11 Ottobre 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, novantatreesima parte – Fabio Calabrese

In un arco ormai di anni sto portando avanti questa serie di articoli, che di fatto è una rubrica sulle pagine di “Ereticamente”, e ormai anche il centesimo numero, la tripla cifra non appare un obiettivo troppo distante, e tuttavia sono il primo a non cessare di stupirmene, è mai possibile che su un terreno scientifico specialistico come è quello della tematica delle origini, le novità, le scoperte si susseguano come nella politica, nelle cronache sportive, nella moda, nel gossip?

In parte, il mistero si spiega proprio per il fatto che la tematica delle origini è investita da una mistificazione ideologica che ha delle precise finalità politiche, poiché l’idea su da dove veniamo è una parte fondamentale dell’idea su chi siamo, ecco le menzogne “scientifiche” del sistema che pongono l’origine dell’umanità in Africa, che ci raccontano che i nostri antenati indoeuropei erano agricoltori provenienti dal Medio Oriente, che sempre in Medio Oriente è nata la civiltà che solo lentamente avrebbe “contagiato” l’Europa, che gli Italiani sarebbero accomunati dal fatto di essere nati nella Penisola e da un lieve collante culturale, ma da nessuna affinità genetica ed etnica, tutte menzogne che hanno il preciso scopo di nascondere il danno rappresentato dall’immigrazione per i popoli che la subiscono, per nascondere che il futuro che ci hanno riservato è la morte per sostituzione etnica.

Lo spirito è dunque quello di una battaglia politica. Io sono più che certo che persone come me o Michele Ruzzai, non troveranno mai spazio ad esempio su “Le Scienze”, ma non è questo che ci farà desistere.

Cominciamo con quella che a mio parere è una vera chicca: recentemente il sito in lingua inglese “Genetic Literacy Project” (geneticliteracyproject.org) ha riproposto un articolo di David Reich apparso sul “New York Times” in data 28 marzo 2018 dal titolo (ve lo traduco in italiano) “Razza” potrà anche essere un costrutto sociale, ma negare le differenze fra i gruppi umani è indifendibile. E’ bene precisare subito che David Reich è docente di genetica all’università di Harvard, e considerato uno dei più eminenti genetisti oggi attivi negli Stati Uniti, e che il “New York Times” non è certamente né un giornaletto di provincia né una pubblicazione dell’estrema destra. Il contenuto dell’articolo è parecchio dirompente, vediamone uno stralcio:

“Con l’aiuto dei progressi nel sequenziamento del DNA, stiamo imparando che, mentre la razza può essere definita da alcuni un costrutto sociale, le differenze nell’ascendenza genetica che sono correlate a molti dei costrutti razziali di oggi sono reali.
Sono preoccupato che le persone ben intenzionate che negano la possibilità di sostanziali differenze biologiche tra le popolazioni umane si stiano scavando una posizione indifendibile, che non sopravviverà all’assalto della scienza…
Dovremmo prepararci alla probabilità che nei prossimi anni gli studi genetici mostrino che molti tratti sono influenzati da variazioni genetiche e che questi tratti differiscono in media tra le popolazioni umane Sarà impossibile – anzi, anti-scientifico, sciocco e assurdo – negare queste differenze.”

E’ chiaro cosa significa ciò? In altre parole: per il sistema di psicopolizia orwelliano che domina la cosiddetta democrazia la parola “razza” deve continuare a rimanere tabù, ma la genetica sta confermando le differenze (biologiche, non culturali) fra i gruppi umani teorizzate dal pensiero “razzista” (cioè basato sulla realtà piuttosto che sulle buone intenzioni) quale era diffuso fino al 1945, e negare queste differenze è indifendibile. C’è da temere che dopo queste oneste ammissioni, David Reich rischi di trovarsi nella stessa scomoda posizione di James Watson e di molti altri che hanno preferito dire la verità piuttosto che accodarsi alle menzogne democratiche.


Da alcuni anni, la Cina e l’Asia orientale si stanno rivelando una miniera di informazioni molto preziose per quanto riguarda la preistoria, andando dai dinosauri fino al rinvenimento di fossili umani. Un articolo recentemente apparso su “Nature Communications” ci da una notizia davvero sorprendente. Una calotta cranica rinvenuta in Mongolia nella valle di Salkhit, ha messo a lungo in imbarazzo i ricercatori per il suo avere un aspetto francamente moderno, e contemporaneamente una notevole antichità. Provvisoriamente, il fossile è stato denominato Mongolanthropus. Ora, abbiamo avuto quasi in contemporanea un’analisi al radiocarbonio condotta presso l’università di Oxford e un’analisi del DNA presso l’Istituto Max Planck di Lipsia, quest’ultima affidata al team di Svante Paabo, il fondatore della paleogenetica. I risultati sono piuttosto sorprendenti. Il radiocarbonio ha rivelato che il cosiddetto Mongolanthropus ha un’età compresa tra i 34 e i 35.000 anni, mentre l’analisi del DNA ha dimostrato che si tratta di un homo sapiens di tipo anatomicamente moderno a tutti gli effetti.

Tuttavia “Nature Communications” ricorda che sebbene il fossile di Salkhit sia il più antico homo sapiens ritrovato in Mongolia, la sua antichità è largamente superata da fossili cinesi che si situano attorno ai centomila anni or sono. E’ chiaro che queste scoperte mettono l’Out of Africa in difficoltà sempre crescenti, e tendono a indicare l’Eurasia e non l’Africa come luogo di origine della nostra specie. Giusto la volta scorsa vi ho parlato di un fossile umano rinvenuto in Cina quello del “ragazzo di Xujiayao”, che assieme a caratteristiche primitive ne mostra altre prettamente sapiens, e a cui l’analisi al radiocarbonio attribuisce una datazione oscillante tra 104.000 e 248.000 anni. E’ chiaro che, soprattutto se fosse confermata la valutazione più alta, per l’Out of Africa non ci sarebbe proprio partita, o perlomeno non ve ne sarebbe se questa “teoria” mille volte smentita dai fatti non fosse in ogni caso sostenuta a spada tratta dalle vestali dell’antirazzismo.

A metà febbraio una notizia ha seminato lo sconcerto nel web: la televisione svedese ha mandato in onda un documentario sui “primi svedesi” dove questi antichi scandinavi sono rappresentati con la pelle scura praticamente subsahariana. Non è difficile ricordare che anche la ricostruzione dell’uomo di Cheddar, il “primo inglese” fu sottoposta ad un analogo “scurimento” politicamente corretto, e che ancora prima i censori, le vestali della bugiarda ortodossia democratica avevano protestato perché la ricostruzione del volto della regina egizia Nefertiti era “troppo bianca”.

Naturalmente, sono idee che non trovano nessun appoggio “scientifico” se non il dogma di una recente origine africana della nostra specie, e sono dettate unicamente dal desiderio di blandire gli invasori melanodermi. Qualche tempo fa, ho ricordato uno studio del genetista Ibtesam Reatz, forse il maggior esperto mondiale di pigmentazione umana, secondo il quale gli Europei del remoto passato non sarebbero stati più scuri di quelli di oggi.

Noi abbiamo visto che sempre più spesso nelle fiction hollywoodiane, cinematografiche o televisive, il ruolo di personaggi storici o leggendari della storia europea viene affidato ad attori di colore. Adesso che questa tendenza compare anche nei documentari e nelle ricostruzioni storiche si è fatto ancora un passo in avanti in questa nefasta direzione.

Noi siamo persone con una visione del mondo strutturata e non certo digiune di come vanno le cose, ma c’è in giro tantissima gente ingenua ed epidermica, priva di conoscenze storiche più che rudimentali, soprattutto fra i più giovani che oggi la scuola disinforma e diseduca, e nell’essere umano è fortissima la tendenza a ritenere vero per definizione ciò che “si vede”. Tutto ciò ha lo scopo di persuadere la gente dell’idea assolutamente falsa che società multietniche e multirazziali come quella degli Stati Uniti e quelle che si stanno sforzando di creare oggi in Europa, siano qualcosa di normale e naturale, invece che il massimo dell’innaturalità, dell’artificiosità, sicura causa di decadenza.

Le razze non esistono, vero? Non fanno che ripetercelo, sono solo dei costrutti sociali e culturali. Non fanno che ripetercelo in tutte le occasioni e in tutte le salse possibili. Ci dovrebbero spiegare allora come mai queste inesistenze abbiano ricadute così importanti sulla salute delle persone.

Ci racconta il caso che ha portato alla luce in maniera lampante questa verità “scomoda”, Valerio Benedetti in un articolo su “Il primato nazionale” del 28 febbraio, ed è clamoroso: una donna africana si è rivolta alle autorità perché suo figlio soffre di una grave malattia del sangue e necessita di un trapianto di cellule staminali, ma quelle degli Europei non sono adatte. Scopriamo una verità della quale le equipe ospedaliere dovevano già essere a conoscenza, ma di cui si sono ben guardati dall’informarci: le cellule staminali ma anche il sangue trasfuso degli Europei in pazienti africani provoca imponenti problemi di rigetto che possono causare la morte del paziente, anche quando i gruppi sanguigni e i fattori Rh coincidono, è proprio una barriera biologica che non si sa proprio in quale altro modo si potrebbe definire se non razziale.

Apprendiamo anche che per ovviare a questo problema la Croce Rossa tedesca ha avviato un progetto finanziato con fondi UE e denominato BluStar.NRW che tra l’altro si propone di sensibilizzare gli immigrati africani e arabi a donare sangue per i propri connazionali. Tutto questo finora, però, è stato coperto da segreto nemmeno si trattasse di una questione militare, e allora diciamolo chiaro: per la democrazia. Salvaguardare il dogma dell’inesistenza delle razze umane, occultare le prove che lo smentiscono, si è dimostrato più importante della salute e della vita delle persone.

E’ abbastanza ovvio che su queste pagine io mi astenga, come ho fatto finora, dal commentare articoli di altri autori apparsi su “Ereticamente”: se dovessi esprimere dei giudizi che possono suonare come delle critiche a qualche altro collaboratore della nostra testata, non sarebbe una cosa simpatica, viceversa esprimersi in termini elogiativi potrebbe suonare come una sorta di auto-incensamento da parte della nostra pubblicazione. D’altra parte, mi sembra che finora tra i collaboratori si sia sempre tenuta una linea di reciproca non interferenza, ed è bene che sia così, perché la nostra pubblicazione non ha – mi pare – alcuna linea dogmatica da sostenere (in caso contrario, che eretici saremmo?), quanto piuttosto un insieme di sensibilità anche differenti, tra le quali deve valere la regola del reciproco rispetto.

Questa volta però sarà il caso di fare un’eccezione per motivi che vi saranno subito chiari. Naturalmente, anche per quanto riguarda la tematica delle origini, non pretendo di avere l’esclusiva sulle pagine di “Ereticamente”, anche perché essa in vari modi e a vari livelli, interseca continuamente la nostra visione del mondo per la quale è essenziale il radicamento nell’identità etnica e storica.

L’articolo recentemente apparso su “Ereticamente” che mi pare stavolta non si possa proprio non menzionare nel quadro della nostra ricerca sulle origini, è Arvo e l’origine delle specie secondo l’esoterismo – una rilettura, di Michele Ruzzai apparso sulla nostra pubblicazione il 23 febbraio.

Si tratta appunto di una rilettura, o se vogliamo una recensione ampia e documentata dello scritto L’origine delle specie secondo l’esoterismo, di “Arvo”, pubblicato alla metà degli anni ’20 dal Gruppo di Ur. Come è noto, gli appartenenti a questo gruppo pubblicavano sotto pseudonimo. E’ probabile che “Arvo” fosse il nobile Giovanni Antonio Colonna di Cesarò.

La cosa sorprendente, è che questa concezione esoterica non si discosta molto, a conti fatti, dalla metodologia scientifica, e “Arvo” ricalca sostanzialmente le tesi avanzate dall’anatomista tedesco Edgar Dacqué fra le due guerre mondiali.

Che le specie viventi mutino nel tempo, questo è facilmente dimostrato dal fatto che noi oggi non vediamo trilobiti e dinosauri se non sotto forma di fossili. Quel che bisogna vedere, è se l’interpretazione evoluzionista è o meno l’unica possibile di questo fatto. Dacqué faceva notare, e così “Arvo” sulla sua scia, che la selezione naturale non produce l’evoluzione, ma l’adattamento, che è una perdita di plasticità. Ad esempio, la zampa del cavallo, ridotta a un solo dito, è l’ideale per correre, ma non ridiventerà mai un arto in grado di afferrare qualcosa.

L’essere umano è fra tutti gli animali, quello che ha conservato la maggiore plasticità, non è dunque il frutto tardivo di un processo evoluzionistico, ma quello che ha mantenuto la maggiore vicinanza a una forma ancestrale a tutte le specie viventi che Dacqué chiama Urmensch.

A ciò andrebbe aggiunta l’osservazione di Julius Evola che la comparsa nella documentazione fossile di forme man mano più complesse può non essere vista come la prova di un processo evoluzionistico, ma come la progressiva caduta sul piano materiale di queste entità, e dunque non testimonierebbe un’evoluzione ma una decadenza cosmica.

Sono concetti un po’ difficili, vero? Ma vale la pena di fare uno sforzo, altrimenti l’alternativa è ricadere nel creazionismo abramitico e magari fare come certi giovincelli, ne abbiamo conosciuti diversi, che la sera sono andati a letto evoliani (magari non avevano letto altro che Orientamenti) e si sono svegliati la mattina cattolici.

Conoscete la storia di quel tale che essendogli stato chiesto di risarcire un attrezzo che gli era stato prestato e che aveva riconsegnato rotto, si giustificò dicendo che non gli era stato dato nessun attrezzo, che quando gliel’avevano dato era già rotto, e l’aveva riconsegnato perfettamente integro. Sulle tematiche delle origini, la sinistra si comporta proprio come quel tale: da un lato assume che i fattori etnici e genetici non abbiano alcuna importanza nel determinare ciò che noi siamo, e che tutto dipenda da fattori ambientali, sociali e culturali, dall’altro però si preoccupa di inventare favole, di compiere opera di disinformazione su ogni livello della questione delle origini, l’Out of Africa e la negazione dell’esistenza delle razze umane sono solo i casi più eclatanti.

Ultimamente “La Repubblica” è tornata alla carica. Secondo un articolo di Enrico Baccarini del 4 marzo, l’invasione ariana dell’India non sarebbe mai avvenuta, e gli Ariani come popolo antenato di tutte le popolazioni indoeuropee che parlano linguaggi che hanno una comune origine, non sarebbero mai esistiti. Le somiglianze tra i vari linguaggi indoeuropei sarebbero il frutto di relazioni economiche e scambi commerciali.

In realtà in questa tesi non c’è proprio niente di nuovo, era stata già avanzata ottant’anni fa dagli archeologi sovietici (e non è difficile immaginare quanta libertà di esprimersi avessero queste persone) Adriano Romualdi che l’esaminò nell’introduzione a Religiosità indoeuropea di Gunther la smontò e la mise in ridicolo senza difficoltà e, a pensarci, è una cosa addirittura grottesca: può essere che non uno, ma un’ampia serie di popoli, abbiano del tutto dimenticato le rispettive lingue madri per sostituirle con la lingua franca delle relazioni commerciali?

Come mai a distanza di decenni si ritira fuori ora questa panzana? Forse si conta sul fatto che decenni di “educazione democratica” e il crescente degrado della nostra scuola, hanno reso la gente più ignorante e credula. Peccato che ci siano sempre alcuni individui tetragoni come il sottoscritto, sempre pronti a smontare le loro menzogne.

NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo è la stessa che appare nella versione pubblicata in “Genetic Literacy Project” dell’articolo di David Reich già apparso sul “New York Times”.

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