Appendice
Aniceto del Massa
TOMMASO CAMPANELLA
Non siamo noi i primi a rivendicare Tommaso Campanella allo spiritualismo; già da tempo Antonio Bruers, che è un appassionato studioso del filosofo calabrese in una sua operetta dal titolo “Tommaso Campanella Spiritualista” tracciava in linee essenziali del nostro la figura eminentemente spiritualista, inteso lo spiritualismo come oggi lo intendiamo e che il Bruers stesso ha felicemente sintetizzato in un suo recente studio, e cioè quella dottrina integrale che supera le concezioni particolaristiche s semplicistiche del positivismo e idealismo per cercare la verità non nei fatti o nei concetti, nell’immanenza o nella trascendenza, ma nella sintesi prodotta dai vari elementi costitutivi di entrambe, e ammettendo l’una non esclude a priori l’altra. Ora il Bruers ha portato un nuovo e importantissimo contributo agli studi Campanelliani, curando il testo inedito del “Del senso delle Cose e della Magia” recentemente dato alle stampe, nella consueta austera veste, dalla Casa Laterza di Bari. Il testo dell’opera Campanelliana giaceva sepolto nelle biblioteche, e il lavoro compiuto dal Bruers è degno del massimo elogio; si ha così una edizione accuratissima, confrontata con i codici più noti di un’opera capitale della Filosofia Italiana; il lettore, nella dotta prefazione premessa all’edizione, troverà narrate le varie vicende dei due manoscritti, quello latino e quello italiano, e le descrizioni dei vari codici conosciuti di quest’opera, certo fra le più importanti del Campanella.
Dal nostre punto di vista iniziatico quest’opera ha un valore sommo; per molti lati la dottrina in essa racchiusa ha particolari contatti con gli studi iniziatici e ognuno potrà notare da se molto facilmente certe somiglianze; del resto la conoscenza che il Campanella mostra di avere della magia e dell’alchimia basterebbe a farlo, per i cultori dei nostri studi, un autore indispensabile; e massimamente riguardo al metodo, sul quale oltre diremo. Dal punto di vista filosofico, quest’opera che può avere difetti di metodo e che si distingue proprio per non presentare un sistema chiuso e rigidamente quadrato, offre invece tale una quantità di sintesi di pensiero da far presentire oltre Cartesio e Kant, tutto il movimento moderno, Campanella è essenzialmente un metafisico e come tale, anche in questo “Del Senso delle Cose e della Magia” non consente limiti al suo pensiero; è poeta e filosofo, sempre, naturalmente: ha dell’uno la visione chiara e l’immagine nitida e il colorito succoso dell’espressione; anche se talvolta il suo stile risente di frettolosità e rozzezza tuttavia son momenti che si disperdono nel gran respiro della sua prosa; dell’altro ha la passione del vero e l’indagine acuta e logica e il temperamento critico, Il suo sensismo naturalistico, che degenererà poi nel panteismo trascendentale dello Schelling, è essenzialmente pitagorico, quantunque oscurato da errori gravi, tuttavia possibili se si pensa alla vita del disgraziato frate di Stilo, trascorsa in massima parte in prigione, e perseguitato continuamente dalla Santa Inquisizione.
Lo spiritualismo di Campanella è di pura origine Pitagorica. Quali correnti del suo pensiero, quali precisi riferimenti ci inducono in tale affermazione? Si è già, in questa rivista, avuto occasione di soffermarsi su punti essenziali del metodo, più che della dottrina, pitagorico, Quando si dice dottrina, per l’uso ormai inveterato di questa parola, si pensa a un gruppo compatto di idee, a una serie di leggi de- terminate e fisse, a un sistema chiuso, inquadrato, di rigidi concetti; si pensa insomma, alla sua significazione letterale che non è la più giusta. Per varie ragioni preferiamo adottare la parola metodo, che meglio riassume l’insegnamento dei Pitagorici. É del metodo dei pitagorici il Campanella ha il procedere nell’investigare i fenomeni naturali e dello spirito; e del metodo pitagorico egli dimostra di posseder la chiave, quando, specialmente contro Aristotile, non si contenta delle leggi accessorie di materia e forma (dando a questi due concetti valore di essenza, come pure delle relazioni fra soggetto-oggetto) ma ricerca in ogni ente il motore essenziale e dando senso a tutto conferma quella infinità di gradi — o infinità di mondi — manifestazione potenziale dell’oro. E’ evidente la relazione con la filosofia Bruniana; le intemperanze stesse del suo modo di procedere, sono chiaro prodotto della sua libertà, che illuminata, non può soggiacere a imposizioni retoriche o dialettiche. Non si tratta di problemi storici, o morali, o letterari; si tratta della verità e del metodo, della propedeutica mediante la quale pervenirvi.
In Campanella si assommano le esperienze di varie dottrine; egli dimostra una certa dimestichezza con Aristotile e Platone; i santi padri e qualche teologo non gli erano senza dubbie sconosciuti; la sua cultura era certo considerevole, e ciò non fa tanta meraviglia per il solo fatto che tutta la sua vita trascorse in guai, quanto per la libertà vigile e costante del suo pensiero, naturalmente disposto alle intuizioni del vero mai schiavo dei sistemi anzi di essi indagatore accorto e critico spesso acuto e sottile. La conoscenza non si riduce in formale né si contiene in sistemi; Tommaso Campanella è conscio di questa verità e i filosofi e i loro sistemi non lo turbano; i teologi così troveranno nella sua opera numerose proposizioni ereticali (in un primo processo gliene imputarono, salvo errore 83; ma ce n’è a dovizia per chi si diverte a tali indagini); i filosofi gli rimprovereranno in ogni epoca, la mancanza del sistema, le superficiali contraddizioni, la confusione, e la non filosofia della sua filosofia; anche oggi idealisti e protestanti lo considerano un superficiale confusionario.
Ma è proprio questa non-filosofia che fa la sua grandezza e lo pone precisamente nel novero dei grandi assertori della scienza dello spirito, della metafisica pura che nella tradizione italica si son succeduti senza interruzioni, se non brevissime. Potente creatore, egli riassume tutti i caratteri del suo tempo; tempra vigorosa di filosofo, violenza sdegnosa del veggente, intuito poetico, acutezza di filosofo, ardore mistico, e ardire di novatore, sono le manifestazioni della sua vitalità. L’epoca non lo corrompe, né lo domina: se soggiace, non tace e dei suoi nemici e persecutori egli si appresta ad esser lo scudo più saldo, il difensore meglio fornito di argomenti. La controriforma lo avrà, contro Lutero, fra i suoi militi migliori. Ma se non caro ai protestanti, ai cattolici ispirerà diffidenza perché genio e perché davvero cattolico; i teologi così lo perseguiteranno come da vivo e invano i filosofi si affanneranno per inquadrarlo nei loro sistemi: in Campanella troveranno sempre un prepotente creatore che sfugge dai loro ranghi, dai loro ordini. Perciò, noi spiritualisti, ci sentiamo suoi diretti discepoli.
T. CAMPANELLA: Del Senso delle Cose e della Magia, A cura di A. Bruers – Bari, Laterza, 1925, Ignis 1925 N.11-12
Epilogo
VIAGGIO INIZIATICO NELLA “CITTA’ DEL SOLE”
“E’ ‘l bel morir, che fa gl’huomini Dei,
ove solo il valor saggio, e virile
della sua gloria spiega i gran trophei.
Qui dolce libertà l’alma gentile
ritrova, e prova il ver, che senza lei
sarebbe anchor il paradiso vile”.
Sonetto di T.Campanella
E’ opinione comune tra gli studiosi e i lettori della “Città del Sole” che il celebre saggio di Tommaso Campanella altro non sia che la metafora dotta di una ideale e utopistica repubblica platonica, costruita dal filosofo calabrese sulla base delle sue intuizioni monarco-universalistiche finalizzate al rovesciamento del dominio spagnolo in Italia. Volendo intendere in modo corretto l’aforisma filosofico secondo cui “non è capace di governare un impero chi non sa governare se stesso” e che “vero fine di ogni repubblica è il culto divino del sommo bene” crediamo che la Città del Sole sia destinata a qualcosa di più dell’erudita allegoria di una forma di governo. Secondo noi quest’opera è anche la rappresentazione simbolica dell’uomo e delle sue aspirazioni alla liberazione e all’immortalità, in poche parole è la descrizione di un viaggio iniziatico compiuto dall’uomo stesso “che il bel morire” eleverà a dio.
Nel sonetto del filosofo di Stilo su indicato si occulta, a nostro avviso, la chiave di questo viaggio iniziatico, ma è soprattutto nella “Prattica dell’estasi filosofica”, attribuita al Campanella, che si sviluppa, a volte in modo chiaro, a volte in forma volutamente oscura, la disciplina che permetterà al predestinato di varcare le misteriose porte che lo condurranno alla suprema gioia dell’anima. L’ipotesi però che la “Città del Sole” possa celare nella sua architettura urbana il percorso iniziatico dell’uomo, non esclude affatto l’opinione dei più e cioè che il saggio sia nato dall’idea politica di una repubblica teocratica e solare: anzi, da un diverso punto di vista, questa opinione potrebbe uscirne rafforzata, visto che nessuna repubblica platonica potrebbe realizzarsi senza una preliminare e indispensabile elevazione spirituale dell’uomo, alla cui esecuzione la “Prattica” sembra opportunamente destinata. Come per la “Divina Commedia” di Dante di cui non si poteva supporre che cosa in essa si nascondesse fino a quando Luigi Valli non ne rivelò il linguaggio segreto, così nella Città del Sole non si può intravedere la palingenesi dell’uomo e il destino all’immortalità, senza prima averne ammesso il carattere esoterico e simbolico e senza soprattutto averne analizzato il linguaggio e ricercato le chiavi di lettura.
L’indizio più interessante a quel che diciamo e che ci ha indotti a fare delle ipotesi così audaci lo abbiamo trovato nel commento di Arturo Reghini alla “Prattica dell’estasi filosofica”. Il filosofo pitagorico trascrisse la “Prattica” nel libro “Le Parole Sacre e di Passo”, 1922 al quale rimandiamo per una sua scrupolosa lettura. Reghini la presentava così:
“La tecnica dell’estasi filosofica si trova esposta più o meno copertamente in vari testi; essa costituisce del resto un arcano, è ineffabile per necessità di cose. Nella letteratura filosofica italiana si trova una magnifica pagina, da alcuni attribuita al Campanella, da altri al Bruno, e che è degna dell’uno e dell’altro; il documento porta il titolo “La prattica (sic) dell’Estasi Filosofica”. Si sente in essa la sicurezza di chi parla per esperienza propria; la pratica della contemplazione, i suoi effetti, tutto è delineato con limpidità e precisione meravigliosa. E’ una pagina insuperata della letteratura tecnica iniziatica, e la tradizione esoterica occidentale per opera di questo neo-pitagorico dell’Italia meridionale getta vividi bagliori di luce, sfidando eroicamente l’ignoranza e la ferocia cristiana. Sopra l’esperienza dell’estasi filosofica si basa, secondo noi, il dramma mistico della morte e resurrezione dei misteri. Nel Vedanta la condizione della coscienza durante l’estasi è chiamata sandhia (derivato da sandhi, punto di contatto o di unione tra due cose) cioè intermezzo tra il sonno profondo (sushupti) e la morte”.
Il riferimento fatto da Reghini alla tradizione vedica è estremamente importante e non è casuale; rivela una stretta parentela tra la tecnica pitagorica dell’estasi e quella yogica la cui ragione di fondo possiamo individuare nel fatto che la “Città del Sole”, nel saggio di Campanella, sia stata fondata da emigranti indiani. Scrive infatti il filosofo calabrese: “Questa è una gente ch’arrivò là dall’India, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di Mogori…”. Conviene qui ricordare l’ordinamento della città che obbedisce a un intento filosofico con lo scopo evidente, attraverso l’uso della numerologia sacra, di stabilire un patto spirituale tra l’uomo e le potenze celesti. Il numero due del diametro della città insieme al sette del circolo ed ai sette gironi che portano il nome dei sette pianeti non sono certamente lì per caso. Si entra nella città da quattro porte e si percorrono quattro strade. Anche la descrizione degli edifici, delle strade, delle piazze, delle colonne e dei chiostri non è priva di un riferimento numerico o astrologico. Non v’è alcun dubbio che ci troviamo in presenza di un’architettura sacra che ricorda i misteri delle cattedrali e dei magistri comacini discendenti dalle corporazioni romane.
Non mi dilungo nel descrivere il vertice della gerarchia politica e sacerdotale unificata nella persona di un principe sacerdote indicato col simbolo del sole coadiuvato da tre potenze dette sapienza, potenza e amore. Qualche critico nel paragonare l’ideologia politica di Dante a quella di Campanella ha detto che il primo anticipa l’era moderna mentre il secondo ritorna al mondo antico. A nostro avviso è una critica fuorviante perché sappiamo che sia in Dante come in Campanella l’idea centrale è quella dell’unità politica e poiché entrambi non ignoravano l’avversione della Chiesa verso quest’aspirazione è facile concludere che i due miravano all’Impero per rendere più facile l’ascesa a Dio dell’umanità travagliata. Questo accenno alla sacralità della città del sole e al suo simbolismo numerico ha il solo scopo di rammentare la perfetta sincronizzazione del testo del frate calabrese con la tradizione occulta e pitagorica e ci permette adesso un raffronto più dettagliato tra le due “vie”: quella estatica e quella vedica. Il punto centrale della “Prattica” è rappresentato certamente dal “distacco” dell’anima dal corpo che naturalmente, se si fa attenzione, si dà per certo, poiché quando leggiamo la frase l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo, non possiamo non costatare che il ritorno nel corpo avviene dopo una separazione mentre il corpo continua regolarmente a vivere. La rassomiglianza con i due ultimi “Versi d’Oro” di Pitagora che recitano testualmente: “Così, se, il corpo lasciando, nell’etere libero andrai /spirituo nume immortale, non più vulnerabil, sarai” è palese.
E poiché sappiamo che lo scopo primario del discepolo pitagorico era quello di ottenere, con il giusto operare, la liberazione dai vincoli del corpo, e non già l’attesa passiva ed inerte della morte, chiaramente i versi alludono a quell’abbandono del corpo che si ottiene col “distacco volontario rituale” e non a quel distacco che la morte reca a tutti gli uomini ed a tutti gli animali. Come è evidente si tratta di cosa assolutamente essenziale per la retta comprensione del pitagorismo e di conseguenza della pratica dell’estasi, ed anche perché risulti più chiaro che non è per un semplice caso, in relazione ad argomento di questa importanza, che l’ultimo verso contenga tre parole che significano tutte e tre immortale. Gabriel Naudé, amico e contemporaneo di Campanella che aveva definito il filosofo la “fenice degli ingegni”, nell’ “Apologie pour lesgrandshommessoupçonnez de magie” scrive: “La mélancholiepeutretenirlongtempsl’ame en une profonde méditation, et alorslesesprits (notasi l’identità di parole con l’Estasi) se retiransoùl’ame se reserre en son centre, por lui ferrequalque service, lesautresdemeurentdestituées de leurchaleur influente et semblent n’avoir plus aucuneétincelle de vie; c’est là proprement ce que l’on appelleExtase”. Campanella si attiene quindi fedelmente alla tradizione misterica più antica. La “prattica” dell’estasi non fornisce al praticante una descrizione dettagliata della fisiologia occulta dell’uomo, ma si limita, per giungere a questo importante “distacco”, a suggerire un “metodo”, metodo che possiamo per comodità suddividere e riassumere in tre parti e che comunque è sufficiente a raggiungere lo scopo:
1. preparazione del corpo.
2. esercizio sul pensiero.
3. esercizio sull’intelletto.
Nella “Prattica” inoltre non si fa alcun cenno a esercizi respiratori, ma sappiamo da Reghini e da altri discepoli della Scuola Italica che alcuni di questi esercizi rivestivano una certa importanza nei rituali da essi seguiti. Sui risultati le informazioni sono piuttosto scarse, ma si allude abbastanza spesso a particolari stati di coscienza raggiunti o da raggiungere. Crediamo perciò che non sia inutile dare un’occhiata agli insegnamenti più ortodossi della tradizione vedica e vedere cosa si dice a questo proposito, visto che è stata dimostrata la vicinanza ideologica tra tradizione pitagorica e tradizione vedantina, e sarebbe opportuno mettere a confronto le esperienze descritte nello yoga indiano con quelle della scuola italica onde apprezzare ancora meglio il metodo pitagorico da noi preso in esame:
“Nell’hatha yoga, il motore principale della trasformazione… della mente ordinaria (manas) in una condizione al di là della mente – è di natura pneumatica. – scrive D. G. White ne “Il corpo alchemico” pag.56 – E’ il vento, l’elemento dinamico dell’antica triade vedica, che assumendo la forma del respiro controllato svolge un cruciale ruolo trasmutativo nel sistema hathayogico. Ma, cosa ancor più importante, quando, attraverso il controllo del respiro (pranayama), viene aperta la base del canale centrale, quello stesso respiro causa l’inversione delle polarità ordinarie.”.
La relazione pertanto tra respiro e testa (cranio) è esplicita, come non si può escludere il fatto che l’inversione del tempo debba essere messa in relazione con il controllo e l’arresto del flusso del pensiero; quest’informazione del White aiuta perciò a comprendere meglio i misteriosi accenni di Campanella al “cranio” e agli “spiriti” che possono esalare dalla testa. Le notizie “alchimiche” del White sono ancor più particolareggiate e contribuiscono in maniera eccellente a comprendere la ragione per cui Reghini parlasse di un “arcano” quando commentava la “Prattica”. Esiste un monumento in pietra scolpito in memoria di Tommaso Campanella che lo raffigura nel suo abito di frate, seduto con il piede sinistro appoggiato su due libri e il mento appoggiato sulla mano sinistra, in una posizione cioè che ricorda la descrizione esistente nella “Prattica”. Sarà un caso? …
Ma c’è di più. Leggiamo in altri brani del libro di White che la famosa Città della Luna potrebbe benissimo essere una Città del Sole poiché nella tradizione vedantina l’inversione tra Luna e Sole non è impossibile e non offende la sensibilità e l’intelligenza dell’operatore come certamente potrebbe accadere in altri luoghi lontano dall’India magica e alchemica. (Alcuni siddha chiamano sole e luna i due canali laterali del corpo sottile). Nella fisiologia yogica dell’uomo il Sole, localizzato in basso e la Luna, posizionata nella testa, forniscono materia di contemplazione e di studio sulla cui importanza anche l’occultismo occidentale si è sempre soffermato. A questo riguardo White scrive che da una parte troviamo insieme la luna e il mercurio e dall’altra il sole e lo zolfo; ne consegue allora che nella Città del Sole dobbiamo riconoscere lo stato successivo a quello della Luna raggiunto nella sommità del cranio in virtù di un “modello yogico che descrive la separazione yogica dalla coscienza ordinaria ed il ritorno in essa nei termini di un’interazione tra il sole, localizzato nel basso ventre, e la luna collocata nella volta cranica del corpo sottile”. E’ impossibile non vedere in questi brani somiglianze, analogie, affinità per non dire altro con i punti più “arcani” della “Prattica” sui quali, anche con l’ausilio degli esercizi dell’alchimia indiana, è possibile gettare un fascio di luce chiarificatrice.
I fuggiaschi indiani, una volta fondata la nuova città, decidono di vivere in comune; il paradosso di un popolo che mette tutto in comune, (è un paradosso, perché lo stesso filosofo si incarica di precisare che nel loro paese di origine non si pratica questo costume) uomini, donne, beni, se anche ha un illustre precedente nell’utopia platonica, invece di considerarlo un’utopia, o come ha detto qualcuno una forma di socialismo aristocratico, lo vedremmo più volentieri come la metafora di quest’opera in cui il dualismo filosofico dell’essere e le sue conseguenti antinomie umane e sociali non possono che essere raffigurate e quindi risolte in un corpo sociale che le trasmuti e le trascenda tutte, dopo averle subite e sofferte. Il miglior modo di rappresentarle è quello usato da Campanella: il molteplice nel tutto, il tutto nell’UNO: una visione che ci riporta a Plotino, il grande pitagorico del III° secolo d. C … Quando Campanella affronta il problema della generazione la metafora si fa più profonda e meno esplicita e perciò più esoterica. La purezza della razza non è il risultato di una semplice norma eugenetica e di ingegneria genetica, norme alle quali gli abitanti della repubblica dovrebbero attenersi, quanto il risultato di una distillazione operatasi nell’atanor di una società fortemente gerarchizzata che nell’impedire ai deboli, agli impuri e agli inetti di andare avanti e di moltiplicarsi, non può che aspirare a una città solare liberata della cadente e degenerata condizione umana, condizione generalmente considerata come transitoria verso uno stato numinoso. Ritroviamo perciò ancora una volta il proposito finale della palingenesi pitagorica.
In Occidente, una visione come questa, avendo subito incontrato l’ostracismo di quasi tutte le istituzioni civili e religiose (risultate vincenti dopo la disgregazione della civiltà greco-romana) rimase appannaggio di ristretti circoli di iniziati, mentre in India, nella società quadripartita delle caste, andò ad alimentare gli studi e le tradizioni magico-alchemiche miranti alla perfezione del corpo e alla sua immortalità, che coesistevano armoniosamente e molto spesso collaboravano con una via interiore di separazione e integrazione della coscienza individuale nella coscienza cosmica. Il breve ma significativo accenno di Campanella ad una rigenerazione del corpo fisico quando afferma che i solari “hanno pur un secreto di rinovar la vita ogni sette anni, senz’ afflizione, con bell’arte” è molto importante. Quest’affermazione non può essere spiegata come un invito ad una semplice dieta alimentare e rivolta alla sola salute del corpo perché il riferimento al possesso di un secreto è netto ed è legato all’esercizio di un’arte, parole tutte che troviamo usate nel linguaggio degli alchimisti e degli ermetisti. Tanto per essere un pochino più chiari: è la conferma che Campanella intendeva fare della Città del Sole un modello per esseri che dovevano passare per la prima morte e che attraverso l’esercizio di un’arte si sarebbero avviati all’immortalità dello spirito in congiunto forse anche a quella del corpo. Quest’ultima possibilità dagli alchimisti indiani viene data non solo come possibile, ma per certa.
E’ rivelatore a questo proposito il fatto che nel parlare di arte militare e guerriera i solari, dice Campanella,
“non temono la morte, perché tutti credono l’immortalità dell’anima, e che, morendo, s’accompagnino con li spiriti buoni o rei, secondo i meriti. Benché essi siano stati bragmani pitagorici, non credono trasmigrazione d’anima, se non per qualche giudizio di Dio”.
Per la verità la Città del Sole è un imponente edificio politico e sociale dotato di inconsueti strumenti di governo e di una morale che non ha nulla in comune con la “moralina” cristiana; gli scarsi accenni che Campanella concede alla tradizione cristiana crediamo siano dovuti più che altro alla necessità da parte sua di salvaguardare il suo scritto dai numerosi nemici che dentro e fuori la Chiesa tramavano ai suoi danni e sognavano la sua rovina. Non riuscì ad evitare i processi e la dura prigione, ma per sfuggire alla morte il filosofo di Stilo si servì di alcuni stratagemmi: quello della pazzia che finse di fronte ai torturatori della Santa Inquisizione per evitare la morte fisica e quello dell’allegoria con cui rivestì alcuni suoi scritti importanti, tra cui la Città del Sole, per far conoscere la sua dottrina a chi aveva orecchie per intendere e occhi per vedere. Pignatelli purtroppo non fu in grado di usare lo stesso stratagemma ed andò incontro eroicamente alla morte. Un’ultima riflessione, prima di terminare, va fatta sul simbolismo numerico della Città del Sole che meriterebbe un trattato a parte. Infatti, tra l’influenza astrologica e il movimento dei sette pianeti in relazione ai sette gironi di cui è composta la città che portano i nomi dei pianeti stessi ed i sette centri vitali dell’uomo esiste una strettissima relazione. Un indizio in più per affermare che al centro dell’urbe solare si erge la possente figura dell’uomo sulla via della divinizzazione.
Roberto Sestito