La storia quando si ripete trasforma se stessa da tragedia in farsa. Così suggeriva il filosofo Hegel e non era certo la sua la tipica forma di vanità da sciocco intellettuale, capace solo ad aprire bocca per darsi tono in qualche salotto della Berlino inizio XIX secolo. Questo lo poteva pensare Arthur Schopenhauer che ne era invidioso. E Marx ed Engels furono costretti a ricredersi sovente dopo averlo insultato con l’epiteto di ‘cane morto’. Evocando il termine tragedia egli intendeva il moto dialettico, tramite l’apparente conflitto dei contrari (la Tesi e l’Antitesi), dello Spirito per ritrovarsi in sé arricchito dall’esperienza prodottasi. Pan-tragismo per alcuni; pan-logismo per altri nel definire la sua filosofia. In pratica sono sinonimi. Per questo, pensava con crudo realismo, la guerra si necessitava per evitare la stagnazione del mare dell’Essere.
(Di recente mi si è fatto notare – con legittima civetteria erudita – come fosse stato Engels in una lettera indirizzata a Karl Marx, a proposito del colpo di stato in Francia nella notte del 2 dicembre 1851 in cui Luigi Bonaparte si era proclamato imperatore con il nome di Napoleone III, a scrivere: ‘Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa’. A riprova di quanto sopra. E rifiuto certi imbecilli che si danno ad affermare come sia la pace a generare le mutazioni).
Nessuna intenzione di proporre una lezioncina, un ‘bignamino’, dare anch’io fiato alla vanità dell’erudito, dell’intellettuale, del professore inaciditosi tra le panchine di Largo Pannonia e il Centro Anziani di via Iberia (che, in effetti, non frequento). Solo la necessità di un’inizio – ‘sempre una divinità’, secondo il vecchio Platone –. Anche perché lo spazio del contendere, l’arena è priva di sabbia sporca di sangue e il toro e la spada non s’intrecciano per la gioia del pubblico, è di modesto valore…
‘Ognuno ha tanta storia’, intitolava un suo romanzo Carlo Mazzantini. Già Nietzsche riconosceva come in ogni suo scritto vi fosse qualcosa di sé. A ben guardare c’è della banalità in queste affermazioni e, al contempo, una assunzione di responsabilità che rende loro il merito. Noi siamo nel tempo e nello spazio e, proprio perché lo siamo, ci raccontiamo – sinceri e menzogneri al contempo. Ogni parola, ogni gesto, il solo batter di ciglia – quanta vita nel linguaggio del corpo! –, un pensiero fugace o il suo permanere riempiono pagine di poemi mai scritti, di tacite narrazioni. Lo scorrere – ‘ogni pensiero vola!’ sulla pietra là a Bomarzo, nella Villa dei mostri – troppo lesto e distratto. Sono io che esisto o l’esistere è altro da me?
Ricado nel vizio d’aver sprecato lunghi anni a leggere di ‘pensatori’ e aver insegnato di ‘filosofia’. Attendiamo di nascere per durate immense di tempo, poi arriva l’alba ed è subito tramonto, premessa di ulteriori vastità sconosciute… E ci chiediamo se il nostro agire è atto libero e spontaneo o frutto di meccanismi esterni. ‘Il fiore rispose – Stolto! Tu credi che io fiorisca per essere visto? Io fiorisco per me e non per gli altri, fiorisco perché questo mi piace: nel fatto che fiorisco e sono, consiste appunto la mia gioia e la mia voluttà’ (Arthur Schopenhauer). Circa un secolo dopo Heidegger riporterà una considerazione del mistico tedesco del XVII secolo Angelus Silesius che preannunciava quanto sopra (‘La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce,/ Di sé non si cura, né desidera d’esser vista’). Soggetto e oggetto – impermeabilità.
Divago mi attardo cerco sentieri sfuggo la percorrenza diretta – simile, la mia vanità consente questo ed altro accostamento, al Petrarca alle pendici del monte Ventoso. La tragedia e la farsa, l’inizio – ed ora?
Una comunità è tale nel mentre i suoi componenti stanno bene insieme si cercano si ritrovano condividono momenti privati, di gioia di disagio – sono, al contempo, amici e camerati –, non soltanto nelle riunioni nelle attività nel dibattito tra strategie, idee e programmi, e tattiche adeguate alla realtà alle spinte del cambiamento. Certo qui sta l’origine, il fondamento, il richiamo della foresta… Eppure l’istinto d’appartenere corpo e mente sentimenti e pensieri è il collante, la forza che ti sostiene ti protegge ti guida. Si dice che siano i topi, vili e reietti, i primi ad abbandonare la nave mentre capitano e nostromo rimangono a bordo, al timone e sulla tolda. Ma se a guida della nave v’è ciurma da bassifondi?
Ricordo la giovinezza militante inquieta irrequieta. Bastoni e barricate. Ricordo risse manifesti dibattiti discussioni i pochi libri i tanti sogni. Spalla a spalla, che facciamo? a me non va di scappare, io carico… E le risate, sempre e comunque, magari mentre alla fontanella ci si lava a turno dei graffi di schizzi di sangue del livido bluastro che si espande. Ricordo anche la bettola di via del Governo Vecchio, con ‘na carbonara due uova al tegamino e mezzo litro, parole parole di cuore di occhi che si specchiano nel comune sentire, ‘camerata Richard benvenuto…’, le panchine al Colle Oppio, dove mi si confortava per la morte di E. – Saverio e Roberto e i fratelli Pisano e Bepi – poi una mattina, davanti alla facoltà di Lettere, Stefano spiccio e sbrigativo mi affronta e ‘noi si vuol fare la rivoluzione. Ci stai? Il resto non conta…’. Potevo respingere simile terapia?
Il senso tragico dell’esistenza, personale e collettiva, hegeliana. E venne la mattina del 1 marzo 1968, irriverente gioiosa spavalda, a Valle Giulia e venne, maledetta, la mattina del 16 marzo nella facoltà di Giurisprudenza, sogno infranto. E ancor prima pomeriggio di fine aprile, cerimonia funebre per lo studente Paolo Rossi, e noi soli e felici sulle scalette della Casermetta – una ventina, forse meno, con davanti orde di ‘compagni’ avidi del nostro sangue… Poi sbarre e chiavistelli mentre la Runa, unica, si ergeva nei viali della Sapienza fra i vicoli di Reggio, popolo in armi, nella notte di dicembre con la speranza vana e la guida del Comandante Borghese. E nel cuore e nella mente, nonostante le distanze i difformi percorsi le possibili incertezze, il senso d’appartenere ad una storia, valore questo che va ben oltre e trascende uomini fatti e idee.
La tragedia – ritrovarsi tentare lasciare un segno dare memoria di uno stile offrire un progetto per tutti e di tutti essere momento rispettoso e unificante preservando sul territorio realtà simboli caratteristiche nulla pretendendo se non, tramite speranza e fierezza tanto care a Robert Brasillach, l’auspicio futuro un unico fronte e il marciare con passo sicuro e meta comune.
La storia che, riproponendosi, decade in farsa (‘pidocchiosa’, aggiungeva Engels)? Scrive Nietzsche: ‘Dove c’è uno stile, là è passato un capo’. Lo sappiamo bene – dalla X Legio ai Cavalieri teutonici; dai trecento di Leonida ai granatieri di Federico II; da un mio antenato che partì giovanissimo volontario, tamburino dell’Armata d’Italia, con Napoleone in Russia e ne tornò con una gamba amputata…; gli arditi sul Piave e i legionari fiumani e gli squadristi ‘pugnal fra i denti le bombe a mano’ e i volontari, ultimi fieri disperati, ‘senza certezza e poche speranze di vittoria’. Cosa li rese grandi ai nostri occhi, chi portato agli allori chi nel dimenticatoio della storia? L’umiltà…
Per ben due volte e per più ore ho ascoltato, silenzioso e ottuso, un monologo auto-referenziale ove il confine tra la succursale di qualche aggressiva e becera tifoseria e una banda periferica di coatti con l’appartenenza ad una comunità ‘di credenti e di combattenti’ era tutto a danno di quest’ultima. Non una ideuzza non un sentimento.
Un Io onnivoro, con relativa claque, sparso con teatralità di ammiccamenti e gesti, in cui il sunto era una sorta di accalorata parodia tratta da ‘ragazzi di vita’ prestato alla politica. Poco danno, un po’ di sbruffoni ed esibizionisti fanno colore, compensano la rozzezza del sentire con una fede forte e stolida. Non confondiamo, però, colonnelli e fantaccini… (Nella tragedia abbiamo avuta la figura unica e irripetibile, in questi giorni ricorre l’anniversario della sua morte, del Comandante; nella farsa ciascuno si può mascherare e magari ottenere successo…).
Umiltà. E mantenere il passo. Mantenere lo spirito che ci ha animato che ha animato il nostro re-incontro. Aspro e difficile sentiero? Retoricamente (quella sana retorica che ti entra dentro a pugni sui denti, piscia il superfluo, preserva l’essenziale) più si cerca la vetta più arduo ed elitario è il sentiero… Coloro che ascoltano che cercano che si accostano che riconoscono la nostra storia, beh, a costoro non offrire il senso di una teppa ma il sentimento di trovare e crescere in stile e cameratismo. Allora la tragedia non si lascerà confondere e rendersi in farsa. Forse.
Un epitaffio (il mio) o una speranza (la comunità)?
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