Una cosa che dovrebbe essere ovvia, è che dal momento in cui questa serie di articoli dedicati all’eredità degli antenati ha assunto l’aspetto di una rubrica più o meno fissa sulle pagine di “Ereticamente”, ha dovuto per forza assumere una pluralità di sfaccettature: ci sono le notizie, non frequentissime, sull’eredità degli antenati che ci vengono dalla ricerca scientifica ufficiale, dalla paleoantropologia, dall’archeologia, dalla genetica, dallo studio delle popolazioni (tenendo presente che il concetto di eredità degli antenati copre un campo vastissimo, dalle lontane origini dell’umanità fino alla storia documentata, riguardo alla quale le perplessità possono essere relativamente poche).
C’è il lavoro svolto sulla ricerca delle origini dai siti e dai gruppi FB “nostri”, e l’informazione su di esso può essere occasionalmente arricchita dalla notizia di conferenze, convegni, pubblicazioni librarie. Qui, io penso, è importante soprattutto la testimonianza del fatto che le tematiche delle origini e dell’identità, la risposta alla domanda “da dove veniamo” senza la quale non possiamo capire chi realmente siamo, è molto sentita nei nostri ambienti, in contrapposizione al tipo di “cultura” che il potere mondialista cerca oggi di imporre, che ci vorrebbe una massa di “produttori”, “consumatori” e “spettatori” della società mediatica, senza radici e senza volto, nell’attesa di cancellare anche fisicamente e biologicamente le differenze fra popoli, etnie e culture attraverso l’imposizione del meticciato.
Ci sono infine una serie di riflessioni più personali, legate a una ricerca e un’indagine autonoma, frutto di un interesse sull’argomento che ormai posso dire di coltivare da parecchi anni (è uno dei pochi vantaggi del non essere più proprio giovanissimi). Questo è, ad esempio, il tipo di sviluppo delle nostre tematiche che abbiamo visto la nell’ottantunesima parte, andando a considerare il fatto che tra le origini della nostra specie, homo sapiens e quella delle popolazioni indoeuropee, andrebbe posto ancora un livello intermedio, ossia l’origine delle genti caucasiche, di cui gli indoeuropei sono semplicemente una frazione.
La tematica cui dedicherò col vostro permesso questa ottantaseiesima parte, è in un certo senso simile, anch’essa una riflessione prettamente personale, c’è, infatti, una questione, o un aspetto riguardo alla questione delle origini, su cui da diverso tempo mi sembra opportuno approfondire la riflessione, e forse è il momento di farlo ora. Che la diffusione nel nostro continente di società agricole, sedentarie, stabili, organizzate, sia andata di pari passo con quella delle lingue e quindi delle popolazioni indoeuropee, su questo ben pochi avanzerebbero dubbi, affinità linguistica vuol dire normalmente affinità genetica. Che popolazioni di origini molto diverse convivano nella stessa area, e debbano quindi per forza adottare una lingua comune per potersi intendere, quella che chiamiamo società multietnica, è una mostruosità rara nella storia, e sempre causa di decadenza. Si vedano le vicende degli ultimi regni ellenistici e del tardo impero romano, e teniamo presente che le società multietniche di questo tipo non erano società multirazziali come quella che i fautori del mondialismo stanno oggi cercando di imporre a livello planetario, il che è come dire la rovina assoluta.
L’agricoltore sedentario è un uomo psicologicamente molto diverso dal cacciatore-raccoglitore nomade: prima di tutto, contrae un legame fortissimo con la terra sulla quale vive e da cui trae sostentamento. In secondo luogo, se da un lato la sedentarietà e l’agricoltura permettono la creazione di società complesse, quella che possiamo chiamare civiltà, la sua vita non si svolge all’insegna del nomadismo erratico ma della stabilità.
Usi, costumi, tradizioni, rapporti sociali, modi di interpretare la vita, seguono quell’insieme di canoni che chiamiamo globalmente “tradizione”.
In uno dei suoi testi, Julius Evola riporta un’espressione molto significativa dell’Avesta: “Chi semina il grano edifica l’ordine”.
E tuttavia, cosa che non è sempre adeguatamente considerata, questo spirito, del resto comune ad esempio alle civiltà tradizionali dell’Asia orientale dove è stato assolutamente predominante, non è che un aspetto dell’animo indoeuropeo, è bilanciato da uno spirito forse non tanto opposto quanto complementare, la tendenza ad andare oltre, esplorare e conquistare, in cui giocano sia la curiosità, il bisogno di conoscenza di menti intellettualmente vivaci, sia l’esigenza di espandersi migliorando la propria condizione. Oswald Spengler aveva colto bene questa dualità dell’animo indoeuropeo contrapponendo “spirito prussiano e spirito vichingo”.
N. C. Doyto, forse l’ultimo importante studioso dei fenomeni razziali nella nostra epoca in cui l’ortodossia “scientifica” ufficiale pretende che le razze umane non esistano, ha chiarito molto bene il concetto che la descrizione dell’incivilimento come passaggio lineare da caccia-raccolta ad allevamento, quindi agricoltura, è una semplificazione eccessiva. Il nomadismo di allevatori e cavalieri è un fenomeno del tutto diverso da quello dei cacciatori-raccoglitori, e una società già stanziale ha potuto adottare varie volte questo stile di vita per svariati motivi, dalla pressione di popoli vicini all’esuberanza demografica. Un esempio molto chiaro in questo senso, che ha il pregio di essersi verificato nell’età moderna ed essere quindi ben documentato, è rappresentato dalla conquista del West da parte dei pionieri anglosassoni nel Nord America.
Una cosa riguardo alla quale non ritengo necessario mantenere a tutti i costi il segreto, è il fatto di essermi interessato e di continuare a interessarmi del mondo celtico, del fatto che i Celti rappresentano una radice del nostro essere europei a lungo misconosciuta e minimizzata. Ora, una questione che è fonte di perplessità per gli studiosi che se ne occupano, è l’improvvisa espansione celtica attorno all’VIII secolo avanti Cristo, una “fiammata” come è stata più volte definita, che ci fa ritrovare popolazioni celtiche dall’angolo nord-occidentale del nostro continente fino all’Anatolia.
Teniamo presente che qui ci troviamo in un orizzonte ancora preistorico-protostorico, dove abbiamo a disposizione ben pochi documenti scritti provenienti da autori estranei a quel mondo, e la ricostruzione delle vicende è affidata soprattutto alla cultura materiale emersa dagli scavi archeologici. Alcuni autori hanno ipotizzato che si sia trattato non tanto di un’espansione di popolazioni, ma di una sorta di “contagio culturale” per il quale popoli diversi avrebbero adottato lo stile celtico nelle armi, nell’oreficeria, nell’abbigliamento.
Se questo risponde al vero, si può avanzare una suggestiva analogia con gli antichi Greci. Come è noto, la filosofia nacque prima nelle zone periferiche del mondo greco, dapprima sulla costa anatolica (scuola ionia), poi nella Magna Grecia (pitagorici, eleatici), e solo successivamente prese piede nella Grecia vera e propria. Contrariamente a quanto hanno cercato di sostenere alcuni patiti dell’orientalismo, questo non dipende dal fatto che i pensatori ionici abbiano assimilato modi di pensare delle popolazioni orientali, ma dal fatto che la scoperta dei punti di vista di culture diverse ha verosimilmente spinto questi pensatori a ricercare un modo meno arbitrario del semplice sentito dire tramandato, per fondare le proprie concezioni.
I Celti avrebbero spinto gli Europei a uscire dalla gabbia del “si fa così perché si è sempre fatto così”, così come i Greci li avrebbero spinti fuori da quella del “si pensa così perché si è sempre pensato così”. Nell’indoeuropeo la tradizione convive con un elemento di dinamismo, fisico e intellettuale, che in altre culture manca completamente. Si pensi, per fare un paragone, alla pure per altri versi rispettabilissima cultura cinese.
Raggiunti i limiti fisici dello spazio percorribile in sella, alla sella del cavallo si sostituisce la tolda dell’imbarcazione. La tendenza dell’uomo indoeuropeo ad andare oltre si converte nell’attività marinara.
Devo essere sincero, a richiamare la mia attenzione sul fatto che altre culture e altre popolazioni hanno nei confronti del mare e dell’esplorazione marinara un atteggiamento molto diverso da quello che sentiamo nostro, fu molti anni fa un vecchio racconto di uno scrittore di fantascienza appartenuto a una generazione trascorsa, Il brutto mare di Raphael A. Lafferty, dove si ironizzava sull’avversione degli ebrei per il mare (che belli i tempi in cui la political correctness non era ancora una gabbia mentale stringente come oggi, e si poteva perfino ironizzare su qualche aspetto della mentalità ebraica).
Nell’antichità, fra i popoli antichi, in effetti troviamo una popolazione semitica dedita alla navigazione, i Fenici, ma viene il sospetto che costoro, stretti in una regione piccola e montagnosa, vi si siano dovuti adattare per necessità. La dice lunga ad esempio il fatto che nel loro pantheon non compaiano divinità marine.
Nella piana di Giza vicino alle piramidi, gli archeologi hanno riportato alla luce alcune navi usate dagli Egizi per scopi funerari. Hanno constatato che si trattava di buone imbarcazioni per gli standard dell’epoca, che sarebbero state in grado di tenere il mare. Ciò nonostante, gli Egizi le usavano esclusivamente per la navigazione lungo il Nilo. Verso il mare, il “grande verde”, essi nutrivano un senso di diffidenza, l’ambiente liquido dal quale potevano provenire stranieri in veste di commercianti ma anche di invasori, come avvenne appunto con l’invasione dei “Popoli del Mare”.
Tra la caduta di Costantinopoli e gli inizi del XVIII secolo, il Mediterraneo fu infestato dai Barbareschi, pirati islamici al Servizio della Sublime Porta ottomana che agivano perlopiù dalle basi del Magreb. Federico II di Spagna concesse ai cavalieri di San Giovanni che i Turchi avevano scacciato dalla Terrasanta e poi da Rodi, l’isola di Malta allo scopo di combattere questa pirateria. Voltaire parla di questi pirati nel Candido, a riprova del fatto che nei primi decenni del XVIII secolo costoro erano un pericolo ancora attuale.
Ebbene, vi sorprenderà sapere che costoro erano in netta maggioranza cristiani convertiti, cioè europei. Uno dei corsari barbareschi più famosi fu Kar El Din, detto Barbarossa, che non aveva niente a che fare, ovviamente, con gli Hohenstaufen, ma era dotato di una capigliatura e di una barba rossicce.
In età medievale i Cinesi avrebbero costruito enormi giunche con le quali avrebbero esplorato il Pacifico. Sulle coste della California sarebbero stati ritrovati i resti del naufragio di una giunca cinese dell’epoca. Ma poi, con un atteggiamento per noi europei incomprensibile, avrebbero deciso di interrompere i contatti col mondo esterno rinchiudendosi in se stessi.
Non potremmo, da questo punto di vista, trovare un atteggiamento maggiormente in contrasto con quello degli Europei che, quando l’evoluzione dei mezzi tecnici glielo ha consentito, dal XV al XIX secolo, si sono lanciati all’esplorazione e alla conquista del pianeta.
Ora è interessante notare che almeno due delle invenzioni tecniche che hanno permesso agli Europei le grandi esplorazioni e l’assoggettamento di gran parte del pianeta, erano presenti “in nuce” nella Cina antica e medioevale: la conoscenza delle proprietà del minerale magnetico di orientarsi in direzione del nord, anche se non la bussola vera e propria (le “bussole” cinesi erano costituite da un ago di magnetite posto su un pezzo di sughero che galleggiava in una bacinella. L’idea di incernierare l’ago magnetico su un perno, e quindi l’invenzione della bussola vera a propria, fu opera dei marinai italiani), e la polvere da sparo, anche se non ancora le armi da fuoco.
Per la cronaca, anche le armi da fuoco, a quanto pare, sono un’invenzione italiana. “Bombarda”, termine con cui erano indicate le prime armi da fuoco, pare sia una deformazione di “lombarda”, e “pistola” viene da “Pistoia”. Non c’è niente da fare, in ogni epoca, gli Italiani si sono dimostrati fra gli Europei più intelligenti, ingegnosi e creativi, e non soltanto in campo artistico.
La nave a sponde rialzate in grado di affrontare i marosi oceanici, fu certamente un’invenzione tutta europea, il koggen frisone antenato del galeone (che nonostante il nome, non è un ingrandimento della galea mediterranea, le cui sponde basse la rendevano inadatta alla navigazione oceanica), ma certamente trova un equivalente nelle grandi giunche cinesi di età medioevale. Forse l’unica invenzione europea che non trova riscontri fuori dal nostro continente, è il timone posteriore delle imbarcazioni.
Così come nel campo delle esplorazioni, anche in quello delle innovazioni tecniche, i Cinesi danno l’impressione di essersi fermati e ritirati proprio all’ultima svolta prima del traguardo, rinunciando a sviluppare fino in fondo innovazioni che probabilmente erano alla loro portata.
Lo si voglia o no, il desiderio di andare sempre avanti, di oltrepassare i propri limiti, l’amore per l’esplorazione, la conoscenza, i grandi spazi da percorrere in sella a un cavallo o sul ponte di un’imbarcazione, rimangono un retaggio tipico dell’uomo indoeuropeo ed europeo. Se il piano Kalergi, il genocidio “soft” delle genti d’Europa attraverso senilità demografica indotta, immigrazione, meticciato, giungesse alla conclusione che oggi appare drammaticamente vicina, quella che andrebbe distrutta, sarebbe la parte più dinamica e creativa dell’umanità.
NOTA: Nell’illustrazione, un drakkar vichingo. Affrontare l’oceano ignoto su di un fragile legno è stata una delle manifestazioni più peculiari dello spirito indoeuropeo.
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