Un proverbio inglese recita: “The power of the press is to suppress”, il potere della stampa è sopprimere (le notizie). Nella nostra epoca mediatica non c’è alcun bisogno di una censura dichiarata per evitare che conoscenze “scomode” e voci di dissenso arrivino al grosso pubblico, è sufficiente che esse siano sommerse da una marea di notizie futili e irrilevanti. Naturalmente, oggi ciò è più vero rispetto a un recente passato in cui i media erano rappresentati soprattutto dalla stampa. La televisione e internet costituiscono eccellenti armi di distrazione di massa.
Occorre, per capire come stiano realmente le cose, un’attenta e paziente analisi, che non è certo alla portata di tutti, di quel che si può trovare soprattutto in internet, che non è un mare magnum, quanto piuttosto un oceano immenso. E tuttavia, per quanto riguarda le tematiche che ci interessano, è difficile evitare l’impressione di trovarsi di fronte a una pentola in ebollizione, dove il coperchio dell’ideologia ufficiale fa sempre più fatica a contenere i vapori dei nuovi dati e delle nuove conoscenze che la contraddicono in maniera sempre più vistosa.
Anche questa volta, setacciando la rete, emerge un bottino non trascurabile. Il sito “All Design Ideas” (alldesignideas.com) da il 21 marzo una notizia interessante: il ritrovamento dello scheletro pressoché completo di un uomo vissuto in Spagna 4.500 anni fa, i cui resti sono stati studiati da ricercatori dell’Università di Barcellona e di quella svedese di Gothenburg. L’analisi del DNA ha sorpreso i genetisti, perché l’uomo era portatore di un aplogruppo del cromosoma Y che non corrisponde a nessuno di quelli oggi esistenti.
Il cromosoma Y, lo ricordiamo, è quello che determina il sesso maschile, e si trasmette di padre in figlio maschio.
In realtà, una simile scoperta non è del tutto inedita, ma viene a inserirsi in un quadro che si va delineando già da tempo. A quanto pare, a partire da circa 6-5.000 anni fa, noi constatiamo una brusca diminuzione della varietà degli aplogruppi del cromosoma Y che sono giunti fino a noi. In termini semplici, noi abbiamo la stessa varietà nell’ascendenza materna degli uomini del paleolitico, ma discendiamo da un numero ridotto di padri. Questo fenomeno si riscontra parallelamente o è di poco successivo alla diffusione dell’agricoltura.
In ciò davvero non c’è nulla di misterioso: con l’agricoltura e la sedentarizzazione, il possesso stabile di un territorio diventa essenziale per la sopravvivenza delle comunità umane, e si diffonde il fenomeno della guerra, che falcidia la popolazione maschile. Non che tra le tribù di cacciatori-raccoglitori non si verificassero scontri anche estremamente feroci (ne abbiamo trovate le tracce, e possiamo essere certi che il “buon selvaggio” farneticato da Rousseau non è mai esistito), ma si trattava di episodi di natura forzatamente limitata.
C’è un punto che va sottolineato: fino alla nostra epoca tecnologica che ha reso il combattimento qualcosa di del tutto impersonale, a distanza, l’onere di difendere le comunità e la prerogativa di portare le armi sono sempre o quasi sempre stati un appannaggio maschile.
Ciò non è legato tanto alla differenza di forza fisica fra uomo e donna, e non rappresenta un esempio di potere “maschilista” sulla componente femminile della società, ma dipende da un ineludibile fatto biologico: nel tempo occorrente a una donna per portare a termine una gravidanza, un uomo potrebbe fecondare dozzine di donne, e questo lo rende facilmente rimpiazzabile da un altro uomo che può fare altrettanto.
Il tasso di fecondità di una popolazione dipende dal numero di donne in età fertile, e questo le rende un “capitale biologico” troppo prezioso per essere arrischiato sui campi di battaglia.
In alcune tombe scitiche sono stati trovati scheletri femminili con un corredo funebre di armi, e questo fa pensare che la leggenda delle Amazzoni possa avere un fondo di verità storico, ma la cosa rimane un’eccezione, e il modello “amazzone” è perdente in termini di genetica delle popolazioni.
Se andate a vedere quella che è oggi la produzione narrativa di heroic fantasy, vedete che le guerriere e le eroine abbondano, ma si tratta di una mistificazione dello stesso tipo di quella che impone di rappresentare come multietniche e multirazziali le società europee del passato, in totale spregio dei fatti storici.
Anni fa, stavo cercando un editore per il mio romanzo di heroic fantasy La spada di Dunnland più tardi pubblicato dalle Edizioni Scudo, mi imbattei in un’editrice femminista che mi disse che me lo avrebbe pubblicato a condizione che ci inserissi una tribù di amazzoni. Le risposi di andare al diavolo.
Questa vicenda ci insegna anche un’altra cosa: provatevi a mettervi nei panni di un agricoltore neolitico: la vostra sopravvivenza dipende dai frutti di un raccolto che richiede una fatica diuturna e che, se non state ben attenti, qualcuno potrebbe portarvi via condannando a morte voi e la vostra famiglia, perché i margini di sussistenza sono scarsi. Non lo difendereste con le unghie e coi denti?
Da dove viene allora la favola tante volte ripetuta del pacifico agricoltore? In parte è un’eco della fanfaluca rousseauiana del buon selvaggio a cui sembra che la sinistra non possa proprio rinunciare come a una tabe di pensiero congenita, ma soprattutto è stata creata per contrastare l’idea dell’origine degli Indoeuropei da popolazioni nomadi, guerriere e conquistatrici, è la classica “verità scientifica” imposta come dogma e non basata sui fatti ma solo sul capovolgimento di tutto ciò che è stato pensato in Europa fra le due guerre mondiali.
HOMO HOMINI LUPUS: La realtà dei fatti da ragione a Plauto, Machiavelli e Hobbes e torto a Rousseau e Marx, e smentisce tutte le mistificazioni della “nostra” sinistra democrazia.
La prima di tutte queste mistificazioni è la presunzione dell’inesistenza delle razze umane: ogni specie animale e vegetale è suddivisa in razze, sottospecie, varietà, la nostra farebbe curiosamente eccezione. Questa presunzione, questo dogma trova un’evidente confutazione, l’abbiamo visto la volta scorsa, nel fatto che le differenze razziali hanno anche importanti implicazioni mediche, ma cosa volete che conti la salute della gente in confronto alla salvaguardia dei dogmi della democrazia?
Oltre allo studio citato nella novantaquattresima parte, se ne possono menzionare altri due, uno, non recentissimo, pubblicato nell’agosto 2014 su PubMed (pubmed.gov), un periodico medico, a firma di Adriana Vidal della Duke University School of Medicine, si occupa di neoplasie ginecologiche, e rileva che il carcinoma del collo dell’utero, a parità di tutte le altre condizioni, presenta un’incidenza notevolmente più alta nelle donne di origine africana.
L’altro studio, anch’esso non recente, risale al 27 agosto 2013, e si occupa anch’esso di un argomento oncologico, pubblicato in questa data su “Medical News Today”, ci parla di Differenze razziali-etniche nei giovani col cancro, ed è firmato da Mei-Chin Hsieh del Louisiana Health Sciences Center di New Orleans (Un bel nome asiatico che ci dimostra subito che non è certo con un suprematista bianco che abbiamo a che fare).
Secondo una ricerca statistica condotta sui giovani americani tra i 15 e i 29 anni affetti da tumore, risulta che i giovani afroamericani hanno un’incidenza significativamente più alta di tumori dei tessuti molli, in particolare del linfoma di Hogkins.
Immaginate di sottoporre i dati di queste due ricerche a un buon democratico. Ammetterà che gli afroamericani sono razzialmente più vulnerabili a determinati tipi di neoplasie? No, probabilmente vi dirà che è il cancro che è razzista.
Di questi tempi, quasi a sorpresa, si torna a parlare di indoeuropei e di iperborei. Se andiamo a vedere cosa offre di nuovi testi sull’argomento Amazon (in lingua inglese), troviamo almeno tre libri: The Varieties of the human Species (Le varietà della specie umana) di Giuseppe Sergi, The Uniqueness of Western Civilisation (L’unicità della civiltà occidentale) di Ricardo Duchesne, docente di sociologia all’Università di New Brunswick, Saint John, Canada, e The Origins of the Aryans (Le origini degli Ariani) di Isaac Taylor.
Il testo di Sergi recupera un concetto basilare che sarebbe dirompente se non venisse espresso in termini di basso profilo (sempre l’esigenza di dotarsi di un parafulmine quando ci si occupa di queste cose): la specie umana non è solo suddivisa in varietà (quelle che comunemente si chiamano razze), ma questo ha un’influenza diretta sul suo sviluppo culturale. A essere più chiari di così, si va incontro a grosse disgrazie.
Ricardo Duchesne è un sociologo, e il suo testo vuole essere precisamente una risposta al multiculturalismo imperante oggi in America (ma anche da noi) che impone di minimizzare il ruolo del mondo europeo-occidentale nella creazione della civiltà, a favore di culture “altre” più o meno “colorate”. Ciò che possiamo chiamare “la civiltà” è invece pressoché per intero la creazione dei popoli “occidentali” parlanti – precisa l’autore – lingue indoeuropee. L’unico appunto che ci sarebbe da fare, ma d’altra parte è scusabile un tale errore da parte di chi vive in America (anche se non negli USA ma in Canada, e questo fa probabilmente una differenza da considerare), è che non si dovrebbe parlare di civiltà “occidentale” ma europea, e che “la cultura” made in USA non ne è che un sottoprodotto degenere, che oggi si vuole imporre anche a noi proprio per distruggere l’originalità dell’Europa, ma è probabilmente superfluo ricordare ciò che ha scritto in proposito Sergio Gozzoli, e che ha più modestamente ribadito diverse volte anche il sottoscritto.
Il libro di Taylor (di cui l’unica definizione biografica fornita da Amazon, è “canonico di York”, possiamo allora supporre che si tratti di un inglese e di un ecclesiastico) è un’ampia rassegna degli antichi popoli indoeuropei e della loro cultura. Amazon peraltro precisa che si tratta di un libro fuori stampa di cui è ancora disponibile un numero limitato di copie. Il che porta a supporre che questo testo sia stato scritto prima che la political correctness, cioè IL BAVAGLIO che la democrazia mette alla libera espressione delle idee, rendesse la parola “ariani” tabù.
Taylor tuttavia evidenzia che a suo parere la parola “ariani” dovrebbe indicare soltanto l’affinità linguistica tra i popoli parlanti le lingue indoeuropee e non implicherebbe alcun contenuto razziale. Questo è un discorso che abbiamo visto più volte: si tratta di una distinzione fasulla perché le società multietniche sono una mostruosità dell’epoca moderna, e man mano che si risale indietro nel tempo, si può considerare sempre più sicura la corrispondenza fra lingua ed etnia.
C’è poi da segnalare un saggio di J. G. Bennett pubblicato in “Systematics” 1/3 (systematics.org): The Hyperborean Origin of the indo-european Culture (Le origini iperboree della cultura indoeuropea). L’autore si rifà alle tesi di Tilak, che ha osservato che nei Veda sono descritti fenomeni astronomici che si sarebbero potuti osservare solo alle latitudini artiche. La patria originaria, l’Urheimat indoeuropea sarebbe stata appunto situata nel nord iperboreo fino a diecimila anni fa, quando quelle regioni, oggi sepolte sotto una cappa glaciale, godevano di un clima temperato, mentre quella che è oggi la fascia boreale temperata era invece stretta dalla morsa della glaciazione. E’ anche questa una tesi di cui ho avuto modo di parlare più volte, e abbiamo visto che gli indizi in questo senso non mancano.
A questo proposito, si può anche ricordare un articolo di Annalisa Lo Monaco non recentissimo, comparso su “Vanilla Magazine” il 30 marzo 2016. In esso, l’autrice ci spiega che circa 14.500 anni fa (la datazione di 10.000 anni ipotizzata da Bennett, in effetti sembra un po’ troppo recente), in coincidenza con i cambiamenti climatici che hanno caratterizzato la fine dell’età glaciale, stando a quanto ci testimonia la genetica, ci sarebbe stato un notevole cambiamento nella popolazione europea, con la scomparsa di diversi lignaggi, e la comparsa di nuovi. Secondo l’autrice, questi nuovi lignaggi che compaiono all’improvviso, potrebbero aver avuto origine da gruppi di popolazione rimasti isolati in aree ristrette durante il periodo glaciale. E se invece si trattasse di gente discesa da nord, iperborei appunto?
Nemmeno a farlo apposta, proprio in questo periodo, dal 6 aprile al 22 settembre ad Ardeche in Francia, al museo della grotta Chauvet 2, famosa per le pitture rupestri di leoni, si tiene la mostra “Leoni e uomini”, e il 2 aprile ha fatto sensazione l’invio da parte della Russia della mummia di un cucciolo di leone delle caverne risalente a 46.500 anni fa rinvenuta nel permafrost siberiano.
Noi sappiamo che all’epoca la Siberia ospitava una megafauna che oggi non vi potrebbe assolutamente sopravvivere, il permafrost ci ha restituito le carcasse di mammut, rinoceronti lanosi, cavalli. Ovvio dunque che ci fossero anche i predatori, e questo testimonia un clima molto diverso da quello attuale, senz’altro di gran lunga più propizio all’insediamento umano, e questo da al mito iperboreo una sempre maggiore concretezza.
Parlando di Iperborei, forse sarà bene prendere in considerazione anche l’ipotesi formulata dal ricercatore romeno Vasile Droj in un articolo pubblicato sul sito “Universology”, in cui propone una collocazione di Iperborea decisamente alternativa a quella artica. Secondo la sua opinione, essa sarebbe da identificare con la cultura del Danubio, localizzata in aree che fanno parte della Romania attuale (chiaramente, un po’ di sciovinismo nazionale c’è) e alla quale si deve la più antica scrittura conosciuta al mondo, rappresentata dalle tavolette di Tartaria. Non è un’ipotesi del tutto campata in aria: per gli antichi Greci, insediati nella Penisola ellenica e tutti volti nel Mediterraneo con l’attività marittima, tutto ciò che si trova al disopra del Danubio, poteva ben essere “il lontano nord”.
Io ricordo sempre che per non prestare il fianco a critiche prevedibili, è bene avere sempre presenti gli ordini di grandezza temporali che coprono quella vastissima estensione di tempo che va dalle origini della nostra specie all’inizio della storia documentata. L’orizzonte temporale nel quale ci siamo prevalentemente mossi stavolta non è quello delle centinaia di migliaia di anni in cui possiamo cercare le origini della nostra specie, ma quello delle decine di migliaia di anni riguardante l’origine dei popoli indoeuropei, dei nostri antenati più diretti, tuttavia vediamo bene che anche in questo caso gli indizi non puntano verso le savane africane né verso il Medio Oriente, ma verso il settentrione eurasiatico, quel nord così (stranamente) misconosciuto dalla storia delle nostre origini come ci viene raccontata da tre quarti di secolo.
NOTA:
L’illustrazione che correda questo articolo richiede qualche parola di spiegazione in più del solito, si tratta di un’immagine in un certo modo storica, essa infatti faceva da frontespizio all’articolo pubblicato sul sito “Nibiru 2012” che per primo ha portato a conoscenza del pubblico italiano le piramidi della penisola di Kola per le quali la stampa russa ha parlato di Iperborea, e che rappresenterebbero la prima testimonianza archeologica di un’antica cultura situata nell’area artica. Essa tuttavia, come si può facilmente appurare con una ricerca tramite Google immagini, non riproduce manufatti ritrovati a Kola, ma è ispirata alle statue-idoli o stele funerarie che si ritrovano nelle steppe del Kazakistan, dell’Altaj, fino allo Xinjiang cinese e sono dette balbas o balbal che in lingua kazaza significherebbe “guardie di pietra”, un altro rompicapo su cui gli archeologi tutti concentrati sul Medio Oriente, si sono guardati bene dall’indagare.
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