Sembra un destino inevitabile, quello delle utopie di capovolgersi nell’esatto contrario degli obiettivi che i loro propugnatori, ingenui o in mala fede, si erano proposti o avevano dichiarato di volersi proporre. La rivoluzione francese del 1789 iniziata sotto le insegne di “libertà, uguaglianza, fraternità” si è tradotta nel terrore giacobino e l’uso della ghigliottina su scala industriale. La rivoluzione comunista preconizzata da Marx e attuata da Lenin e Stalin in Russia, non ha prodotto certo la giustizia sociale, ma si è trasformata nel più mostruoso regime autocratico che la storia umana abbia mai conosciuto. La democrazia “occidentale”, beh, provatevi a difendere le ragioni degli sconfitti nella seconda guerra mondiale, a mettere in dubbio l’esistenza e l’entità del presunto olocausto, e scoprirete presto a vostre spese quale valore reale abbiano tutte le solenni dichiarazioni sulla libertà di pensiero che trovate sparse nelle varie carte costituzionali a cominciare dalla “nostra”.
Ora, a quanto pare, per l’utopia “antirazzista” e per la creatura che essa ha partorito in termini di interpretazione del divenire umano, cioè la sedicente teoria (che in realtà non è affatto tale) dell’Out of Africa, vale esattamente la stessa cosa. Nato negli anni ’70 tale lambiccamento ideologico travestito da teoria scientifica allo scopo di contrastare “il razzismo” (che poi nel distorto linguaggio orwelliano della democrazia “razzismo” non significhi più l’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono, questo è un altro discorso), si traduce in un razzismo paradossale, nell’esaltazione della pura linea di ascendenza africana nei confronti di noi europei e asiatici, ibridi di neanderthal e di Denisova, (per nulla dire dell’ancora misterioso “quarto antenato” di cui i ricercatori catalani dell’IBE di Barcellona avrebbero individuato le tracce genetiche nel DNA dei nativi delle isole Andamane e in quello di altre popolazioni asiatiche).
Gli antirazzisti che hanno sempre sostenuto la bontà del meticciato, dovrebbero ora, per coerenza, riconoscere – non vogliamo dire l’inferiorità, vogliamo dire lo svantaggio, tanto la sostanza non cambia – dei neri africani che non hanno potuto beneficiare di tali ibridazioni, la zappa che si sono tirata sui piedi è davvero grossa e pesante.
Nell’articolo precedente abbiamo visto una serie di articoli tratti dal sito ecologista “Greenreport” che a sua volta li ha ripresi da pubblicazioni scientifiche americane, che nel loro insieme ci permettono di tracciare un quadro della nostra storia biologica nel quale la “teoria” dell’Out of Africa è sostanzialmente sconfessata. Un articolo che non ho citato la volta scorsa, ci parla del fatto che I geni dei Neanderthal e dei Denisoviani hanno potenziato il nostro sistema immunitario, dandoci una maggior resistenza alle malattie, ma essendo forse all’origine anche di alcune allergie di cui soffriamo. Secondo un articolo pubblicato su “The American Journal of human Genetics”, è quanto emerge da due ricerche condotte indipendentemente, una da un team dell’Istituto Pasteur di Parigi in collaborazione con la Rockerfeller University di New York, l’altra dal Max Planck Institut di Lipsia. L’Out of Africa diventa sempre più difficile da sostenere, o perlomeno lo diventerebbe se nonostante le sue evidenti contraddizioni non fosse un DOGMA che fa comodo al potere e non fosse continuamente supportato e diffuso dal sistema mediatico, ma noi sappiamo esattamente come calcolarlo: una menzogna propagandistica.
Il razzismo filo-africano, non so come altro definirlo, sottinteso alla “teoria” dell’Out of Africa, praticato da “antirazzisti”, sinistrorsi, “democratici” assortiti nonché inevitabilmente da quella che da due millenni in qua è la promotrice di tutte le storture e tutte le sozzure, la Chiesa cattolica, è un razzismo doppiamente infame, prima di tutto perché va a colpire i propri connazionali, e poi perché – obiettivamente – va a favorire quelli che non sono “risorse”, ma pesi morti e parassiti. Ultimamente, “Il primato nazionale” ha ripubblicato on line uno stralcio dell’ultima intervista concessa dalla scomparsa antropologa Ida Magli a Francesco Borgonovo di “Libero”. La Magli era certamente una ricercatrice con una conoscenza della realtà di queste popolazioni che i buonisti catto-sinistri che stanno irresponsabilmente decidendo il nostro destino, si possono soltanto sognare.
Ecco dunque le parole che possiamo considerare una sorta di testamento spirituale di una delle migliori intelligenze italiane nel campo degli studi antropologici:
“Gli Africani non hanno saputo fare nulla a casa loro e non faranno nulla pure qui. Hanno un territorio sconfinato, foreste, fiumi, metalli preziosi, e non ne hanno fatto nulla. Una volta uccisi gli Europei non ci sarà più niente, questo è certo (…).
[I mussulmani in passato hanno dato luogo a un’importante civiltà, ma oggi…] Un tempo c’erano mussulmani che producevano e pensavano, venivano perlopiù dall’Egitto. Ma le civiltà muoiono. Quello che sapevano fare allora, non lo sanno più fare. I mussulmani che vengono qui sono prima di tutto incapaci di pensare. L’islamismo organizza tutta la loro vita e dunque anche la loro struttura psicologica”.
Questo è un punto su cui vale la pena di soffermarsi. Credo di avervi già riportato un’osservazione fatta da qualcuno a proposito della teoria di Spengler, secondo cui mentre un tempo esistevano civiltà in decadenza e civiltà in ascesa, oggi al di fuori della decadenza dell’ “occidente” non esiste più nulla, solo una sterminata massa di popoli fellah. Il presunto nuovo ordine mondiale equivale in sostanza al tentativo di un cancro o di un parassita di sopravvivere all’organismo che lo ospita. Privata l’umanità della sua parte più creatrice, quello che rimane è il puro nulla, è un’illusione pensare che l’involuzione biologica non sarà accompagnata puntualmente anche da quella culturale. Noi potremmo anche fallire nel tentativo di risvegliare la resistenza dei popoli europei, ma in ogni caso “loro”, i buonisti-antirazzisti-democratici, non vinceranno mai, possono solo distruggere.
Proprio qui a Trieste, occorre segnalarlo, venerdì 27 gennaio il nostro Michele Ruzzai ha tenuto presso il Circolo Identità e Tradizione una conferenza che ha avuto per oggetto Le radici antiche degli Indoeuropei. Bellissima – tra l’altro – la circostanza che per questa conferenza si sia scelta proprio la data del 27 gennaio: ripensare alle nostre radici indoeuropee invece di darsi al piagnisteo olocaustico.
Riguardo ai contenuti di questa conferenza, veramente ricca di dati, di spunti e di conoscenze su di un terreno dove il nostro Michele ha dimostrato di muoversi con grande competenza, è estremamente difficile fare una sintesi. Diciamo che il nostro amico si muove sostanzialmente nell’ambito della concezione tradizionale delle origini indoeuropee, che, appoggiandosi alle ricerche dello studioso indiano Tilak che ha individuato nei Veda, i testi sacri dell’induismo, la descrizione di fenomeni astronomici che posso essere osservati solo alle latitudini polari, ha visto nelle terre artiche il luogo d’origine degli Indoeuropei, basandosi anche su numerose tradizioni di svariati popoli, come sono state esaminate e raccontate da René Guenon e Iulius Evola, e in totale contrasto con la teoria “ufficiale”oggi prevalente che ci considera discendenti da agricoltori mediorientali, e anche, sebbene la scala dei tempi sia differente, con l’Out of Africa, poiché entrambe si possono considerare parte del medesimo tentativo di spostare il polo delle nostre origini dal nord al sud.
Le origini degli Indoeuropei, a differenza di quanto sostenuto ad esempio da Colin Renfrew, non vanno ricondotte alla rivoluzione agricola del neolitico, ma risalgono al paleolitico superiore. Tra la collocazione originaria nella sede artica e la posizione attuale dei popoli indoeuropei, vi sarebbe stata poi una collocazione in aree oggi sommerse (Nel corso della deglaciazione, negli ultimi 20.000 anni il livello dei mari si sarebbe alzato di 100-120 metri), una, il Doggerland posta tra l’Inghilterra e la Danimarca, l’altra, tra le Isole Britanniche e l’Islanda, sarebbe stata l’Atlantide platonica e l’Avalon ricordata nelle leggende celtiche.
Noi abbiamo visto più volte che la questione delle origini si situa a una molteplicità di livelli, ed è chiaro che la questione delle origini degli Indoeuropei si trova a un livello diverso e a tempi molto più recenti dell’origine della specie umana.
Al riguardo, indipendentemente dall’oggetto della conferenza, tra me e l’amico Michele mi pare non ci sia un’identità di posizioni. Io avevo collocato a gennaio sul suo gruppo facebook MANvantara i tre articoli tratti da “Greenreport” che ho citato nella quarantunesima parte (Non il mio pezzo, gli amici di “Ereticamente” ci tengono al fatto che tutti gli articoli che compaiono sul sito siano inediti, e questa è una consegna che ho sempre rispettato), e Michele vi ha apposto il seguente commento:
“Io non sono un tifoso particolarmente sfegatato dell’ipotesi multiregionale (Thorne/Wolpoff) in quanto questa presuppone comunque un andamento umano evolutivo-ascendente e rende semplicemente policentrica l’origine Sapiens, ma comunque tutto ciò che contrasta l’ “Out of Africa” che a mio avviso è ora “il nemico principale”, anche per tutta una serie di implicazioni a caduta che con la paleoantropologia hanno poco a che fare, è sicuramente ben accetto”.
La differenza fra le nostre rispettive posizioni, lo si capisce bene, è legata alla tematica evoluzionista. Michele è più prudente di me riguardo all’ipotesi multiregionale proprio per il fatto che essa rientra nel campo evoluzionistico. Io vi ho spiegato più volte che a mio avviso il grande naturalista inglese Charles Darwin è stato mal interpretato dai suoi discepoli più o meno zelanti, che la sua teoria fu subito vista come “di sinistra” e sovversiva (a cominciare dallo stesso Marx che di scienza non capiva nulla) perché contrasta con il creazionismo biblico (ma è tutto da vedere se il cristianesimo sia tradizione, soprattutto “la nostra” tradizione), che l’idea di uno sviluppo ascendente delle forme viventi verso l’autocoscienza si trova assai poco o niente in Darwin, e deriva piuttosto dalla sovrapposizione alla teoria evoluzionista del concetto di progresso mutuato da tutt’altri ambiti (proprio per quest’equivoco di fondo, Darwin non amava la parola “evoluzione” e ne L’origine delle specie l’ha usata una sola volta).
Questa concezione “evoluzionista-progressista” ignora invece i concetti di lotta per l’esistenza e di selezione naturale, il quadro dipintoci da L’origine delle specie di una natura cruenta e competitiva, di sopravvivenza del più adatto e via dicendo, concetti che nel loro insieme nella realtà dei fatti sono una sconfessione della democrazia (e del cristianesimo con la sua predilezione per i miti, i malriusciti e i deboli, come aveva ben visto Nietzsche), a favore di una visione aristocratica, e la tendenza insita negli esseri viventi a tramandare nelle generazioni future il proprio genoma e non quello di chicchessia, che va ad avallare quelle “brutte cose” (per la democrazia) che si chiamano nazionalismo e razzismo, mostrandoci l’assurdità e il masochismo etnico insiti nelle tendenze cosmopolite cristiane-illuministe-marxiste.
Ora però a questo riguardo io devo fare uno sforzo di onestà e di umiltà. Tempo addietro mi ero trovato a discutere di queste questioni con un conoscente studioso di dottrine tradizionali che non gradisce di essere menzionato pubblicamente. Questa persona mi fece notare che pur ritenendo validissima la pars destruens del mio discorso, cioè il rilevamento delle contraddizioni insite nella visione cristiana-democratica-progressista, avanzava serie perplessità riguardo alla pars construens; infatti secondo le dottrine tradizionali l’uomo (come del resto gli altri viventi) è un archetipo, un’idea nel senso di Platone, incarnato nel divenire del mondo (e l’uomo caucasico-indoeuropeo più di tutti, essendo il più vicino all’Urmensch primordiale, laddove altre popolazioni si sarebbero differenziate maggiormente in relazione a diverse situazioni ambientali), e riducendolo a mero accidente del divenire biologico comparso in ultima analisi in maniera casuale, lo si sminuirebbe considerevolmente.
E allora? Io non pretendo di avere in mano tutte le risposte, le risposte definitive ammesso che esistano, ma certamente qualcosa si può dire, cominciando con il notare che ciò che solitamente ci siamo abituati a chiamare “scienza” è perlopiù un’interpretazione precostituita sovrapposta al reale che la ricerca ha il solo scopo di confermare (si veda il mio scritto Scienza e democrazia, sempre su “Ereticamente”), un’interpretazione che ha fra le altre cose lo scopo di negare qualsiasi valenza metafisica, e lo scopo della scienza non dovrebbe essere questo, non dovrebbe addentrarsi nel campo della metafisica neppure per negarla imponendo un’ottica materialista.
La visione evoluzionista-progressista e il creazionismo biblico non occupano tutto lo scenario delle interpretazioni possibili (anzi, si potrebbe persino avanzare l’ipotesi che il progressismo-evoluzionismo ascendente che, lo ripeto, non era la concezione di Darwin, sia in ultima analisi una filiazione del creazionismo, una sorta di creazionismo continuo immanente alla storia, e che percepire le cose in termini di un rigido aut-aut fra l’uno e l’altro sia in definitiva il segno di una mentalità abramitica).
Julius Evola, ad esempio spiegava che la comparsa nella documentazione fossile della storia della vita di tipi man mano più complessi e “superiori” può essere letta come la caduta nel piano materiale di entità man mano superiori e quindi essere il segno non di uno sviluppo ascendente, ma di una fase di decadenza del ciclo cosmico. Un’idea forse troppo complessa per molti suoi presunti discepoli a cui non è rimasta alternativa oltre a quella di ricadere nel creazionismo, e questo potrebbe essere uno dei motivi che spiegano il passaggio di molti “tradizionalisti” da evoliano a cattolico, vissuto magari come un approfondimento del proprio punto di vista originale, mentre in realtà ne è semplicemente un tradimento.
Se noi invece siamo capaci di coniugare la concezione evoliana genuina con la visione “non-buonista” del darwinismo (che in campo filosofico è rappresentata a mio parere soprattutto da Nietzsche), disporremo di un’arma formidabile capace di spazzare via tutte le chimere cristiane-democratiche-marxiste-progressiste.
Al di là di una soluzione sul piano intellettuale, occorre ricordare che conoscere è importante, ma sopravvivere viene prima, e, indipendentemente da una risposta soddisfacente sul piano teorico, il nostro compito principale è quello di lottare per la sopravvivenza dell’etnia italiana e delle etnie europee e indoeuropee contro la loro dissoluzione nel tritacarne multietnico.
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