Jean Cau è stato scrittore dal piglio deciso, uno dei più efficaci polemisti francesi della seconda metà del XX secolo. Autore prolifico di romanzi e pamphlet di successo, è stato considerato, nella prima giovinezza, l’enfant prodige della gauche d’oltralpe. Fu collaboratore di Les temps modernes e di France-Observateur e ciò gli conferì notorietà tra l’intelligentsia progressista. Fu vicino al guru Jean-Paul Sartre e con il romanzo, La pietà di Dio, nel 1961 ottenne il Premio Goncourt. In quel periodo, a ricordarlo è Alain de Benoist: «Lo si incontrava […] sulla terrazza del caffè de Flore. Aveva i capelli lunghi e il foulard attorno al collo», ma nonostante l’atteggiamento esistenzialista, cominciava ad avere in angustia il rivoluzionarismo salottiero e borghese di tanti suoi «compagni».
Il cavallo fu suo prediletto compagno d’infanzia: il nobile quadrupede svolgerà, nell’ immaginario di Cau, un ruolo rilevante, assumendo le fattezze del destriero del Cavaliere di Dürer, icona dell’antimodernismo novecentesco. L’autore francese, cavaliere fuori tempo, lancia, dalle pagine di questo libro, un’accusa durissima. In Occidente è venuta a dominare, incontrastata, la morale degli schiavi: «Essa è stata amplificata, nel secondo dopoguerra, dal novum per eccellenza: il rischio dell’autoestinzione dell’umanità, determinato da un possibile conflitto nucleare» (p. XIII). La paura regna sovrana e ci condanna a vivere inabissati nell’anonimo noi, nel formicaio urbano della pura sopravvivenza, che tiene a debita distanza, con sdegno, le gesta dell’Eroe, del Santo, dell’Artista. Questa pace dell’arrendevolezza, chiosa Cau, svuota la gioventù di ideali, lasciandola preda delle nebbie psichedeliche e della presunta liberazione sessuale: «Nel panico della pace continua, sento magnificare la religione del piacere […] Se il piacere non è anche avventura di tutto il mio essere, io lo rifiuto» (p. XIV). La contestazione giovanile, rileva Cau, ha fornito alla religione del consumo spazi fisici e psichici inimmaginabili determinando, dopo la «morte di Dio», quella dell’uomo.
I nostri contemporanei, come l’ultimo uomo nietzschiano, vivono delle mezze passioni del giorno e della notte, non amano davvero, né odiano: semplicemente co-esistono, sopravvivono nel mare della quantità mercificata offerta loro dall’apparato della tecno-scienza. I giovani non hanno che da scegliere: integrarsi nel sistema dei lavoratori-consumatori o darsi alla protesta sterile, in quegli anni, dice Cau, incarnata dal movimento hippie, ben custodito nella riserva ludico-psichedelica predisposta ad hoc dall’industria culturale. Peraltro, i grandi progetti utopistico-rivoluzionari, si andavano dissolvendo nella melassa della rivoluzione del costume, mirata a scardinare le cellule fondative della comunità: scuola, famiglia, perseguimento del bene comune: «a esclusivo vantaggio della divinizzazione del consumo» (pp. XV-XVI). Nel Sessantotto fu ucciso il Padre, e con esso la Tradizione. In tale contesto si affermò la società gaia: «Una società senza speranza e senza fede che diventa fatalmente una società di tolleranza» (p. XVI). Tutto viene tollerato in questo mondo della co-esistenza, tranne i reprobi che mettono in discussione i principi costitutivi della contemporaneità. Un uomo come Cau, non poteva, pertanto, che essere in lotta con il proprio tempo.
Per questo, lo scrittore ci esorta a: «pensare l’opposto dell’opinione prevalente» (p. XVII), il che implica la difesa dell’eccezione e della bellezza, di contro alla diffusa esaltazione dell’eguaglianza e al perseguimento dell’orrido in ogni ambito della produzione umana. Cau invita i suoi lettori a «coltivarsi», in quanto essere colti vuol dire amare e comprendere il passato, rapportarsi in modo sintonico ai ritmi della vita e della natura. Del resto, la debolezza spirituale del tempo presente è paradigmaticamente impressa sui volti degli attuali politici: «C’è nel loro sguardo la repellente, floscia amabilità del venditore che si augura di rifilarvi un paio di scarpe» (p. XVIII). Al contrario, l’autore francese è convinto, con Carlyle, che la storia sia la creazione di grandi uomini, capaci di evocare valori spirituali e di farsi interpreti dell’ethos di una stirpe. E’, quindi, uno stile areteico, virtuoso, quello cui Cau chiama i pochi dalla «schiena dritta» di questo tempo ultimo. Essi devono vivere, proprio come l’autore del libro che abbiamo presentato,«senza ritegno». La mancanza di ritegno dell’Eroe, di colui che si spende per l’ideale, coincide con la qualità propria dell’uomo che non si arrende al regno della quantità, nel quale da troppo tempo siamo immersi.
Giacomo Rossi