Di Mario M. Merlino
Torno verso Roma. In macchina Paola ascolta musica italiana. Canta Gino Paoli: ‘E sono ancora qui – qui con le mie domande – e sono ancora qui – cosa farò da grande?’. Già…
Mi viene a mente che me lo sono chiesto più volte, magari facendoci sopra un po’ di ironia, ma sempre avvertendo che, in qualche angolino recondito, c’era del vero. Non leggo più Pecos Bill e Oklahoma Jim, che mi insegnarono da subito essere dalla parte dei vinti, i pellerossa e i sudisti. Non vado in via Quattro Cantoni, al cinema Cristallo, dove tra militari domestiche e tanti ragazzini si schiamazzava mentre cow-boys (‘gli eroi sono tutti giovani e belli’, avrebbe cantato in altro contesto Francesco Guccini) e bandidos messicani e feroci tribù Apaches facevano a gara nel riempirsi di piombo frecce e corpo a corpo con pugnale e ascia. Del resto da anni s’è trasformato in ‘luci rosse’ e per anni al bar di Angelo si condivideva il caffè con le ‘dive’ del momento, Moana Pozzi compresa. E i libri di Emilio Salgari, che ha nutrito e fatto sognare più generazioni con i tigrotti di Mompracem ed Emilio di Ventimiglia, divenuto il Corsaro Nero, letteratura nazional-popolare di cui il fascismo ne colse il valore di ‘spiriti della vigilia’, si stanno coprendo di un sottile strato di polvere…
Eppure, sì, cosa farò da grande? E non sorrida e scuota la testa e ci faccia sopra il verso l’eventuale lettore. Lo so da me che sono prossimo al doppio giro di boa dell’età in cui Robert Brasillach, 6 febbraio 1945, venne legato al palo dei condannati a morte. Lo so da me che i bambini mi indicano a dito confondendomi con Babbo Natale, con i miei capelli lunghi e la lunga barba bianchi, e mettendo a disagio le giovani madri. Lo so bene, no, male che mi sono schifosamente appesantito, con questa odiosa pancia (io che ero un grillo tutto nervi e in eterna agitazione), che non ci vedo, altro che fare cin-cin con gli occhiali, non ci sento, senza possedere la genialità di Beethoven, e preferisco mangiare polpette e non masticare bistecche…
Eppure, sì, cosa farò da grande? Nei Sette Colori, nella sezione dal titolo Riflessioni, si legge, ad esempio: ‘trent’anni, la prima volta in cui correre dietro agli incanti, alle gioie e alle pene della gioventù può divenire un dramma’ oppure, riprendendo la medesima considerazione de La ruota del tempo, Brasillach scrive: ‘per lunghi anni, siamo vissuti nella eminente dignità del provvisorio’. Siccome ho avuto la ‘fortuna’ di attraversare circa diciotto anni della mia vita tra sbarre e chiavistelli e, soprattutto, all’ombra di reiterati processi, i trent’anni si sono prolungati di almeno altri dieci e il provvisorio è divenuta un’abitudine una cifra anche un vanto… E, qui, per pudore mi trattengo dall’andare oltre con me medesimo a soggetto (scrive Nietzsche: ‘in ogni mio libro vi ho messo qualcosa di me’ e questa è una ammissione scarsamente filosofica, già, ma del padre di Zarathustra ciò che amiamo di più raccogliere è quanto si fa carne ossa sangue).
Eppure, sì, cosa farò da grande? Essere prossimi all’ora del tramonto, le luci si rendono soffuse il rosso cupo del sole ancora dà battaglia alle nebbie della sera il grigio incerto attanaglia il cuore ma porta via con sé anche il superfluo il banale l’inutile. Tra poco rimarrà solo l’essenziale, quel nulla che tutto nullificando dà la giusta dimensione all’illusione all’inganno alla finitudine del divenire troppo preso d’essere qualcosa di tanto simile all’essere… E i Rg-Veda, citati da Nietzsche in Aurora, e il Platone stanco ma non domo delle Leggie Giulio Cesare, con lo stilo e la tavoletta nel chiuso della tenda e Martin Heidegger in fuga dagli alleati e dal bombardamento su Friburgo, passando per Hugo von Hoffmansthal in attesa degli uomini che verranno al mattino e Josè Antonio e i giovani della Falange sentinelle ardenti sotto il cielo stellato, ci ricordano che vi è nelle ombre della sera il forgiarsi del giorno a venire. E questo appartiene alla giovinezza eterna della mente e del cuore.
Eppure, sì, cosa farò da grande? Hegel metteva a confronto i giovani e i vecchi dando a questi ultimi il vantaggio di poter osservare il compimento a cui i giovani sono tesi ma ancora senza conoscerne l’esito (la civetta, uccello caro alla dea Minerva, prende il volo quando, volgendo ormai la sera, del giorno si può raccogliere i frutti seminati). Imbecille…
Provate a pensare il Che Guevara, icona dell’estetica rivoluzionaria, a settant’anni con gli occhi cisposi la dentiera e la prostata ingrossata. ‘Che orrore’, confidava di sé Brasillach immaginandosi infreddolito dai reumatismi con la coperta sulle gambe accanto alla stufa (anche se, concludendo il breve saggio su André Chénier confidava che la vita era comunque da preferire). Insomma – e, in qualche misura, faccio riferimento al precedente pezzo qui pubblicato – non dimentichiamo mai la nostra giovinezza (ed è meglio essere patetici come ‘la vecchia signora’ dell’Ironia di Pirandello che cani senza denti ad abbaiare alla luna), giovinezza vissuta sovente amaramente inquieta e irrequieta ma anche anticonformista e antiborghese e irriverente. Teniamola ben stretta al centro della nostra memoria ogni qualvolta ci confrontiamo con quella del presente (scriveva con acuta ironia Giuseppe Starnone che i ‘nostri’ alunni ogni anno sono diversi ma hanno sempre la medesima età mentre noi, i professori, abbiamo sempre un anno in più e siamo sempre più soli).
Eppure, sì, cosa farò da grande? Si dice che quando la vita si fa ricordo sia già finita (‘La vita è troppo breve ed io avrei voluto vivere per sempre’: così Mishima Yukio lascia a testamento prima di scegliere il modo plateale con cui pone fine alla propria esistenza). Si dice, altresì, che la maturità e, poi, l’incanutirsi insegna ad essere più saggi distanti comprensivi. Balle… ‘La tolleranza è il principio dell’indifferenza’: la trovai leggendo per caso dall’Osservatore Romano che, abitando in un antico palazzo del ‘500 di proprietà di un ente religioso, sfilavo ogni tanto dalle cassette della posta di qualche monsignore. E, se non è l’indifferenza, è una certa impotenza. Così guardare avanti, guardare oltre e ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo: ma un Hidalgo senza ingegno, pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia, o nella corsa di un assalto, ma
– se potrò – cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’ (Filippo Corridoni, ottobre 1915).
– se potrò – cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’ (Filippo Corridoni, ottobre 1915).
Cosa farò da grande? A passo lesto e ad occhi aperti… incontro alla notte come se corressi dietro agli amici alle donne all’avventura con i miei venti anni…