazione a Brandimarte. Non spaventatevi, non vi faremo niente. sarà una messinscena. Fingeremo di fucilarvi”.
…Venne Brandimarte e ci fece portare fuori. Fummo allineati davanti alla sede del Fascio.
…Arrivò uno con un ordine e, di mala voglia, ci dissero di andarcene. (8)
Gioda, in un’intervista al corrispondente del Giornale d’Italia, sarà categorico: “Ho sofferto come giammai ebbi a soffrire. Non posso dimenticare di essere torinese…e di essermi sempre adoperato perché il tragico conflitto fosse scongiurato. L’assassinio di Dresda e di Bazzani ( i due fascisti il cui assassinio era stato all’origine dei fatti ndr) è stato feroce. La reazione fascista è stata tremenda e terribile. Lo stile fascista della violenza e della reazione è stato violato.”
Anche per questo, nessuno penserà nemmeno lontanamente ad un coinvolgimento del vecchio anarco-sindacalista nella rappresaglia, mentre Devecchi (che comunque era a Roma in quei giorni) ne vedrà compromessa la sua futura carriera politica. A Brandimarte sarà addebitata la sostanziale incapacità di controllare i suoi uomini, aldilà delle pose rodomontiche assunte, quando, per esempio, parlerà di un elenco di 3.000 antifascisti “da punire”.
Solo le ripetute dimostrazioni di buona volontà e fattiva operosità offerte di mussoliniani nei mesi a venire saneranno questa ferita che rischiava di compromettere il buon rapporto tra la città e i fascisti, visti da molti come coloro che l’hanno liberata dalla opprimente e violenta cappa soviettista del biennio 1919-20
FOTO NR 5: De Vecchi con i due tamburini uccisi a Casale
FOTO NR 6: la squadra “Maramotti”
NOTE
- Guerrando Bianchi di Vigny, Storia del fascismo torinese, Torino 1939, pag. 237
- “Popolo d’Italia” del 18 maggio 1921
- Renzo De Felice, Mussolini il fascista, vol. I, la conquista del potere, Torino 1966, pag. 266
- Cesare Bermani, La battaglia di Novara, Roma 2009, pag. 94
- Ibidem, pag. 229
- Guerrando Bianchi di Vigny, cit., pag. 337
- Nicola Adduci, Barbara Berruti, Bruno Maida, La nascita del fascismo a Torino, Torino 2020, pag. 114
- Giancarlo Carcano, Strage a Torino, Milano 1973, pag. 90