Intento a «verticalizzare» il cammino che porta alla liberazione, Dante avverte il lettore: se fin qui sei stato attento, dice, ti sarai accorto di quanto ho «innalzato la materia» cambiando il linguaggio e i contenuti, perciò non ti stupirai se andando avanti il livello salirà ancora più in alto. “Lettor, tu vedi ben com’io innalzo / la mia matera, e però con più arte / non ti maravigliar s’io la rincalzo” (Pg IX 70-72). L’annuncio sembra voler dire che il viaggio proseguirà nell’incredibile, entrando nel buco nero dove ribollono le attività oniriche, fonti inesauribili di rivelazioni.
E’ notte fonda quando nella «valletta dei principi» il poeta sogna un’aquila dalle penne d’oro che volteggia in cielo con le ali spiegate. All’improvviso l’uccello scende in picchiata e lo rapisce per portarlo fino a una sfera di fuoco. Il calore gli apre gli occhi; è l’alba, e lui sta tremando.
Calmati, è un sogno, lo rassicura Virgilio. “Tu se’ omai al purgatorio giunto” (Pg IX 49 ss.), è comprensibile che Santa Lucia, alla quale sei devoto, abbia voluto mandarti un segno. Iniziato con il rito della purificazione, cioè con il «lavaggio» richiesto dall’Angelo nocchiero, l’attraversamento dell’Antipurgatorio termina quindi con il rito della penitenza davanti all’Angelo guardiano che gli incide sulla fronte le sette ‘P’ destinate a sparire in relazione ai suoi progressi.
L’arrampicata prosegue alternando le fatiche diurne alle pause di riposo notturno. La costellazione dei Pesci si sta allontanando dalla linea dell’orizzonte, quando all’alba del martedì Dante sogna una “femmina balba, / ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, / con le man monche, e di colore scialba” (Pg XIX 7-9). Cercando di focalizzare l’immagine scalda inconsapevolmente le membra della megera fino a trasformarla in un’ammaliante sirena dotata di una voce suadente. L’ascolta rapito. Fatalmente attratto dall’illusione prodotta da quella creatura carica di fascino erotico non viene distratto neppure dal sopraggiungere di una seconda donna “santa e presta” (v.26). Finché Virgilio smaschera l’inganno strappando la veste della maliarda sul davanti, in modo che il puzzo emesso dal suo ventre marcio scuota il dormiente, risvegliandolo.
I due continuano a salire. Giungono sull’ultima cornice ma l’intero balzo è in fiamme e non c’è modo di raggiungere il livello superiore al di fuori dell’attraversamento del fuoco. Dante è terrorizzato, la sua paura insiste per quasi cinquanta versi e Virgilio ha il suo bel daffare a convincerlo che non si tratta di un fuoco reale bensì spirituale. Se non gli crede, può mettere un lembo della veste tra le fiamme e constatare di persona. Niente da fare, il discepolo resta “fermo e duro”. Ha paura di andare avanti. Allora il Maestro escogita uno stratagemma: “Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro” (Pg XXVII 35-36). Ecco fatto, l’espediente funziona.
Dopo l’Aquila del XVIII canto e la femmina balba del XIX il mercoledì, ossia all’alba del giorno dopo, sotto la luce di Venere che brucia in cielo con l’ardore infuocato di una torcia Dante sogna la biblica Lia, sorella di Rachele, che vaga in una pianura intenta a cantare e a cogliere fiori per confezionare una ghirlanda (Pg XXVII 94-108). A detta dei commentatori si tratterebbe di un’allegoria della vita contemplativa in quanto costei fu la devota madre di otto figli, l’opposto della sorella che passava la giornata a rimirare la sua immagine riflessa nello specchio.
Ma siccome Dante non esita a dare delle Scritture una versione trasversale, cioè interculturale, quando l’economia del testo lo richiede, la questione è aperta. Vedasi ad esempio la collocazione in cima al cono purgatoriale di due fiumi anziché quattro: si tratta del Lete, presente nell’Eneide e altrove nella narrazione pagana, e dell’Eunoè, un’invenzione del poeta. Il primo dona l’oblio della memoria del peccato, mentre il secondo restituisce la coscienza “d’ogne ben fatto” (Pg XXVIII 128-129). La loro presenza conclude il processo di espiazione e di perfezionamento dell’anima prima dell’ascesa al Paradiso.
Ricollegandosi alla credenza della reincarnazione, il Lete e il Mnemosine nella tradizione orfica avevano precisamente la funzione dell’oblio e della memoria. Chi beveva l’acqua del Lete era destinato a reincarnarsi, dimenticava le vite precedenti e la sua natura divina (lo dice anche Platone in Repubblica), mentre chi beveva l’acqua del Mnemosine ricordava la propria divinità in quanto il ciclo delle rinascite era ormai terminato. Solo chi beveva entrambe le acque tornava al Principio, all’unità originaria; non per niente Dante completa il percorso di espiazione sorseggiando l’acqua dei due fiumi in tempi diversi, prima e dopo l’incontro con l’Angelo/Beatrice.
In breve il poeta sta offrendo al lettore la mappa per arrivare alla salvezza. Purificati e prega, non lasciarti distrarre dalle illusioni del mondo, gettati nel fuoco quando serve, medita e concentrati, dimentica il Male e prendi coscienza del Bene, cammina sempre verso l’Unità. Se questo non è il classico «processo d’iniziazione» suggerito dalla saggezza orientale, la più antica del continente … cos’altro può essere?
La figura del Dante pellegrino, mistico, viator che attraversa con il proprio corpo mortale i tre mondi ultraterreni è una figura tradizionale dotata di tutti gli attributi dell’«uomo antico» appartenuto alla comune cultura eurasiatica. Fin dagli albori la stella polare di quest’anima errante disposta a qualsiasi sacrificio pur di elevarsi moralmente e spiritualmente ha mostrato di possedere un (sacro) cuore di fuoco, dunque non è inattesa la scelta del poeta di conferire al Paradiso Terrestre la virtù luminosa del fuoco, una qualità destinata a consolidarsi di canto in canto.
Salendo l’Anima s’illumina, e, naturalmente, sogna. Pitagora chiamava le anime «il popolo dei sogni» spiegando che prima di scivolare nella generazione e incarnarsi (ὅταν εἰς γένεσιν πέσωσιν) esse erano vissute lungo la Via Lattea nutrendosi di latte cosmico. Per questo motivo nell’antichità chi evocava le anime dei trapassati offriva loro libagioni a base di miele mescolato a latte, il primo nutriente a comparire nell’universo.
Il distacco dall’Origine non era particolarmente traumatico in quanto i «viaggi astrali» consentivano all’essere incarnato di entrare ed uscire dalle altre dimensioni. Questa speciale concessione dipendeva dal fatto che l’uomo era (è) fatto della stessa sostanza di cui erano fatti i sogni, come ha osservato Shakespeare, e grazie al libero arbitrio poteva decidere come e quando abbandonare la luce nelle tenebre, rifocillarsi con il mercurio filosofico, giungere alla rigenerazione del Sé e liberarsi.
Cose inconcepibili da svegli diventano reali nella dimensione astrale, dov’è possibile allontanarsi dalla «realtà dominante», quella che imponendosi con la violenza vuole apparire più reale delle altre. L’attraversamento dei mondi paralleli allarga lo spazio d’incontro privilegiato tra l’uomo e quel dio oggi scomparso che nell’antichità chiunque poteva trovare ovunque.
All’atto pratico simili viaggi non sono mai stati facili. Lo stesso Dante si sente male e sviene in continuazione, manifestando lo stato di malattia sciamanica tipico delle fasi successive all’estasi. Nell’Inferno la condizione di «non-morto», cioè privo di sensi ma vivo, gli fa vedere teriantropi dappertutto; nel Purgatorio si addormenta e sogna l’inconcepibile, come il patriarca Enoch; nel Paradiso assapora finalmente la libertà che va cercando, ovvero quella sensazione di beatitudine che rimanendo con i piedi per terra non avrebbe mai trovato.
Ovviamente parlare di queste cose nel Trecento significava suicidarsi, non farlo avrebbe tuttavia mortificato la coscienza. Una sensata via di mezzo poteva essere dunque quella di lasciare sulla strada come Pollicino una sfilza di sassolini indicatori … Santi e Madonne disseminati su canovacci trapunti di simboli e di figure allegoriche capaci di rendere la vita difficile agli occhiuti inquisitori dominicani.
Possiamo immaginarli dubbiosi davanti al carro che guida la processione nel Paradiso Terrestre (Pg XXIX 108, XXX 8, XXXI 80-81). Il conducente è un grifone con la testa leonina, il becco d’aquila e le spalle alate, definito dal poeta la “fiera / ch’è sola una persona in due nature” (Bene e Male). Alcuni commentatori hanno visto nel fantasmagorico convoglio l’ombra di Gesù Cristo nella sua doppia natura, umana e divina; altri l’hanno identificato con la Chiesa, santa e corrotta.
Non mancano le affinità tra l’auriga del carro dantesco e la spaventosa quarta bestia del Libro di Daniele (7,19), che in buona sostanza è una micidiale macchina da guerra creata per distruggere l’esistente. Quest’ultima tuttavia non è un’invenzione dei trascrittori rabbinici bensì la rielaborazione di Zû, o Imdugu, in accadico Anzû, una divinità sumerica rappresentata appunto in forma di grifone con la testa leonina e un’apertura alare talmente ampia da oscurare la luce solare.
Personificazione della potenza distruttrice della tempesta Zû viene infine sconfitto da Marduk, o forse da Ninurta, così la Tavola dei Destini trafugata torna al suo posto. Nella visione danielica il Sommo Giudice apre i Tre Libri (Vita, Morte, Ricordo) e rimette le cose in ordine. Ma solo per un po’, perché il tempo delle bestie non è finito. Deve ancora arrivare il “dominio eterno che non passerà”, cioè il “regno che non sarà distrutto”, quello spirituale.
Come le ali di Zû toglievano luce alla Terra, così quelle del grifone dantesco oscurano la zona celeste occupata dalle 7 scie luminose dei 7 candelabri corrispondenti al “carro de la luce”, quello dell’Orsa Maggiore, formato da 7 stelle disposte in modo che 4 disegnino la cassa del carro e 3 il timone. Accanto alla ruota destra del convoglio trainato dal grifone fluttuano 3 danzatrici, mentre sul lato sinistro ce ne sono 4. La presenza del carro dell’Orsa nel posto sbagliato, cioè sopra l’emisfero australe anziché boreale, è la conferma che le conoscenze medioevali in materia di Storia delle Origini erano superiori alle nostre, accecate dall’ideologia e sforbiciate dalla censura.
Nel complesso il Paradiso Terrestre dantesco appare come una fedele trasposizione della felice Età dell’Oro collocata nella primordiale patria polare, dove fu “l’umana radice” e c’era “primavera sempre”. Lassù gli agenti atmosferici risultavano praticamente inesistenti e l’unico vento che accarezzava quelle terre aveva un’origine naturale poiché stando «in alto» (a Nord) era possibile percepire il movimento delle sfere celesti (Pg XXVIII 139-144).
Lo sguardo di Dante comunque è già oltre e bisogna stargli dietro. Visto da sopra il cono tronco del Purgatorio appare come un quadrato dentro cerchio: il quadrangolare “carro su due ruote” è chiuso nel fuoco circolare sottostante. Fantasmagoriche allegorie girano attorno alle due forme veicolando i più disparati significati simbolici. Nel luogo sacro verso cui convergono tutte le figure vi è sempre un piccolo quadrato senza porte. Quando la processione si ferma inizia la girandola dei personaggi che gettano fiori sul carro. Si tratta chiaramente di un mandala.
Mirabile rappresentazione del cosmo questo tracciato rappresenta altresì il mondo interiore che prende forma pian piano, granello dopo granello, e la Commedia è in fondo il racconto di una magnifica metamorfosi. Si parte da umili peccatori, strada facendo si sciolgono le tensioni terrene ed infine si abbandona la propria condizione larvale per spiegare le ali.
Nella descrizione di questo itinerarium mentis in deum il Fiorentino surclassa i classici (Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano). Ma vantandosi di essere “sesto fra cotanto senno” (If IV 102) sembra sorvolare sul fatto che “la bella scola” poetica non dovette muoversi in un campo minato, cioè eretico, come invece è toccato a lui.
Ai suoi tempi le istituzioni ecclesiastiche interpretavano le metamorfosi come una degradazione dell’imago dei, e c’era poco da scherzare col fuoco. Agli occhi del clero era inaccettabile l’accentuazione della diversitas che portava l’uomo ad assumere una natura animale, vegetale, minerale. Ma su questo punto il poeta ha già detto come la pensa: tutto ciò che vive ha un’anima.
Con disinvoltura egli mostra così nei gironi infernali un serpente che assume sembianze umane e un dannato che si trasmuta in serpente (If XXV 94-102), I suicidi diventano spinosi alberi ritorti (“uomini fummo, e or siam fatti sterpi” If XIII 37). Alcuni apprendisti-spiriti del Purgatorio sono “vermi / nati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi” (Pg X 124-26).
In barba alla teologia burocratica il poema pullula di sogni e visioni che generano teriantropi, legni parlanti, strani animali dalle forme mutevoli. All’apice della metamorfosi dantesca c’è l’ineffabile “trasumanar”, cioè l’elevarsi al di là dei limiti umani, un’esperienza inesprimibile a parole. “Trasumanar significar per verba / non si poria; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba” (Pd I 70-72).
Dante vede Beatrice fissare il sole e la imita, sperimentando l’accresciuto acume dei suoi sensi. I due iniziano a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Primo Cielo, quello della Luna, e con l’aumento della luce il poeta si sente «transumanar». Non capisce se possiede ancora un corpo mortale o se è diventato un’anima, né sa esattamente cosa lo aspetta. Immerso nel vortice dei Cieli che ruotano emettendo vibrazioni armoniose si paragona a Glauco, che dopo avere assaggiato l’erba dell’immortalità ed essersi ritrovato con le pinne di pesce al posto dei piedi dovette dire addio alla Terra.
L’immagine richiama il monito “Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dèi!” scritto sul tempio di Apollo a Delfi. Non c’è bisogno di vagare elucubrando per vie traverse quando si è compreso di cosa si è capaci. In caso contrario, partono i vaneggiamenti (in cui l’essere umano è maestro) scambiati per fatti reali, o realizzabili.
Basti vedere il decorso sorprendente di una mediocre teoria come quella di Julian Huxley (Transhumanism, 1957), membro di spicco della Fabian Society, che ipotizzò l’avvento di un mondo nuovo in cui l’essere umano, senza snaturarsi, sarebbe riuscito a trascendere se stesso realizzando nuove possibilità adatte a una natura umana rinnovata. Pur di sottrarsi al confronto diretto con la propria deità l’uomo va a nascondersi nel labirinto della fantascienza, e puntualmente si perde.
Interpretando il transumanesimo di Huxley in chiave economica alcuni cattivi soggetti dediti allo sfruttamento dei propri simili stanno pensando ultimamente di riprogettare il «troppo costoso» essere umano per farne una Cosa che non mangia, non si riproduce, non percepisce uno stipendio né ha un Altrove dove “trasumanar” perché nel suo orizzonte c’è una discarica di rifiuti tossici.
Anziché «divinizzarsi», come la sua natura spirituale gli permetterebbe di fare, l’essere umano gioca a fare dio e puntualmente cade a terra stecchito. Dall’eclisse del Sacro in poi è sempre stato così. Il rabbino Yehudah ben Bezalel, detto Maharal, perse il controllo del Golem che cominciò a distruggere Praga; Il dottor Frankenstein dovette girare il mondo per fermare il “Demone“, cioè il pericolo pubblico che aveva creato; le cosiddette Intelligenze Artificiali generative, capaci di dare vita a simulacri umani in un contesto creato sulla falsa riga dei videogiochi, promettono mari e monti ma sono delle semplici infrastrutture strategiche (militari?) pensate per dimezzare i posti di lavoro e aumentare i controlli in un’ottica di allineamento al «livello valoriale» di riferimento.
Non c’è niente da inventare, l’elemento sovrumano esiste già ed è l’Anima capace di «transumanare» in Spirito. Ma prima o poi il genio di Sapiens lo ri-scoprirà perché non è nelle sue corde rimanere troppo a lungo prigioniero dei controlli, né di quelli reali (l’ambiente), né di quelli della logica (la neocorteccia), né di quelli dettati dal codice genetico, né di quelli culturali e sociali. Il Sapiens, anzi, è abilissimo a fare in modo che i controlli si «controllino» reciprocamente. Il Sapiens offre il meglio di sé nello spazio aperto dove si crea, si sogna, s’immagina, si viaggia nelle dimensioni parallele alla scoperta di altri mondi. Al Sapiens piace fluttuare nello spazio dominato dal disordine eloistico delle profondità inconsce per farsi sorprendere dalla coscienza. “Buu!” La follia è il prezzo della sua saggezza, ma non perché lui lo abbia deciso.
2 Comments