E’ quasi sorprendente dover ritornare sul tema delle origini dopo tutto quello che abbiamo già visto sull’argomento. Io credo di aver tracciato al riguardo un quadro sufficientemente chiaro e che non vedo alcun motivo di modificare, tuttavia le cose da dire sono ancora tante.
La cosa dovrebbe essere ovvia, ma per chiarezza e correttezza sarà bene spiegarla una volta di più: la questione delle origini è strettamente connessa alla problematica razziale, infatti, le razze umane così come sono attualmente e la cui esistenza l’ideologia democratica oggi dominante si sforza in tutti i modi di negare, sono ovviamente il risultato della storia, del cammino nel tempo della nostra specie.
Chiaramente, se noi europei fossimo, ad esempio, come si è sostenuto e si sostiene da parte democratica, il prodotto di un’immigrazione africana recente, le differenze fra noi e le popolazioni africane si limiterebbero forse alla pigmentazione della pelle e poco altro, mentre in realtà sappiamo che non è così.
In tutte le specie animali ci sono razze, perché quella umana non dovrebbe averne? Il motivo è squisitamente ideologico, se ne ammettiamo l’esistenza, dovremmo ammettere che le differenze ereditarie fra le diverse popolazioni umane non riguardano solo l’aspetto fisico, ma anche le attitudini comportamentali e le capacità intellettive, che le differenze che riscontriamo fra uomo e uomo non sono per intero il prodotto dell’ambiente e dell’educazione, e a questo punto il dogma democratico dell’uguaglianza crolla miseramente.
Per questi motivi, stavolta l’aggiornamento del lavoro della nostra Ahnenerbe casalinga, più che la tematica delle origini in senso stretto, riguarderà la problematica razziale.
Tutti noi conosciamo – penso – la vicenda di Galileo Galilei che fu uno degli episodi più drammatici della storia della scienza. Nel 1633, in seguito alla pubblicazione del “Dialogo dei Massimi Sistemi”, Galileo finì davanti al tribunale dell’inquisizione, che fu particolarmente duro nei suoi confronti perché nel 1616 aveva già ricevuto un’ingiunzione a non divulgare la teoria copernicana.
Ora immaginate che Galileo, invece di essere il coraggioso ribelle che fu, si fosse adeguato a quanto l’inquisizione e lo spirito censorio della controriforma pretendevano da lui. Con tutta probabilità, avrebbe cercato di non diffondere il copernicanesimo ma, essendo uno scienziato onesto e competente, la verità sarebbe trapelata quasi da ogni sua parola, e non sarebbe stato difficile “leggerla tra le righe”.
Il grande tabù della nostra epoca oggi non è la teoria di Copernico. Che il nostro pianeta giri intorno al sole, è un fatto assodato quasi per tutti (fanno per la verità eccezione gli islamici estremisti che lo negano in base a un passo del corano. Che l’islam sia un soprassalto di ignoranza e fanatismo fra le popolazioni meno acculturate di questo pianeta, questo è un fatto indubbio, e quei tradizionalisti, a cominciare da René Guenon, che vedono nell’islam una forza “tradizionale” probabilmente non si rendono conto a quale livello abbassano il concetto di tradizione, ma questo è un discorso che abbiamo ampiamente visto altre volte).
Il grande tabù della nostra epoca è la questione razziale. L’ortodossia democratica, i cui metodi sono indubbiamente più sottili ma non meno coercitivi, non meno in grado di distruggere la carriera e la vita delle persone di quanto lo fosse il tribunale dell’inquisizione, vuole imporci di non vedere l’esistenza delle razze – stranamente, in tutto il mondo animale, la specie umana sarebbe l’unica in cui non esistono razze – esattamente come l’inquisizione della controriforma pretendeva che non ci si rendesse conto che la nostra Terra e tutti gli altri pianeti del nostro sistema ruotano intorno al sole.
Un esempio di “Galileo consenziente” in questo campo potrebbe essere Luigi Luca Cavalli-Sforza, che è stato un pioniere nello studio della genetica delle popolazioni, e fa parte di una generazione di insigni ricercatori italiani che non è molto probabile sia destinata ad avere successori, stante il degrado delle nostre istituzioni accademiche e il pochissimo che l’Italia investe nella ricerca.
Mercoledì 5 novembre, “The Vice Channel Italia” ha pubblicato un’intervista a Cavalli-Sforza nell’occasione del novantaduesimo compleanno dello scienziato. Apparentemente, le sue affermazioni sono quanto di più ortodossamente antirazzista è possibile concepire, ma leggendo con attenzione fra le righe, si colgono i segni di una convinzione ben diversa, da parte di un uomo che ha dedicato la sua vita a questo genere di studi, in contrasto con l’ortodossia che “occorre” proclamare.
Tanto per cominciare, riflettendo le idee espresse da Cavalli-Sforza, l’articolo s’intitola “La sopravvivenza del più colto”. La cultura, la trasmissione di idee è un elemento di grande importanza nella storia umana, e oggi possiamo constatare quanto tende ad essere sottovalutata, sostituita dal fracasso mediatico e dall’esibizione di forza muscolare.
Come se non bastasse, sapete chi cita Cavalli-Sforza come grande esempio di grande sovrano promotore della cultura? Qualcuno a noi molto caro e da sempre inviso ai guelfi di ogni specie: il grande Federico II di Svevia.
Passiamo oltre: lo scienziato si lascia scappare un’osservazione che un “buon” inquisitore democratico (e sappiamo che ce ne sono a pacchi) dovrebbe avvertire come un campanello d’allarme:
“Le differenze veramente importanti vigono fra gli individui, non fra i gruppi”. Se è vero, e tutto lascia pensare che lo sia, diamo addio all’idea di evoluzione dell’umanità come fenomeno collettivo. Di colpo, ci torna alla mente Nietzsche che, non con il metodo scientifico, ma con l’intuizione poetica e il pensiero filosofico, è stato un geniale anticipatore:
“Lo scopo dell’umanità non può trovarsi al termine di essa, ma nei suoi tipi più elevati”.
Dal racconto che lo scienziato fa della storia delle sue ricerche, emergono fatti che è poco definire sconcertanti: ad esempio ricorda che per studiare il genoma della popolazione italiana occorsero tre anni, ma, quando si tratto di avviare nel 1991 l’ “Human Genome Diversity Project”, ce ne vollero dieci solo per definire il protocollo etico. Non c’è dubbio, la genetica e quello che potrebbe rivelarci su noi stessi, FANNO PAURA, fanno paura soprattutto al potere, perché potrebbero distruggere le favole democratiche.
Un altro episodio lo conferma: un progetto di studio sul DNA degli indiani Na-Dene del Canada fu aspramente avversato da un’associazione per la difesa dei diritti dei nativi americani, che l’accusò di essere “colonialista”, cosa tanto più assurda vista la fama di ricercatore “antirazzista” dello stesso Cavalli-Sforza. Ma non c’è niente da fare, ricerche di questo tipo fanno paura, anche perché sotto sotto c’è il timore generalizzato che da esse potrebbe uscire la verità che tutti, almeno a livello istintivo, conoscono ma nessuno vuole ammettere: l’eccellenza dell’uomo caucasico rispetto ad altri tipi umani.
Infine, la ciliegina sulla torta, una breve frase: “Etnia o razza vogliono dire quasi la stessa cosa”.
Ma come? Per decenni tutta l’antropologia culturale si è sforzata di spiegarci che il concetto di etnia è un concetto culturale che non ha nulla a che fare con l’ereditarietà biologica e la genetica, che a fare l’etnia sono il linguaggio, il modo di vestirsi, le credenze religiose, le usanze culturali e via dicendo, e questo qui, con una semplice frasetta spazza via decenni di elucubrazioni di Claude Levi-Strauss e allievi!
Non ci fermiamo qui, perché recentemente qualcuno, e precisamente gli amici del gruppo European and Indoeuropean Identity and Ethnic Religions, hanno rimesso in circolazione in internet un articolo apparso su La Repubblica.it del 2005. L’articolo di Armand Marie Leroi e tradotto da Emilia Benghi, ha un titolo che è tutto un programma (e almeno per questa volta, non si tratta certo di un programma di sinistra): “Razza: gli scienziati negano che esista, ma i dati genetici lo confermano”.
In realtà, noi sappiamo bene che se gli scienziati negano l’esistenza delle razze, questo non avviene per una loro particolare perversione o voglia di contrastare l’evidenza, ma – e ne abbiamo visto le volte precedenti diversi esempi che adesso non mi sembra necessario ripetere – perché costretti dal potere democratico che può “democraticamente” distruggere le loro carriere con estrema facilità.
L’articolo di Leroi è alquanto sorprendente, e tanto per essere chiari ne riporto uno stralcio:
“Se i moderni antropologi citano il concetto di razza, lo fanno invariabilmente solo per scoraggiarne l’uso e per bocciarlo. Lo stesso vale per molti genetisti. «La razza è un concetto sociale, non scientifico», sostiene il dottor Craig Venter, voce autorevole, poiché è stato il primo a “sequenziare” il genoma umano. L’ idea che le razze umane non siano altro che costrutti sociali è opinione prevalente da almeno trent’anni. Ma ora forse le cose sono sul punto di cambiare. Lo scorso autunno la prestigiosa rivista Nature Genetics ha dedicato un ampio supplemento all’interrogativo se le razze umane esistano e, in caso affermativo, che valenza abbiano.
L’ iniziativa editoriale era motivata in parte dal fatto che varie istituzioni sanitarie americane stanno attribuendo alla razza un ruolo importante nelle politiche per tutelare al meglio il pubblico, spesso a dispetto delle proteste degli scienziati. Nel supplemento circa due dozzine di genetisti hanno espresso le loro opinioni. Sotto il linguaggio specialistico, le frasi prudenti e la cortesia accademica, emerge chiaramente un dato: l’adesione alla tesi dei costrutti sociali si sta sfaldando. Alcuni sostengono addirittura che, se correttamente esaminati, i dati genetici dimostrano chiaramente che le razze esistono”.
Quanto sia autorevole il parere di Craig Venter, adesso lo sappiamo bene: quest’uomo, capofila degli scienziati antirazzisti si è (successivamente alla pubblicazione dell’articolo di Leroi che è del 2005, per la verità) rivelato niente altro che un ciarlatano. A una decina di anni di distanza dalla famosa mappatura del DNA umano del 2001, ha confessato di non aver mappato altro genoma che il proprio, e non – come aveva asserito – quello di centinaia di persone appartenenti alle più diverse popolazioni del pianeta, e successivamente ha ancor più compromesso la propria credibilità scientifica cercando di far passare un semplice batterio OGM come una vita artificiale creata ex novo.
Se gli antirazzisti fanno conto dell’autorevolezza di un uomo come Craig Venter, allora possiamo dormire sonni tranquilli, o almeno potremmo dormirli se il confronto fra loro e noi avvenisse su di una base paritaria, e alle loro spalle non ci fosse tutto il peso repressivo della macchina del potere, interessata a far sì che la gente non abbia modo di conoscere la verità.
Continuiamo ad esaminare questo articolo che contiene delle affermazioni davvero sorprendenti, si ha la sensazione che i redattori di “Repubblica” non si siano resi conto di cosa stessero pubblicando, e io penso di dover esprimere tutta la mia gratitudine agli amici che hanno ripescato dopo nove anni e mi hanno segnalato questo articolo davvero eccezionale:
“La razza è solo una semplificazione che ci consente di parlare razionalmente, benché non con grande precisione, delle differenze genetiche, piuttosto che culturali o politiche. Ma è una semplificazione a quanto pare necessaria. E’ particolarmente penoso vedere i genetisti umani rinnegare ipocritamente l’ esistenza delle razze pur indagando la relazione genetica tra «gruppi etnici». (…).
Il riconoscimento dell’esistenza delle razze dovrebbe avere vari effetti positivi. Tanto per cominciare eliminerebbe la frattura che vede governi e opinione pubblica ugualmente pronti ad accettare categorie di cui molti, forse la maggior parte degli studiosi e degli scienziati, negano l’esistenza. Secondo, ammettere l’esistenza delle razze può migliorare l’assistenza sanitaria. Razze diverse sono predisposte a contrarre patologie diverse. Un afroamericano corre un rischio di ammalarsi di cardiopatia ipertensiva o di cancro della prostata circa tre volte maggiore rispetto ad un americano di origini europee, ma nel suo caso il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è dimezzato. Tali differenze potrebbero derivare da fattori socioeconomici, ma nonostante ciò i genetisti hanno iniziato a cercare di stabilire differenze legate alla razza nelle frequenze delle variabili genetiche che provocano le malattie. Sembra che le stiano trovando.
La razza può anche influenzare la terapia. Gli afroamericani rispondono poco ad alcuni dei farmaci principalmente usati nel trattamento delle cardiopatie – in particolare i betabloccanti e gli inibitori dell’enzima che converte l’angiotensina. Le ditte farmaceutiche ne tengono conto. Molti nuovi farmaci oggi portano l’ avvertenza che la loro efficacia può risultare ridotta per alcuni gruppi etnici o razziali”.
Queste ultime affermazioni appaiono alquanto utopiche: certamente per il potere “democratico” la salute della gente conta enormemente di meno del mantenimento del dogma dell’inesistenza delle razze, e della spinta al mescolamento razziale, in obbedienza ai dettami del piano Kalergi.
Alla fine, il discorso è sempre quello, SI VUOLE che la gente pensi contro ogni evidenza che le razze non esistano per imporre una società meticcia frutto del mescolamento etnico, una società dove l’atomizzazione dell’individuo sia completa, non esistendo fra l’uno e l’altro alcun legame di etnia, di nazionalità, di appartenenza, quindi un’umanità facilmente manipolabile dal potere dietro le quinte.
La menzogna serve all’oppressione, e difendere la verità, la conoscenza della realtà delle cose, è il primo passo per difendere la libertà.
Fabio Calabrese
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