8 Ottobre 2024
Adriano Romualdi Anarchia Bakunin Nichilismo Punte di Freccia Russia Storia

Un monito per questo volgare presente


di Mario M. Merlino
Al termine della guerra franco-prussiana, che stabilì la nascita del Secondo Impero nella sala degli specchi a Versailles (18 gennaio 1871) e la supremazia della Germania nell’Europa continentale, la città di Parigi, che aveva sostenuto un durissimo assedio da parte delle truppe prussiane, insorse contro il governo borghese che aveva sottoscritto una umiliante pace. Si determinò un movimento popolare, noto con il nome di ‘la Comune’, che alzò la bandiera rossa a proprio vessillo ed istituì un governo popolare di stampo socialista. Carlo Marx ebbe parole d’elogio per l’avvenimento e scrisse espressamente La guerra civile in Francia, 30 maggio 1871, pochi giorni dopo il suo tragico e feroce epilogo. Il principe russo Michele Bakunin, di fatto padre del’anarchismo moderno, affermò ‘c’è la vera anarchia!’, conoscendo i progetti e le realizzazioni intraprese. (Mi esento di farne una storia dettagliata, visto che altro è l’intento di questo mio scritto). Anni dopo, nel 1888, su testo di Eugène Pottier e musica (molto coinvolgente) di Pierre Degeyter, fu creato a sua memoria quel canto, l’Internazionale (‘Su compagni lottiam – nostro fine sarà – l’Internazionale – futura umanità’), che divenne l’inno ufficiale del movimento comunista.

La Comune ebbe vita breve, dal 18 marzo al 28 maggio del ’71, accerchiata Parigi dalle truppe del governo Thiers e guidate dal maresciallo Mac Mahon. In premio fu poi nominato presidente della repubblica, 1873, espressione dei conservatori dei clericali dei filo-monarchici. Fu un secondo assedio, ancor più brutale di quello tedesco. Il 21 maggio i soldati riuscirono ad aprirsi una serie di brecce e penetrare in città. La lotta si trasformò in una carneficina indiscriminata. Strada per strada, casa per casa. La ‘settimana di sangue’ vide oltre ventimila fucilati senza contare quelli dei giorni successivi, i processi, le condanne durissime nei bagni penali, l’esilio dei sopravvissuti. Gli ultimi combattimenti si ebbero all’interno del cimitero di Pére Lachaise, all’arma bianca fra le tombe scoperchiate dal tiro alzo zero dell’artiglieria. Lungo il muro di cinta è possibile, oggi, vedere il luogo ove un centinaio di superstiti vennero passati per le armi e dove, scavata una fossa, vi furono gettati gli assassinati portati con le carrette da ogni parte della città. Costoro andavano alla morte e gridavano in faccia ai plotoni d’esecuzione: ‘à demain la liberté!’…
Nessuna resa al nemico, semmai l’onore delle armi a dei vinti che seppero essere dei valorosi. Non intendo sposare la causa a cui, dopo un secolo di effetti sovente devastanti e disastrosi, la storia ha decretato la parola ‘fine’ (e con ignominia se pensiamo alle motivazioni e modalità della caduta del muro di Berlino). Anche se i Nicolino Bombacci e i Berto Ricci preferirebbero i comunardi – ed io con loro – ai reazionari conservatori borghesi fautori dell’ordine costituito falliti pavidi tirapiedi portaborse benpensanti, che di fatto non pensano bene, anzi non pensano affatto… Volevo solo ricordare, con un accento forse un po’ troppo pedante e didascalico, che la storia dei partiti comunisti, dei teorici e dei rivoluzionari bolscevichi, di tutti coloro che credevano inesorabile l’avvento del socialismo e si sacrificarono lottarono furono brutali con gli avversari e con se stessi per questa grande speranza (perché comunque fu grande anche se la si legge ormai come illusione ed inganno e noi avemmo la fortuna ed il buon gusto di non cadere nella sua trappola) prendevano le mosse, vivendola nell’immaginario quale episodio eroico collettivo e antesignano, da una sconfitta, sanguinante ferita mai rimarginata.
Ho ritrovato fra libri e riviste la fotografia di un carro armato sovietico, con un grappolo di soldati festanti, che percorre una strada disselciata nel centro della capitale tedesca. Sono gli ultimi giorni di aprile del ’45. Sul muro qualcuno ha vergato con la vernice bianca e a caratteri cubitali ‘Berlin bleibt deutsch’. Sulla battaglia di Berlino Adriano Romualdi scrisse Le ultime ore dell’Europa, stampato nel 1976 (Adriano era morto già da tre anni) e ristampato nel 2004, quale raccolta di scritti vari sul medesimo tema a lui tanto caro. Fra le macerie della città si compie il destino dell’Europa, la Finis Europae, e non soltanto del nazionalsocialismo e del suo Capo, volutamente prigioniero del bunker e pronto a non cadere vivo nelle mani del vincitore. I volontari francesi scandinavi spagnoli e di tante altre nazionalità, tutti appartenenti a quell’esercito nato e concepito non soltanto in funzione anti-bolscevica, ma premessa e promessa in armi di un nuovo ordine, che fu le Waffen-SS, non si battevano certo per quel piccolo uomo dallo sguardo magnetico e i buffi baffetti a spazzola. Saint-Paulien ne I Leoni morti lo esplicita chiaramente. Essi si battevano perché duemila anni di civiltà non venissero spazzati via dal vento proveniente da oltre gli Urali, mentre un altro vento, altrettanto se non più minaccioso e invadente, aveva attraversato le acque agitate dell’oceano Atlantico. Quella battaglia, quella sconfitta, dovevano divenire – questo era l’auspicio di Adriano – il mito fondante la rinascita e la rigenerazione della gioventù europea. Come per il solstizio d’inverno che sembra avvolgere nelle tenebre la luminosità del sole e, al contrario, sempre comunque e nonostante tu
tto esso è destinato a vincere…
Dicono che la storia nulla ha da insegnare e che gli uomini ripetono i medesimi errori, simili al tormento di Sisifo e della pietra eternamente rotolante. Si potrebbero portare molteplici esempi e per chi ha coltivato, fin da adolescente, il suo studio lo sa bene. A differenza del filosofo Hegel, che intendeva la storia il luogo principe ove si realizzano i fini della ragione, il mio nichilismo mi rende diffidente e vi trovo, al contrario, lo spazio deputato all’errore al kaos alla nientità. Non per questo mi faccio preda dello sconforto della disperazione dell’inanità. Nel pubblicare I Proscritti Ernst von Salomon volle apporre, nella parte terza, una considerazione di Ernst Juenger ‘al cuore si può sempre applicare il vecchio detto: le rovine non bastano a seppellire gli impavidi’. Ed io ricordo ancora quanto affermava un giovane ufficiale delle SS e che, cioè, l’aristocratico combatte anche quando è sicuro di perdere. Ivan Morris ha scritto La nobiltà della sconfitta sull’etica del bushido, dei samurai in Giappone. Ma, se preferite, anche questo non è il punto perché, va da sé, la scelta è patrimonio personale ed ognuno decide se salire sulle barricate o restarsene a casa…
La tragica fine della Comune non ha impedito al comunismo di rendersi una forza e per un secolo rappresentare una spinta per milioni di uomini nel tentativo (certamente vano perché fondato su premesse errate della condizione umana ben più complessa del solo appagamento delle necessità materiali) di realizzare un mondo capace di risolvere i bisogni dell’uomo. Così La battaglia di Berlino, pur nell’annichilente crepuscolo degli dei, nella demonizzazione dei suoi uomini idee e motivazioni, noi avvertiamo che fu una splendida ed esaltante avventura, mai intesa come epilogo, fondamento di tanta parte della nostra identità e volontà di lottare. E vogliamo credere che una notte, intorno al fuoco, su qualche spuntone di roccia,  con il corpo infreddolito e l’animo ardente, sopra di noi le stelle, sentiremo lento e inesorabile il rullo, prima impercettibile e lontano, di cento e mille tamburi e la voce dei ‘nostri’ che ci chiamano ed esigono che si rinnovi l’eterna guerra del sangue contro l’oro. Antichi dei per nuovi guerrieri…
Queste eco di carattere storico contengono una morale? Non sono un confessore non sono uno psichiatra non sono più dietro la cattedra… forse solo un monito per questo volgare presente. Che in ogni veleno si annida anche il suo antidoto…

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