Come avete visto, le scorse volte, in particolare nelle due parti precedenti, di carne al fuoco ne abbiamo messa davvero tanta, sembra davvero che all’improvviso vi sia stato un risveglio d’interesse circa la tematica delle nostre origini. Ci sono alcuni punti della nostra trattazione che andrebbero meglio precisati e approfonditi.
Un punto che ritengo sia meglio esaminare più approfonditamente è la questione della deriva genetica cui ho accennato la volta scorsa. Uno degli argomenti che vengono più spesso addotti da parte dei sostenitori dell’Out of Africa, della “teoria” dell’origine africana della nostra specie, è il fatto che le popolazioni nere dell’Africa subsahariana presenterebbero una variabilità genetica maggiore rispetto a quelle di altre aree del nostro pianeta. E’ un argomento che si appoggia al fenomeno della deriva genetica: man mano che gruppi di popolazioni si allontanano da un nucleo ancestrale, si verifica una perdita di variabilità genetica.
Ma c’è un grosso ma, e questa è un’osservazione che copio dal nostro eccellente amico Michele Ruzzai: una maggiore variabilità genetica potrebbe essere tanto il frutto di una condizione di ancestralità quanto di incroci recenti. In fin dei conti, è inverosimile che tra gli abitanti di Kinshasa o di Luanda si possa riscontrare maggior variabilità genetica di quella che troveremmo a New York, ma è del tutto inverosimile che l’isola di Manhattan possa essere la culla ancestrale dell’umanità, anche perché sappiamo bene che la popolazione attuale degli Stati Uniti è il frutto di una delle più brutali sostituzioni etniche che la storia abbia mai conosciuto, anche se l’Europa oggi invasa dalle masse extracomunitarie si avvia a subire la stessa sorte dei nativi americani.
Allora come se ne esce? In maniera relativamente semplice in teoria: noi non dobbiamo considerare la variabilità genetica delle popolazioni attuali, ma di quelle antiche nella misura in cui è possibile risalire indietro nel passato, e allora ci accorgiamo che il quadro cambia completamente, e non supporta di certo la presunta origine africana. Accanto al sapiens di Cro Magnon presente in Eurasia già 100.000 anni fa, come ha dimostrato la ricerca di Martin Kuhlwim del Max Planck Institute, quindi ben prima di quanto previsto dall’Out of Africa, tra gli antenati che hanno certamente contribuito al genoma dell’umanità attuale, vi sono certamente i neanderthaliani presenti in due varietà, il neanderthal “classico” e quello “evoluto” (questa è una storia di cui si parla poco, perché è uno dei più brucianti smacchi della paleoantropologia “ufficiale”. Si è scoperto che il neanderthal “evoluto”, cioè con caratteristiche più simili al sapiens di Cro Magnon, non era, come si credeva, più recente del “classico”, ma assolutamente contemporaneo, inoltre era diffuso soprattutto in Medio Oriente, mentre in neanderthaliano classico si ritrova soprattutto in Europa. Una dimostrazione che le caratteristiche dell’uomo di neanderthal non sono un segno di primitività, ma un adattamento a un clima freddo, come quelle degli esquimesi, esattamente come aveva sostenuto Carleton S. Coon), l’uomo di Denisova e anche il “quarto antenato” le cui tracce i ricercatori dell’Istituto di Biologia Evolutiva (IBE) di Barcellona hanno trovato nel DNA degli abitanti delle isole Andamane.
Bene, altri ricercatori spagnoli, e non in tempi recentissimi avevano scoperto qualcosa di altrettanto interessante che però, ovviamente non ha avuto la circolazione che avrebbe meritato, perché in netto contrasto con IL DOGMA dell’Out of Africa. Nel 2007 un team di ricercatori spagnoli del CENIEH, Centro Nacional De Investigaciòn sobre la Evoluciòn Humana di Burgos, team a cui partecipava anche Giorgio Manzi dell’Università La Sapienza di Roma, ha pubblicato i risultati di uno studio condotto sulle caratteristiche anatomiche, in particolare sulla dentatura di fossili del genere homo delle specie abilis, erectus, neanderthalensis (anche se ci sono sempre meno elementi che possano condurre a pensare che quella dell’uomo di neanderthal fosse una specie realmente separata dalla nostra) e sapiens, concludendo che:
“In definitiva, come si legge nell’articolo pubblicato sulla versione online dei “Proceedings of the National Academy of Sciences” la tesi dell’evoluzione umana completamente “africana” sembra lasciare il posto a quella più articolata che tiene conto di un periodo, piuttosto lungo ed evolutivamente cruciale, in Eurasia”.
L’articolo da cui ho tratto lo stralcio sopra riportato, sapete dove è stato pubblicato? Sul sito on line de “La repubblica – L’Espresso” del luglio 2007, e di certo tutti noi sappiamo che “La Repubblica” e “L’espresso” sono testate di estrema destra avverse all’Out of Africa per motivi ideologici.
Questo è un esempio classico di come è costretta ad agire la ricerca scientifica in un’era di oppressione dogmatica. Come le prove che smentivano il geocentrismo tolemaico fra gli astronomi del cinque-seicento, oggi le prove che smentiscono l’Out of Africa possono circolare tra gli specialisti a condizione di essere bisbigliate e di non raggiungere il grosso pubblico.
Basandosi sul principio della deriva genetica, l’Eurasia e non l’Africa appare come il luogo ancestrale delle nostre origini. Tuttavia, si potrebbe avanzare un dubbio al riguardo, perché questa variabilità e complessità genetica ci appare sul crinale della transizione fra “qualcos’altro-forse-non completamente-umano” e la nostra specie. Spostandoci in epoche più vicine a noi e di certo interamente sapiens, cosa succede?
A questo riguardo si può ricordare che negli anni fra le due guerre, Franz Weidenreich, una delle figure più importanti della paleoantropologia di allora, reperì nei pressi di Pechino i resti di tre individui dalle caratteristiche fisiche molto diverse, lo racconta Mauro Paoletti in Radiografia del passato un articolo pubblicato su “Edicolaweb” del dicembre 2007:
“Weidenreich rinvenne nel 1933 nei pressi di Pechino vari scheletri; dalle misure dei crani venne stabilito che uno apparteneva ad un maschio europeo e due a esemplari femminili, uno di tipo melanesiano e l’altro con caratteri eschimesi; tutti i teschi erano databili a 30.000 anni fa. Cosa ci facevano in Cina a quel tempo tre individui così diversi?”
Noi non dobbiamo ovviamente pensare a una società multietnica di trenta millenni or sono, ma piuttosto a una popolazione con un’alta variabilità genetica e morfologica proprio perché ancestrale rispetto alle altre.
Una prova in più, ed estremamente chiara, che la nostra specie non può essersi originata in Africa, ma il problema non è di localizzazione geografica. I sostenitori dell’Out of Africa, senza del resto affermarlo mai in termini troppo espliciti, vogliono darci a intendere che la razza nera sia ancestrale rispetto alle altre razze umane, ora questo è certamente falso. Fra le illustrazioni che corredano questo articolo, c’è la ricostruzione della fisionomia di una ragazza di Cro Magnon: ognuno è il grado di vedere se somigli a un tipo nero, mongolico o caucasico.
Torniamo a parlare del nostro amico Michele Ruzzai. Dopo la conferenza tenuta a Trieste il 27 gennaio su Le radici antiche degli Indoeuropei, che ha riscontrato un buon successo di pubblico (è stato – potremmo dire – il nostro modo di celebrare il Giorno della Memoria), il 24 febbraio nella stessa sede e sempre a cura dell’Associazione Humanitas e del Circolo Identità e Tradizione, ci ha presentato Patria artica o madre Africa? L’inganno delle teorie afrocentriche e la riscoperta delle Origini Boreali, un intervento che è la prosecuzione-approfondimento di quello del mese precedente volto a chiarire questa volta la questione delle origini non dei popoli indoeuropei, ma della stessa specie umana.
Qui a Trieste che pur essendo una città piccola e periferica nel contesto della nostra Penisola, sembra fervere di attività, sabato 18 febbraio, quindi proprio a cavallo fra la conferenza di Michele Ruzzai del 27 gennaio e quella del 24 febbraio (eppure vi assicuro che proprio non ci siamo messi d’accordo), il New Age Center (che è lo stesso che annualmente organizza il festival celtico Triskell), presenta una conferenza di Antonio Scarfone, cosmologo e ricercatore dell’Università della California su Epicentro Mu, cioè il discorso complesso ed estremamente interessante sui continenti e le civiltà perdute, appunto Mu, Lemuria e Atlantide. Ora, si vede bene come questa tematica si salda precisamente al discorso dell’antichità dell’uomo e della possibilità che altri cicli di civiltà siano emersi e dissolti nel nulla prima dell’inizio della storia (da noi) conosciuta. E’ una tematica vicina alla nostra sensibilità, se non altro per opposizione alla mitologia progressista, non a caso ricorrente fra i nostri pensatori, da Julius Evola a Silvano Lorenzoni. Ma forse la cosa più sorprendente è come questo discorso si saldi alla tematica delle origini come ce la presenta il nostro Michele Ruzzai, in questo non presentando escogitazioni originali, ma semplicemente una serie di prove a sostegno di quella che è al riguardo la dottrina tradizionale: infatti, fra l’origine boreale in epoca estremamente remota e la distribuzione attuale della nostra specie, vi sarebbe stato un periodo intermedio in cui essa si collocherebbe in una vasta area di nord-ovest oggi scomparsa, davanti alle coste attuali dell’Europa (ricordiamo che 11-12.000 anni fa la fine delle glaciazioni e lo scioglimento delle masse glaciali ha provocato l’innalzamento degli oceani di 100-120 metri) che le leggende celtiche ricordano come Avalon, e alla quale Platone ha dato il nome di Atlantide.
Come vi ho detto, sembra proprio che in certi momenti il dio delle coincidenze faccia davvero gli straordinari. Proprio in questo periodo di febbraio, a cavallo fra le due conferenze di Michele Ruzzai e quella di Antonio Scarfone, un altro nostro amico che considero fra i “collaboratori indiretti” di “Ereticamente” e senza i quali probabilmente questa rubrica non esisterebbe, il buon Luigi Leonini, ha postato in internet due articoli che si riallacciano alla tematica dei continenti perduti.
Entrambi sono tratti da “Atlanthean Gardens” che, lo voglio ricordare, è stata la prima pubblicazione a rendere note nel mondo occidentale le ricerche genetiche di A. Klysov e I. Rozanskij che SMENTISCONO l’Out of Africa. Anche nel caso del primo di questi due articoli, si tratta di una ricerca basata sulla genetica. I ricercatori statunitensi che hanno studiato gli aplogruppi del DNA mitocondriale dei nativi americani, li hanno classificati in quattro gruppi denominati A, B, C e D, le cui origini possono essere rintracciate in Asia oltre lo stretto di Bering, esattamente come prevede la teoria classica, ma hanno scoperto pure un quinto aplogruppo, molto raro, denominato X (certo, si sono sprecati quanto a fantasia), che è stato rintracciato in alcuni nativi di ascendenza irochese nella zona dell’Illinois. Quest’ultimo non sembra essere apparentato a nulla, tranne che ai Baschi, popolazione come sappiamo, stanziata fra la costa atlantica e i Pirenei a cavallo di quelle che oggi sono Francia e Spagna. I ricercatori, appunto, ipotizzano l’esistenza in un’epoca remota di una vasta terra nell’oceano Atlantico, oggi scomparsa, i cui superstiti avrebbero raggiunto sia le coste orientali delle Americhe sia quelle occidentali del nostro continente, e quale nome dare a essa se non Atlantide? (o Avalon, caso mai).
Il secondo articolo è la riedizione di una memoria di Paul Schliemann, nipote del grande Heinrich Scliemann, lo scopritore di Troia. Secondo Paul Schliemann, il suo celebre nonno negli ultimi anni di vita si era convinto dell’esistenza di Atlantide, ma l’età e le condizioni di salute gli avrebbero impedito di condurre ricerche approfondite sull’argomento. Il motivo era la somiglianza fra alcuni vasi ritrovati in Medio Oriente e altri rinvenuti in America centrale. Dalle analisi sarebbe risultato che sia gli uni sia gli altri erano composti di un’argilla particolare che non si ritrova né in Medio Oriente né in Centro America, e questo l’aveva spinto a ipotizzare l’esistenza in epoca remota di una terra che avrebbe fatto da ponte fra le Americhe e il Vecchio Mondo, da cui questi reperti sarebbero provenuti.
Ma andiamo alla conferenza di Michele Ruzzai. Di per sé, nelle tesi esposte dal nostro amico, che del resto avete già potuto leggere nei suoi articoli apparsi su “Ereticamente”, non c’è nulla di particolarmente originale o bizzarro. Ciò che invece rappresenta la parte più originale e creativa della sua esposizione, è stato il tipo e il peso degli argomenti addotti, che non si limitano di certo alla sola autorevolezza della parola di pensatori come Evola e Guenon. La scoperta del ricercatore russo Vladimir Pitulko, il cui team ha trovato in Siberia tracce di presenza umana risalenti a 45.000 anni fa alla ragguardevole latitudine di 73 gradi nord, e di cui anch’io vi ho già parlato diffusamente, e che ci fa risalire a un’epoca in cui quelle regioni dovevano avere un clima molto diverso da quello attuale, è solo l’ultima di una serie di scoperte archeologiche, paleoantropologiche e genetiche spesso comparse fuggevolmente su pubblicazioni marginali o ammesse dai ricercatori a mezza bocca, ma che nel loro insieme ci danno un quadro delle nostre origini completamente diverso da quello “ufficiale” e stranamente conforme a quanto sostengono invece le dottrine tradizionali; si tratta di una metodologia molto simile a quella che io stesso ho impiegato in Scienza e democrazia. Inoltre, scartare le tradizioni riportate (tra l’altro in maniera praticamente unanime) da tutti i popoli su queste tematiche, ha detto Michele Ruzzai, è come indagare su un delitto o un incidente concentrandosi esclusivamente sugli indizi e scartando a priori quello che i testimoni hanno da dire.
E’ bene, ovviamente, non farsi troppe illusioni: non è sufficiente una sala piena di ascoltatori interessati, e non sono sufficienti neppure i 20.000 lettori raggiunti da “Ereticamente” per pensare di incidere seriamente sulla situazione di una nazione e di un mondo dove le menzogne che fanno da supporto ideologico alla tirannide democratica hanno una diffusione mediatica estremamente vasta e nello stesso tempo capillare, menzogne come l’Out of Africa in campo paleoantropologico, ma altrove ce ne sono ben altre, basta ricordare che per molta gente il 27 gennaio ricorda ben altro che la precedente conferenza dell’amico Ruzzai. Tuttavia, io credo sia importante, attraverso questa e altre attività, porre quanto meno rimedio alla confusione ideologica che esiste nei nostri ambienti, poco per volta arrivare a fare di essi un’élite consapevole della nostra grande eredità culturale e storica, e delle difficili prove che ci aspettano per l’avvenire.
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