Perché la storia non insegna?
Oscure banalità
La giostra della storia non è dissimile da quella del luna park. Nel tempo, seguita a mostrarci gli stessi eventi umani, che le epoche e le usanze camuffano a loro modo, ma che sono sempre e solo il prodotto dei pochi sentimenti, delle poche emozioni, dei bisogni e degli interessi di cui disponiamo. Tutti elementi che hanno in sé il potere di far variare la durata del tempo, la visione della realtà, la concezione del mondo, l’interpretazione dei cosiddetti fatti. Così, il cavallo, il camion dei pompieri o la carrozza di Cenerentola passano e ripassano davanti a noi ma, ogni volta, è come se fosse la prima. In più, ci si mette l’inconsapevole idea che la ragione e la memoria tramandata possano evitare il ritorno di quanto non ci era piaciuto. Ma è un’illusione figlia della supremazia cognitiva su quella emozionale, e su altre, con la quale crediamo di produrre conoscenza. Un sortilegio che ci impedisce l’osservazione che solo consapevolezze differenti, non quindi conoscenza, né memoria del passato, producono storie differenti da quella cui siamo soliti.
Capire non conta nulla, ricreare è necessario. Capire riguarda la sola dimensione intellettuale. Esso comporta un giudizio e questo implica separazione, come se gli eventi che non vorremmo vedere ripetersi, potessero stare alla larga da noi per ragioni moralistiche. La ricreazione implica invece ascolto e accettazione, entrambi indispensabili per dare legittimità piena a quanto la storia ci mostra, cioè per riconoscere il percorso del filo rosso delle scelte, dei comportamenti e dei giudizi che ne fanno l’architettura. È a quel punto che il rischio di eludere dalla giostra, cioè dalla storia, quanto non ci piace, alza di rischio di realizzarsi. È a quel punto che l’importanza personale, alla quale avevamo dedicato tutte le energie, venendo meno, rende possibile quanto fino a quel momento non lo era stato.
Ma c’è un secondo giogo culturale dal quale è necessario emanciparsi per avviare storie differenti da quelle conflittuali, tanto nella piccola, quanto nella grande misura. L’elezione della ragione, dell’eloquenza e dell’erudizione quali valori assoluti della società materialista, null’altro che il riflesso cognitivo del più ho più sono, impedisce di constatare che l’esperienza non è trasmissibile. Se lo fosse con una descrizione sapremmo sciare, dipingere, dirigere un’industria. Eppure si insiste ad impiegare la nostra unità di misura, come funzionasse per tutti gli universi diversi che siamo.
Ordinarie evidenze
Un evento che non può che verificarsi in quel certo modo: l’unità di misura con la quale misuriamo la realtà – nonostante gli intenti meccanicistici sotto i quali l’uomo concepisce se stesso – è personale e, proprio perché non siamo ontologicamente disponibili a rientrare nella categoria delle macchine, sempre, nonché imprevedibilmente variabile. È un’osservazione banale per tutti, tranne che per gli amministratori della vita, ovvero i paladini del razionalismo, nonché, necessariamente, dello scientismo.
La giostra, ciò che concepiamo e chiamiamo realtà, ci scorre di fronte come una pellicola, anche se viene conosciuta inevitabilmente attraverso la condizione in cui versiamo, è culturalmente concepita come oggettiva, una per tutti e per tutti identica. Il sortilegio ha radici profonde.
Il giogo razionalista, così diffusamente incistato genera pensieri che condizionano integralmente la concezione del mondo. Il suo potere è superiore al nostro: anche l’esperienza diretta, a mezzo della quale potremmo prendere coscienza che la storia non insegna, in quanto ogni momento è sempre differente, in quanto siamo noi a costituirlo a mezzo dei sentimenti, emozioni, interessi e bisogni, spesso non basta a dismettere il meccanicistico mantra che la storia insegna.
La questione è tanto più lapalissiana, quanto più il contesto è di tipo relazionale aperto, che è l’ambito più frequente delle relazioni umane. Tuttavia, l’idea scientista-illuminista, che la ratio e la logica ci avrebbero portato alla conoscenza reale delle cose, impedisce il riscontro di tanta evidenza. La supremazia cognitiva è una fresa che si mangia, con somma soddisfazione da parte scientista, qualunque altra dimensione veramente umana.
Per completezza va precisato che la storia tende effettivamente a insegnare quando l’ambito è chiuso, ha pochi elementi in gioco, regolati da linguaggio e norme condivise. Ma si tratta di circostanze sostanzialmente a sfondo tecnico, la cui cosmogonia è assolutamente pervasa dalla logica, ovvero un mondo dal quale, dell’infinito umano, tagliato fuori dalla spada del re scientista, non restano che briciole razionaliste, le più risibili del vasto, cangiante e instabile universo che siamo. Nel gioco del Monopoli o l’iter per la spedizione di una raccomandata hanno in sé una quantità di variabili limitate rispetto a quelle quantisticamente latenti in una relazione col prossimo e col mondo. Il ripetersi di situazioni identiche, quindi riconducibili ad esperienze passate tende ad essere un’eventualità nei campi chiusi e una fregatura in quelli aperti. Fregatura perché una valanga può investire anche il più esperto degli alpinisti. Ovvero, le ragioni dell’altro sono infinite. Il fascio di luce di ognuno come ci sorprenderà attraversando il nostro prisma?
In ogni giorno delle nostre vite disponiamo dell’opportunità di osservare quanto, come e a volte anche perché la nostra unità di misura sia differente da quella altrui – e, a volte, invece, corrisponda – nonché, anche quanto, come e a volte anche perché, il nostro stesso metro si allunghi o si accorci.
Giammai! Quale vergogna ammettere l’incoerenza! Riconoscere che in noi la sola permanenza è l’oscillazione! Meglio mentire, anche davanti all’evidenza! Noi, proprio noi, così giusti e razionali, così puri e inflessibili, mai commetteremmo lo sbaglio di ogni uomo, che davanti a ciò che lo indigna, sconsolato si domanda perché, ancora una volta, la storia non ci ha insegnato niente.
di lorenzo merlo ekarrrt – 080824