Ad un mese dal convegno internazionale di Parigi dell’Institut Iliade, riproponiamo questo illuminante testo di Alain de Benoist su Dominique Venner di cui ricorreva, il 21 maggio scorso, il secondo anniversario della morte.
Mario Cecere
“Un Samurai d’Occidente” di Dominique Venner visto da Alain de Benoist
Non è possibile accostare Il samurai d’Occidente come si accostano altri libri. Quando vi si leggono frasi come questa: “Solo una morte subìta non ha senso. Voluta, essa ha il senso che le si attribuisce, anche quando è priva di utilità pratica”, o ancora: “E’ qui ed ora che si gioca il nostro destino. E questo istante ultimo possiede altrettanta importanza che il resto di una vita. E’ per questo che occorre essere se stessi fino all’ultimo istante, soprattutto all’ultimo istante. Solo decidendosi, volendo davvero il proprio destino, si è vincitori del nulla”. Leggendo questo, è difficile non sentirsi tremare le mani.
La nobiltà d’animo
Dominique Venner ha completato la scrittura di questo libro il “solstizio d’inverno” 2012. In quel momento egli sapeva che si sarebbe dato la morte. Si è ucciso a Parigi il 21 maggio 2013, si sa dove e in che modo. Il suo ultimo libro, apparso qualche settimana dopo, è dunque senz’altro un testamento. Questa morte volontaria, di cui François Bousquet ha potuto scrivere che “lungamente meditata, minuziosamente preparata e serenamente compiuta, porta in sé la nobiltà d’animo che ha accompagnato tutte le tappe della sua vita”, è ciò che illumina e restituisce tutto il suo senso al libro.
Un libro dai tratti aurorali
Il Samurai d’Occidente è un libro semplice, un libro che attesta di una “chiara forma”, di lineamenti che potrebbero dirsi ugualmente mattutini o aurorali, in quanto fa apparire delle verità. La verità in fin dei conti è sempre molto semplice. Le complicazioni non cominciano che quando occorre argomentare. Dominique Venner non era un intellettuale, neppure un teorico in senso stretto. (Allo stesso tempo, per buone e cattive ragioni, egli non nutriva una simpatia eccessiva per gli intellettuali!). Il suo saggio non per questo è meno prossimo al fondo ultimo delle cose – alla cosa stessa, vale a dire all’essenziale. Si capisce allora perché, quando si legge, attraverso la penna di questo ammiratore incondizionato dei poemi omerici – “quei poemi sacri a null’altro comparabili che ci dicono quello che eravamo nella nostra aurora”- si capisce perché “Omero mostra ma non spiega, non concettualizza”. Tale è certo la via seguita da Venner. Per esporre e far comprendere la sua concezione del mondo egli stesso mostra. Egli porta allo sguardo, e da lì allo spirito, quanto testimonia della verità della storia, della verità dell’uomo e della verità del mondo.
Il rapporto con la natura e i modelli etici
L’opera, lo abbiamo appena detto, vuole essere l’esposizione di una visione del mondo. Una visione strutturata. Venner dice che “il primo principio dello stoicismo è la coerenza” (il secondo essendo l’indifferenza alle cose indifferenti”). La sua visione del mondo anche è perfettamente coerente. Essa privilegia due assi, il rapporto con la natura e i modelli etici che permettono all’uomo di dare il meglio di sé. L’essenziale del libro, che riprende la materia trattata in molti testi pubblicati questi ultimi anni assemblandoli in una maniera che ne fa apparire bene la coerenza, è consacrato a questi due temi.
E innanzi tutto alla bellezza della Natura, quella Natura di cui Eraclito diceva che “ama nascondersi”, che fu per così lungo tempo desacralizzata e che però costituisce sempre una risorsa. “In rottura assoluta con l’antica saggezza, scrive Venner, la ragione dei Moderni, cristiani o atei, ha cercato di infrangere l’incantesimo della Natura, il senso della percezione dei limiti necessari e del sentimento tragico della vita coltivato a partire da Omero.” Egli spiega come farvi ritorno in un modo che può evocare il “passaggio al bosco” di cui parlava Junger nel suo Trattato del ribelle.
La tenuta? “Significa essere norma a se stessi nella fedeltà ad una norma superiore. Tenersi a sé al cospetto del nulla. Vegliare a non guarire mai dalla propria giovinezza. Preferire mettersi il mondo contro piuttosto che strisciare”. Venner passa in rivista qualcuno dei “Maestri del contegno” che gli sono familiari. Gli eroi omerici, ai quali consacra alcune delle sue pagine più belle, gli antichi Romani, la cui vita si organizzava intorno alla gravitas alla virtus e alla dignitas, che “hanno fatto del suicidio l’atto filosofico per eccellenza, un privilegio rifiutato agli dèi”, infine i Samurai.
La copertina del libro riproduce la celebre incisione del Durer, Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (1513). “Il solitario Cavaliere del Durer, un sorriso ironico sulle labbra, continua a cavalcare, indifferente e calmo. Al Diavolo egli non accorda uno sguardo”. Dominique Venner si sentiva con ogni evidenza fratello di questo grande ribelle che ha attraversato il tempo e che ancora ci parla. Nonostante ciò, lui che pensava che le grandi civilizzazioni costituissero “pianeti differenti”, non esita a presentarsi anche come un “samurai d’Occidente”, come un adepto dei precetti del Bushido. Uno dei capitoli del suo libro, d’altronde, propone “una deviazione attraverso il Giappone, esempio di completa alterità nei confronti dell’Europa”.
“Esistere significa combattere ciò che mi nega”
“Esistere significa combattere ciò che mi nega” dice ancora Dominique Venner. Dall’invasione programmata delle nostre città alla negazione volontaria della memoria europea, nello scorrere delle pagine egli effettivamente non cessa di scagliarsi contro ciò che lo nega. Mette in causa la “metafisica dell’illimitato”, vale a dire quella dismisura (hybris) per cui l’uomo ha iniziato ad interpellare il mondo confondendo il “più” con il “meglio”. “Se gli Europei hanno potuto accettare per così tanto tempo l’impensabile, è che essi sono stati distrutti dall’interno da un’antichissima cultura della colpa e della sottomissione”, scrive anche, proponendo di opporre a questa cultura un’etica dell’onore: “Desidero che per l’avvenire, dal campanile del mio villaggio come da quelli delle nostre cattedrali, si continui ad udire il suono confortante delle campane. Ma desidero ancor più che cambino le invocazioni intese al di sotto delle volte. Desidero che si cessi di implorare il perdono e la pietà, per invocare vigore, dignità ed energia.”
“La tradizione è ciò che non passa e che sempre ritorna”
Dominique Venner si inscriveva nel mondo della tradizione, termine al quale attibuiva un senso che non è il più corrente. “La tradizione è la sorgente delle energie fondatrici. Essa è l’origine. E l’origine precede l’inizio (…) La tradizione non è il passato, ma al contrario ciò che non passa e che sempre ritorna in forme diverse”. E’ incarnando la tradizione che Antigone si oppone a Creonte, nel nome di una legittimità immemoriale contrapposta alla legalità del disordine stabilito. “Il ribelle (“insoumis”) è in intimo rapporto con la legittimità. Si definisce contro quanto percepisce come illegittimo.”
E’ questa la ragione per la quale Venner rigetta qualsiasi fatalità storica. Quelli che lo hanno conosciuto sanno fino a che punto egli fosse estraneo ai discorsi negativi, alle critiche personali e ai pettegolezzi. Era ugualmente distante dai profeti di sventura che annunciano l’inevitabile declino. Se si rivolge ad un’Europa “entrata in letargia”, è con la certezza che si risveglierà. Martin Heidegger ha scritto che l’uomo è inesauribile, nel senso che contiene sempre come scorta più di quanto non mostri: “vi è sempre riserva di essere”. Venner dice semplicemente: “la storia è il dominio dell’inatteso”. In questo modo, col suo gesto romano, egli ha voluto consegnare un messaggio di protesta (“ confesso il mio disgusto per l’impostura soddisfatta dei potenti ed impotenti signori della nostra decadenza”) ma anche di fondazione- vale a dire, allo stesso tempo, di volontà e di speranza – “di speranza argomentata e ragionata”, come ha scritto Bruno de Cesole.
“La natura come solco, l’eccellenza come fine, la bellezza come orizzonte”
Questo “breviario” non è né un piccolo catechismo né un libro di ricette (anche se l’autore suggerisce qualche consiglio “per esistere e trasmettere”). E’ piuttosto una bussola. Ed una mano tesa per condurci verso le cime, dove l’aria è più viva, le forme divengono più nette, i paesaggi si disvelano, la posta in gioco si manifesta. E’ un invito a divenire ciò che si è. Ed è ancora dall’opera di Omero – di cui gli Antichi dicevano che era “l’inizio, il centro e la fine”- che Dominique Venner estrae questa triade che risuona come una ‘consegna’: “La Natura come solco, l’eccellenza come fine, la bellezza come orizzonte”.
Giunto alla storia attraverso l’osservazione critica del presente, divenuto “storico meditativo” dopo essere stato un combattente, quest’uomo “che offriva una curiosa miscela di acciaio temprato e velluto, di freddezza e di incandescenza, di rigore e di eleganza”( ancora François Bousquet) è diventato con la sua morte un personaggio della storia di Francia – un “uomo illustre” nel senso di un Plutarco. Lo storico fa ormai parte della storia. Leggete il suo testamento.
Alain de Benoist
Traduzione di Mario Cecere
Fonte: http://www.polemia.com/un-samourai-doccident-de-dominique-venner-vu-par-alain-de-benoist/