di Enrico Desii.
Ci sono diversi modi di fare impresa. In Italia, paese prediletto da scorribande capitalistiche di ogni genere, li abbiamo visti e subiti praticamente tutti (a chi non l’avesse letto consiglio “Eroi e cialtroni: 150 anni di controstoria.”, di Augusto Grandi e Teresa Alquati). C’è, innanzitutto, l’esempio, ormai trionfante, di taglio prettamente finanziario che vede nell’Ingegner De Benedetti il suo vate nostrano. Come è noto, costui prende il mano la Olivetti, che nel 1965 (!) aveva presentato il primo modello di calcolatore elettronico portatile, e, quando, il mercato diventa planetario e l’impresa italiana potrebbe dirvi la sua, decide che non sia conveniente produrre personal computer in Europa. Allora realizza il suo guadagno personale e mette in crisi un intero distretto che viveva intorno alla creazione di Adriano Olivetti. All’estremo opposto, c’è il modello personificato da Carlo Vichi che, con la sua azienda produttrice prima di radio e poi di televisori, ha rappresentato uno spaccato importante, poco conosciuto ed ancor meno apprezzato, di quello che era l’industria italiana nel secolo scorso.
Qualche giorno fa, ho letto che anche Vichi abbandona il settore. La sua Mivar di Abbiategrasso sospenderà la produzione entro la fine dell’anno, quasi tutti gli operai andranno in mobilità e, non solo in Italia ma in tutta Europa, non si fabbricherà più un apparecchio televisivo. Anche i tedeschi hanno abbandonato da tempo questo settore.
Non mi intendo e non mi interesso di tecnologia e non riesco a percepire la differenza che passa tra un televisore ed un altro. Non sono quindi in grado di dare giudizi tecnici o di fare confronti. Ma, l’anno scorso, costretto dal digitale terrestre, ho voluto acquistare anch’io un Mivar, intuendo che avrebbe potuto essere uno degli ultimi in circolazione. Mi pareva un doveroso attestato di stima verso chi aveva resistito tanto di fronte ai colossi orientali che utilizzano gli schiavi, dando nel corso degli anni lavoro a parecchi italiani, nell’indifferenza (o malafede?) di coloro che, a livello istituzionale, avrebbero dovuto difendere e promuovere le nostre eccellenze (un altro esempio? La Richard Ginori che, dopo essere stata fondata nel 1735 ed aver prosperato per più di due secoli nel settore della porcellana di lusso, nel dopoguerra ha dovuto subire anche le attenzioni di Michele Sindona e Salvatore Ligresti, arrivando sull’orlo del fallimento). Ma siccome la politica italiana non ha tutelato le realtà pubbliche, anzi le ha liquidate in esecuzione di precise imposizioni straniere, figuriamoci quelle private medio-piccole, che pur rappresentavano la vera, oltre che diffusa sul territorio, essenza dell’imprenditoria e della creatività italiana applicata ai sistemi produttivi.
Anche se non possono dirsi di certo inattese, le recenti notizie sulla Mivar mi hanno comunque colpito. Non nego che possa entrarci qualcosa l’affinità politica con le idee delle quali Vichi non ha mai fatto mistero, come non hai mai nascosto il suo disprezzo per il sindacalismo italiano, sottoscrivendo così la lenta condanna della sua impresa che, anche quando le cose andavano bene, aveva la triplice compatta schierata contro (figuriamoci… uno che nel suo ufficio tiene i ritratti di Mussolini, anche se ti realizza di tasca propria uno stabilimento avveniristico che tiene conto delle esigenze degli operai oltre che di quelle dell’impresa, è un nemico per definizione). Ad essere sincero, la situazione dell’impresa lombarda mi ha rattristato molto più dell’ennesima crisi dell’Alitalia, pronta ad ingoiare un’altra valanga di soldi di provenienza più o meno pubblica pur di proseguire la sua agonia. E’ risaputo a tutti che quella che una volta era la compagnia di bandiera, è stata un vettore, più che di passeggeri, di clientele a tutti i livelli. Però va salvata, ad ogni costo, anche a prezzo di contenziosi con Bruxelles e con le compagnie concorrenti per la questione degli aiuti di stato, perché, si dice, rappresenta ancora l’Italia nel mondo.
E’ curioso questo nazionalismo di comodo dei nostri vertici (sarà mica interessato?) che mentre predicano il ritiro del pubblico dal mercato e permettono che la compagnia telefonica venga fatta oggetto di operazioni finanziarie della peggior specie (“Vigileremo”, ha detto il Presidente del consiglio a cose fatte), per l’Alitalia si comportano diversamente inscenando l’ennesimo salvataggio, a distanza di soli cinque anni da quello precedente. Senza dimenticare che si tratta di un’Iniziativa ormai priva di senso perché, di fatto, Alitalia non ha prospettive sulle rotte internazionali mentre su quelle nazionali, vale a dire su quella Milano-Roma, gli utenti preferiscono Trenitalia, che è tutto dire. Mi pare, dunque, lecito chiedersi a quale fine immettere liquidità in una struttura destinata a morire: a quello di cederla domani definitivamente ad Air France dopo che gli italiani ne avranno pagati i debiti o a quello di continuare ad occuparne le poltrone? Oppure a tutti e due? Ma, allora, non sarebbe meglio portare davvero i libri sociali in tribunale e ricominciare da capo, magari con qualche idea innovativa? E’ fallita pure la Swissair, mica gli svizzeri ne hanno fatto un dramma!
La Mivar, invece, non la salva di certo nessuno, perché non si tratta della famosa multinazionale di lontane origini torinesi, che, nel tempo, ha preso, portato a casa, delocalizzato un po’ dovunque e nemmeno ringraziato. Come nessuno si interesserà alle conseguenze dirette ed indirette sul territorio dell’evento e rifletterà sul significato, anche simbolico, dell’uscire del tutto dal mercato dell’elettronica. Non lo hanno mai fatto in passato riguardo a settori ancor più caratterizzanti la nostra economia, come quello alimentare, oppure a veri e propri distretti come quello tessile, non lo faranno di certo adesso.
Vichi, però, ha dichiarato che non si arrende. Nonostante tutto non si metterà a godere le rendite prodotte dalle sue proprietà e nemmeno comincerà a scrivere libri da premio Strega per farsi eleggere in parlamento, come un imprenditore delle mie parti toscane. Continuerà a lavorare e a produrre, probabilmente tavoli ergonomici per ristoranti e self-service. Ci riserverà di sicuro qualche sorpresa perché è ancora giovane, ha appena novant’anni.
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