9 Ottobre 2024
Rievocazioni

Turchia, 1913: la ferrovia Berlino-Baghdad e la “concessione” italiana di Antalya – Michele Rallo

Quando andavamo all’estero

per fare gli interessi nostri

(e non degli “amici”)

 

Gli inglesi e gli americani non ci hanno mai amato. Malgrado un secolo e mezzo (meno il deprecato ventennio) di innamoramento dei nostri politici, dei nostri intellettuali, dei nostri giornalisti e ‒ incredibile! ‒ dei nostri storici per il mondo anglosassone, la verità storica è là a testimoniarlo, incontrovertibile. Perché non ci hanno amati? Non per antipatia, e neanche per un insano pregiudizio. Semplicemente perché la nostra collocazione al centro del Mediterraneo ha dato sempre fastidio al loro disegno di dominare questo mare, di farne ‒ come dicevano i meno ipocriti ‒ un “great british lake”, un grande lago britannico.

Senza arrivare agli anni di Mussolini ‒ che viceversa voleva tornare al Mediterraneo “mare nostrum” ‒ questa animosità antitaliana degli inglesi si palesava già al tempo del Regno delle Due Sicilie, quando le forze britanniche ci derubavano di Malta e Gozo, isole sicilianissime (per etnìa e per collocazione geografica) annesse all’Impero della Sua Graziosa Maestà nel 1814, e poi utilizzate anche come basi militari contro di noi.

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L’ostilità nei nostri confronti si era naturalmente trasferita al nuovo Regno d’Italia (colpevole di mantenere una forza navale che faceva ombra alla Mediterranean Fleet) ed era cresciuta dopo la nostra vittoria nella guerra con la Turchia (1912); vittoria che ci aveva portato ‒ tra l’altro ‒ a conquistare Rodi e il Dodecanneso, un vasto complesso insulare dell’Egeo orientale, a poche braccia di mare dalle coste turche e della grande isola di Cipro, tenuta ‒ giustappunto ‒ dagli inglesi.

La nostra presenza nel Mediterraneo orientale era guardata con fastidio crescente; e quando nel 1913 ‒ dopo le guerre balcaniche ‒ l’Italia tentava di mettere piede sul suolo turco (anzi, ottomano), Londra ci aizzava contro i greci, mettendoli in concorrenza diretta con noi. La Grecia ‒ è giusto riconoscerlo ‒ aveva maggior diritto che non l’Italia ad installarsi sulle coste egee della penisola anatolica; non foss’altro che per la presenza di numerosi e popolosi insediamenti ellenici in quei luoghi, dai tempi di Troia in poi. Ma gli inglesi non sostenevano Atene per ragioni storiche, quanto piuttosto per stornare la sua attenzione da Costantinopoli e dagli Stretti del Mar di Marmara, territori che Londra ‒ in realtà ‒ avrebbe voluto acquisire per sé e per il suo progetto di great british lake.

rallo2Ecco che, nell’agosto 1913, il Ministro degli Esteri britannico, sir Edward Grey, così illustrava la politica mediterranea del Regno Unito ai governanti ellenici: «Riguardo alle isole dell’Egeo, vi è un punto sul quale noi per la nostra posizione nel Mediterraneo e per considerazioni d’indole navale abbiamo interessi particolari, e questo punto è il seguente: che nessuna di tali isole debba essere reclamata o tenuta da alcuna delle grandi potenze.»[1]  Era evidente il riferimento all’Italia e al Dodecanneso, pur se appariva francamente incredibile che una tale allusione potesse esser proferita dal rappresentante di una potenza che occupava l’isola di Cipro, peraltro poco più a sud del Dodecanneso stesso.

In ogni caso, la politica egea dell’Inghilterra era quanto meno miope, perché non era l’Italia bensì la Germania ad essere veramente una concorrente pericolosa, come poteva chiaramente evincersi dalla vicenda della costruenda ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad, la Baghdadbahn: linea concepita ufficialmente come tratta sud-occidentale del grandioso progetto di una Ferrovia Asiatica, ma in realtà messo a punto dagli strateghi berlinesi e viennesi come una sorta di continuazione del disegno austriaco di penetrazione verso Salonicco.

Fin dall’ultimo scorcio dell’800 la Germania si era assicurata le concessioni necessarie a costruire la quasi totalità delle ferrovie turche, nella convinzione – peraltro – che la penetrazione economica fosse il veicolo ideale per una futura penetrazione politica nell’Impero Ottomano; cosa che, in effetti, avveniva del tutto naturalmente alla fine del primo decennio del XX secolo, quando l’Inghilterra – impegnata a conquistarsi le simpatie della Grecia turcofoba – lasciava i primi spazi vuoti in Turchia.

Ma non appena, dopo la fine delle guerre balcaniche, interveniva una sorta di normalizzazione nei rapporti fra Costantinopoli e le diverse potenze europee, la Gran Bretagna – resasi conto del valore strategico delle linee ferrate – chiedeva di poter partecipare al progetto di costruzioni ferroviarie, riuscendo però ad ottenere soltanto una appendice periferica: la tratta Baghdad-Bassora. Nello stesso modo, la Francia otteneva una concessione per la tratta Aleppo-Damasco-Gerusalemme, mentre la Russia aveva riconfermata una vecchia concessione nell’Armenia ottomana, ai confini con l’Armenia russa. Nascevano così, ai margini della presenza “forte” della Germania sul territorio turco metropolitano, tre zone d’interessi economici delle altre potenze, zone che – come gli avvenimenti dei prossimi anni andranno a dimostrare – assumeranno ben presto la valenza di zone d’influenza politica: la Mesopotamia per la Gran Bretagna, la Siria per la Francia, l’Armenia per la Russia.

L’Italia – oggetto ormai accertato dell’ostilità inglese – veniva rigorosamente mantenuta estranea al lavorìo per ottenere le briciole del bottino tedesco e, in un primo tempo, rimaneva quasi del tutto tagliata fuori.

Era a questo punto – dall’agosto al novembre 1913 – che avveniva il viaggio in Turchia di un noto giornalista italiano, il futuro senatore Giuseppe Bevione, ufficialmente per raccogliere documentazione per un suo libro, ma in realtà – è il mio sospetto – su incarico ufficioso del governo italiano, al fine di poter meglio calibrare le iniziative nel settore delle ferrovie.rallo3

Bevione confermava e avvalorava con dovizia di particolari quel che era già presente ai governanti di Roma, e cioè che rimaneva libero dalle zone d’influenza altrui un ampio tratto di territorio ottomano (praticamente quasi tutta l’Anatolia meridionale, un quarto buono della penisola) ma che di questo territorio all’Italia ne sarebbe stata assegnata – come vedremo – solamente una parte, la cosiddetta regione di Antalya. E ciò – probabilmente – su pressioni dell’Inghilterra, che sperava di poter destinare prima o poi l’altra parte (la regione di Smirne) agli appetiti irredentistici dei greci.[2]

«Restano i territori posti a ponente della diagonale Haidar-Adana – scriveva il Bevione – contenuti fra il Marmara, l’Egeo ed il Mediterraneo. (…) I vilayet di Aidin e di Brussa, che ne formano la maggior parte, non sono sottoposti al “noli me tangere” di nessuna Potenza, perché nessuna Potenza vi ha spiegato un’azione economica predominante, o vi ha concentrato un’azione politica tendente ad escludere amici ed avversari.» Ed aggiungeva: «Se l’Italia vuole essere qualcosa nell’Impero Ottomano, se vuole (…) costituirsi una zona di prevalenza, non può ormai più cercare in altra parte dell’Asia Minore che qui.»[3]

Naturalmente, a prevalere erano gli inglesi, e l’Italia doveva accontentarsi di una concessione per la costruzione di un moderno porto attrezzato ad Antalya, e per una tratta ferroviaria di adduzione che da quel centro procedesse verso nord fino a Burdur per congiungersi con la Baghdadbahn.

Di certo Antalya (o Adalia, come si preferiva chiamarla in Italia), pur essendo il secondo scalo marittimo dell’Anatolia meridionale, era meno aperta, meno “europea”, meno prossima agli Stretti di quanto non lo fosse Smirne; ma in compenso era più vicina al Dodecanneso e si prestava certamente meglio al progetto italiano di dar vita ad una “via di Rodi”che unisse le acque dell’arcipelago alle grandi vie di comunicazione anatoliche, quindi alla ferrovia Berlino-Baghdad.  Antalya appariva al Bevione – che la visitava nel settembre 1913 – come «un paese vergine d’influenza europea», come un porto di preziosa collocazione geografica ma privo di quell’aria progredita e cosmopolita che si respirava a Smirne o in altri grandi porti dell’Impero Ottomano. Inoltre e fortunatamente, mancava ad Antalya una massiccia presenza ellenista potenzialmente pericolosa, ma vi abbondavano in compenso le vestigia dell’antica dominazione romana, elemento che sempre solleticava l’orgoglio italiano.

In ogni caso, benché rappresentasse meno della metà delle originarie aspirazioni italiane, la regione di Antalya non era poca cosa. Comprendeva tre sangiaccati[4] (quelli di Antalya, di Burdur e di Menteşhè), per un totale di 440.000 kilometri quadrati e di 560.000 abitanti.

Di opinione diversa era il Bevione: «Un territorio ampio quanto la Danimarca ed una popolazione grande quanto quella di Milano. (…) Non si tratta adunque di una grande cosa. Ma è il primo passo, quello che è più difficile a compiersi e che costa più fatica. » E aggiungeva: «Ora importa stabilire bene questo: come la concessione di Adalia non è che un’anticamera. Adalia stessa non può essere che una tappa della nostra marcia. I tre sangiaccati a cui si limita la concessione di studi per la ferrovia non sono adeguati alla nostra potenzialità, non possono soddisfare le nostre legittime aspirazioni. Altro bisogna cercare, altro bisogna fare, senza fretta, con metodo, con continuità di vedute e di volontà. (…) La prima cosa da tener presente è che tutto il blocco occidentale dell’Anatolia, quello che solo interessa noi italiani, ha una pupilla, uno sbocco, un centro che si chiama Smirne. Smirne è la seconda città dell’Impero Ottomano. Tutta la vita del litorale egeo dell’Asia Minore affluisce a Smirne e ne defluisce. Non si può svolgere ad occidente della ferrovia di Anatolia un’azione efficace senza interessarsi di Smirne. Interessarsi di Smirne non significa (…) volerla prendere d’assalto. Significa volervi esercitare un’azione legittima di civiltà. (…) E’ diffusa nell’aria la sensazione di una volontà presente e potente, tesa a maggiori cose. Così deve essere, perché nulla faremo in quest’ultimo lembo di Asia Minore, se trascurassimo Smirne. A Smirne dobbiamo lavorare con tenacia, con fede, con sacrifici, perché Smirne è il cervello e il cuore dell’Anatolia occidentale. Ad Adalia abbiamo preso la prima nostra ipoteca. Fra Smirne ed Adalia deve svolgersi l’opera nostra. Niente altro che questo, poiché teniamo le isole che lo comandano, ha da essere il lotto dell’Italia. Ancora una volta, dunque, il destino ci mette tra Francia ed Inghilterra, che in questa zona hanno gli interessi dominanti.»[5]

rallo4Quindi, malgrado avesse dovuto accontentarsi di Antalya, l’Italia continuava a guardare con non celato interesse a Smirne, che però era una città a prevalenza etnica greca (250.000 su 400.000 abitanti, anche se i turchi mantenevano una scarna maggioranza nel vilayet di pertinenza).  Con molta probabilità, comunque, il governo italiano si sarebbe volentieri accontentato della sola fascia costiera del “lotto” occidentale, che avrebbe voluto saldare alle acque del Dodecanneso, penetrando all’interno solo il necessario per congiungersi alle grandi linee di comunicazione e rinunziando quindi alla parte più settentrionale del lotto stesso.

Ma questo disegno confliggeva con le aspirazioni di Londra, che – puntando segretamente al controllo di Costantinopoli e degli Stretti – era obbligata a favorire gli appetiti greci verso tutti gli altri obiettivi del panellenismo in Anatolia, Smirne in primis. Esattamente come – volendo conservare il dominio su Cipro – l’Inghilterra era obbligata a stornare le aspirazioni del nazionalismo greco verso Rodi e il Dodecanneso. In ogni caso, comunque, l’Italia doveva rimanere fuori da Smirne e possibilmente da tutta l’Anatolia; anzi, la stessa sua fastidiosa presenza nel Dodecanneso doveva essere resa problematica e, possibilmente, eliminata a pro dei greci.

Tutto ciò spiega le ragioni dello scontro – incruento ma politicamente violentissimo – che dopo la prima guerra mondiale opporrà Italia e Inghilterra nel teatro egeo.

[1] Giulio COLAMARINO:  La Grecia nella guerra d’Europa. // I Balcani.  “Storia di ieri e di oggi”, fascicolo monografico, Roma, 1941.

[2] Dopo la conquista greca di Salonicco, nella lista delle aspirazioni della Megàli Idèa panellenista Smirne era ormai al secondo posto, sùbito dopo Costantinopoli. Si tenga presente che Smirne, benché indubbiamente turca dal punto di vista geografico, era prevalentemente greca dal punto di vista etnico.

[3] Giuseppe BEVIONE:  L’Asia Minore e l’Italia.  Fratelli Bocca editori, Torino, 1914.

[4] Il sangiaccato era costituito da una città e dai centri minori che le facevano corona; diciamo, grosso modo, una unità amministrativa simile alla nostra provincia. Il vilayet – che abbiamo già incontrato – riuniva invece più sangiaccati, ed era più o meno equivalente alla nostra regione.

[5] BEVIONE:  L’Asia Minore e l’Italia.  Cit.

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