Sabato 2 agosto, nella ricorrenza della strage alla stazione di Bologna – ma, qui, è solo casuale –, sono stato invitato alla prima festa di Brescia Identitaria a parlare di passato e futuro di una rivoluzione possibile. Gli organizzatori, gli stessi che, un paio di mesi fa, mi invitarono a tenere una conversazione intorno a Robert Brasillach, tema a me caro. Buona presenza di pubblico, capacità d’ascolto, piacere di incontrare vecchi camerati di Brescia, città dove non ero mai stato, una ausiliaria della GNR ed Emilio Maluta, marò del btg.Lupo. Ospitalità e visita al castello. Viaggio faticoso, sebbene non fossi io alla guida (oramai e da anni non possiedo più patente e automobile): partiti alle 10 del mattino da Roma, arrivati nei pressi di Brescia verso le 16, ripartiti a sera per trovarmi sotto il portone di casa alle 5 del mattino. E, dopo due giorni, sono ancora coinvolto dal sonno che mi assale quando a lui aggrada e non nelle ore canoniche. Ore che, per me che soffro d’insonnia, sono le più impertinenti e discontinue… Ne valeva, però, la pena.
In un ampio capannone, solitamente adibito ad intrattenimento per bambini, lunghi tavoli e panche, sedie, esposizione di libri CD t-shirts, il banco mescita, la grigliata per salcicce polenta formaggio alla piastra, alle pareti le bandiere. Molti i giovani, quasi la totalità dei presenti, teste rasate tatuaggi pantaloni al ginocchio mimetici, espressione di più comunità, attenti partecipi interessati, circa due ore di dibattito. Questo è il senso del territorio, la sua capacità di essere presente di identificarsi di voler essere operativo; questa è la cultura che unifica propone progetta crea identità pur nella differenza di sigle e rimandi. Senza tutto ciò il viaggio le parole i boccali di birra i capelli bianchi, stonati forse, sarebbero cosa inutile…
Il vezzo del vecchio professore, la citazione classica di una pagina del filosofo Hegel sulla distinzione fra i vecchi, che egli sopravaluta quali detentori del sapere vissuto rispetto ai giovani entusiasti ingenui privi di una visione complessiva di ciò che, per loro, deve ancora farsi atto compiuto (rovesciamo, in linea con la feconda ideologia del primo ‘900, perché di mummie non sappiamo che farne se esauriscono se stessi nel dettare pontificare suggerire sconsigliare impedire il rinnovamento l’osare l’andare oltre. Paralisi e sclerosi e immobilismo e olezzo di putrefazione…). Cosa lasciare a testamento, di che natura il testimone, cosa dare ancora e se vi è qualcosa su cui poggiare il senso di se stessi nell’oggi? Lettera a un soldato della classe ’40: ‘Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo (Brasillach rifletteva sulla ‘collaborazione’ franco-tedesca, ma ben si può adattare agli esordi del ’68 le occupazioni le bandiere nere e quelle rosse Valle Giulia l’amore fra Sandro e Laura ciò che poteva essere e non è stato), e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza’. Già, la fierezza quale riconoscimento della propria identità, la coerenza se si vuole o, utilizzando un termine da ‘scuola di guerra’, la strategia; la speranza, che – va da sé – non si confonda con un ‘gratta e vinci’ o il guardare dal buco della serratura la domestica e masturbarsi sognando di portarsela a letto, ma l’utopia della realtà, l’immaginazione al potere, la tattica che consente avvicinarsi all’obbiettivo. Cantava Bob Dylan: ‘Conserva forti fondamenta quando verranno i venti del cambiamento’…
Questo ed altro. Quando Pier Paolo Pasolini chiese ad Ezra Pound di rivolgersi a quei molti giovani che, per la prima volta, lo vedevano e ne sentivano la voce in televisione (intervista voluta da Pasolini, poco prima che entrambi morissero, quasi a sanare una sorta di dimenticanza, di troppo a lungo coltivata inimicizia), il poeta dei Cantos e combattente all’usuracrazia, rispose reiterando due volte: ‘Curiosità, curiosità’. Che è non soltanto atto di onestà intellettuale, ma interiore ricchezza per se stessi e verso il mondo. Senza la quale la fierezza corre il rischio di trasformarsi in testarda ostinazione e la speranza in vanità. E tornano le parole di Martin Heidegger ‘colui che pensa nella grandezza, nella grandezza costui è costretto ad errare’ (dove errare non equivale soltanto a cadere in errore, ma anche e soprattutto smarrirsi nel cercare il senso del viaggio e della meta. Prima di lui Nietzsche ammoniva come ‘grandezza vuol dire dare una direzione’ – compito questo che spetta a noi ‘vecchi’, non maestri ma discepoli del presente, non a guida ma a servizio di coloro che hanno scelto di mettersi sul nostro stesso cammino, di andare là dove avremmo voluto noi stessi arrivare.
Venerdì di nuovo in viaggio. In aereo di buon mattino direzione Sardegna. Nell’interno, poco distante da Cagliari, località Capoterra, l’annuale festa dal titolo felice e irridente Sei diventata nera. Sono gli skins ad organizzarla, ormai da diversi anni e sono ormai tre o quattro volte che sono invitato. (Ovviamente ad una sola condizione e, cioè, non essere ‘scotennato’). La prima volta a parlare sul ’68 e Valle Giulia, poi soltanto per un sano cazzeggio birra salcicce musica a palla. Terra sarda, terra amica. Ovunque e sempre trovarsi tra camerati, quelli della mia generazione – sempre meno – e quelli delle generazioni successive – buon segno anche se c’è una certa confusione sotto il cielo (reminiscenza del tempo ‘viva Hitler! Viva Mao! Viva la Rivoluzione!’) – . Questo fa la differenza. Nel mese di agosto sentirsi un militante in cammino, non un turista per caso…
Altri luoghi altri incontri altre conferenze altre presentazioni. Cultura e territorio. Prima di rimettersi sulla via del ritorno, Marcello mi diceva che occorre essere coinvolti in questo impegno di dare attraverso un progetto politico – cultura – una unità d’intenti alle varie comunità sparse, pur senza pretendere alcuno spazio unitario, modello partito nazionalsocialista leninista compagnia di Gesù(come piaceva pensare ad Adriano Romualdi e, in quegli anni, a molti di noi), ma soltanto – e così è stato a conclusione del mio intervento, quel richiamo ai bastoni e alle barricate per evitare che qualcuno si confonda con il tintinnare delle manette e il fumo acre dei lacrimogeni – fidenti che le cose non possono durare, ma che in ciò noi rischiamo d’essere trascinati nell’occhio del ciclone. Un sistema di autodifesa, se si vuole. Nostalgia del futuro… lo so che molti di noi aspettano una parola d’ordine, il richiamo della primigenia foresta, rullo di tamburi e sventolio di bandiere – quelle dai medesimi colori e dal medesimo simbolo di un tempo forse un po’ folle, tragico a momenti, esaltante sempre (e per non essere frainteso i colori e il simbolo che abbiamo ritrovato il 21 giugno!). Certamente nel cuore, ma la mente esita? Eppure abbiamo il diritto di sognare ad occhi aperti e il dovere di tentare affinchè si realizzino… in quanto i nostri sogni non appartengono alla sfera privata di ciascuno di noi, non si dissolvono e si dimenticano con le luci del primo mattino, non sono il frutto a compensare frustrazioni e delusioni personali. Essi, come gli ideali, hanno la forza di preservare in noi l’eterno moto della giovinezza l’intimo sentire della libertà (questo è, mi dico, anarcofascismo).
Abbiamo combattuto la bella battaglia, come altri prima e meglio di noi, come altri rabbiosamente dopo di noi, ma forse di questa battaglia manca l’epilogo – non l’esito che è altra cosa e, in qualche modo, intende sottomettersi al giudizio della storia, appartenere alla schiera dei vincitori o dei vinti. L’epilogo è un atto morale, etico – è bene tutto ciò che mi eleva, è male tutto ciò che mi degrada, rifletteva Oswald Spengler –, dove il cuore la mente la volontà sono i bastioni a difesa. (Il giorno della commemorazione funebre di Paolo Rossi si rimase in tredici, spalle al muro della casermetta e qualche migliaio di compagni che arrivavano di corsa e in ordine sparso al grido di ‘Assassini! Assassini!’, perché Cataldo, mentre ci defilavamo, ebbe ad urlar che a lui non andava di scappare…). Essere ancora qui, in prima fila, con la nostra coerenza, la nostra storia, le nostre idee. Chi vuole si serva pure. Chi è in mala fede nel pregiudizio nel sospetto nella infamia si faccia da parte con i suoi alibi, i suoi deliri di onnipotenza… Noi siamo qui e qui, ‘optime’, rimarremo…
Va be’, un po’ troppo enfatico? Patetico? Istrione? Stravagante? Me la suono e me la canto da solo. Poi il tempo – breve o lungo che sia – verrà a sciogliere ogni incertezza dubbio inquietudine, simile al nodo di Gordio, mi auguro solo di ‘esserci’…
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