La frustrazione in cui incorrono i naturalisti è un fenomeno piuttosto noto. Nel momento in cui scopriamo sempre nuove specie animali e vegetali che formano la ricchezza e la bellezza della vita sul nostro mondo, le vediamo scomparire per effetto dell’azione umana sulla biosfera, al punto che il lavoro dei naturalisti in ambienti ricchi di vita ma minacciati e fragili come sono ad esempio le foreste tropicali, diventa una specie di corsa per arrivare a scoprire e catalogare nuove specie prima che l’inquinamento e la deforestazione le trascinino nell’estinzione.
Studiando le nostre origini, il passato della nostra specie, capita di avvertire una frustrazione dello stesso genere. Prescindiamo dal fatto che questo genere di ricerche è ovviamente malvisto dalla “cultura” democratica che cerca di imporre forzatamente il dogma dell’uguaglianza, ma proprio mentre scopriamo la ricchezza e la complessità della nostra storia grazie anche a strumenti di indagine un tempo non disponibili come la ricerca sul DNA, assistiamo a un imponente tentativo di cancellare la diversità umana attraverso l’imposizione del meticciato a livello planetario, un piano nemmeno tanto occulto per portare all’estinzione la parte dell’umanità più intelligente e creativa, quella caucasica di cui noi stessi facciamo parte.
Per un altro verso, è sorprendente come questo quadro che possiamo tracciare delle nostre origini e della storia della nostra specie si arricchisca sempre di più. Io stesso anni fa sarei stato lontano dal credere che questi miei scritti su “Ereticamente” si sarebbero potuti trasformare in una sorta di rubrica più o meno fissa.
Ho appena finito di lamentarmi la volta scorsa del fatto che lo scenario appare un po’ vuoto a confronto di quello d’inizio d’anno che, quasi in risposta alla mia invocazione, è arrivata “una botta” di novità e segnalazioni sui siti “di Area”. Questo interesse per le tematiche delle origini è molto importante, segna la differenza tra noi e una “cultura” che vorrebbe annullare qualsiasi differenza fra gli esseri umani e chiuderci gli occhi di fronte alla sparizione delle etnie europee. Noi non abbiamo i mezzi per contrastare sul suo stesso piano una “cultura” mediatica che avvelena la gente di falsità ideologiche, a cominciare dalla scuola e poi, in crescendo, attraverso tutto il sistema della cosiddetta informazione, ma è importante formare nei nostri ambienti un’élite intellettualmente preparata e consapevole, “portare avanti lo zaino”, come diceva il grande Gianantonio Valli.
Quelli che andiamo a vedere, sono ulteriori tasselli che si inseriscono in un puzzle le cui linee generali ci sono ormai chiare, ma di cui siamo in grado ora di dare nuove conferme peraltro importanti: diciamo che emerge con sempre maggiore chiarezza l’insostenibilità dell’Out of Africa, la “teoria”, ma sarebbe meglio dire la bufala che il dogmatismo democratico vorrebbe imporre come interpretazione “ufficiale” delle nostre origini, ed emerge sempre più nettamente il fatto che quella umana è una specie politipica al cui interno esistono evidenti differenze non solo di aspetto esteriore e di comportamento, ma anche chiare disomogeneità genetiche che di sicuro non sono riconducibili all’influenza dell’ambiente, che discendiamo da una pluralità di antenati variamente etichettati come pre-sapiens.
Una volta di più, mi rifaccio all’eccellente lavoro di documentazione portato avanti dal gruppo facebook “MANvantara” gestito dal nostro ottimo amico Michele Ruzzai. Qui in data 24 marzo un collaboratore ha segnalato una comunicazione già apparsa su ANSA.it lo scorso 28 luglio (come sempre, occorre dire che se non assumesse grazie a queste persone la dimensione di un lavoro collettivo, la nostra ricerca sarebbe estremamente improba, perché “la rete” è un mare magnum, e l’universo delle pubblicazioni scientifiche lo è ancora di più, e non sempre ciò che è davvero rilevante emerge con facilità. Io spero che perdonerete l’intervallo di parecchi mesi).
Una ricerca condotta da Erik Trinkhaus della Washington University di St.Louis con l’ausilio della microtomografia, ha dimostrato la presenza in un cranio umano proveniente dal nord della Cina, datato a 100.000 anni fa e dalle caratteristiche sapiens moderne (Un momento, ma la teoria “classica” non prevedeva che i sapiens moderni avessero cominciato a diffondersi per il nostro pianeta provenendo dall’Africa non prima di 70.000 anni fa, dopo la presunta catastrofe dell’eruzione del vulcano indonesiano Toba? Mistero!) di canali semicircolari e labirinto dell’osso temporale in una conformazione finora ritenuta tipica dell’uomo di neanderthal, al punto da essere stata usata spesso in passato per decidere se classificare frammenti cranici umani come neanderthaliani o sapiens moderni.
Noi abbiamo visto che questo nostro antenato da cui noi, noi europei ma non gli africani, abbiamo ereditato una frazione non trascurabile del nostro patrimonio genetico, l’uomo di neanderthal, in passato l’abbiamo gravemente sottovalutato, quest’uomo che costruiva probabilmente per motivi di culto circoli di stalagmiti nella profondità delle caverne, che conosceva i principi degli antibiotici e degli antidolorifici. Ora abbiamo una prova in più del fatto che fra lui e il sapiens “moderno” ci poteva essere una differenza razziale, ma non di specie.
Rimanendo sempre in questo orizzonte temporale delle più remote origini umane, e parlando sempre di informazioni sparse nella rete che riviste oggi alla luce di altre informazioni, acquistano una rilevanza ben maggiore, sempre in “MANvantara”, stavolta del 14 aprile, il nostro Michele Ruzzai ha “ripescato” un articolo pubblicato sul sito di “Le scienze” oltre 10 anni fa, ma che oggi si presta a una “lettura” molto più pregnante, La straordinaria diversità dei melanesiani, pubblicato in data 28 febbraio 2007.
Secondo quanto è qui riportato, l’antropologo Jonathan Friedlander della Temple University di Philadelphia ha studiato per 15 anni il DNA mitocondriale, quello che si eredita per via materna, delle popolazioni melanesiane, giungendo alla conclusione che esso presenta della caratteristiche uniche che non si ritrovano in alcuna altra parte del mondo.
Noi oggi siamo in grado di ipotizzare che questa differenza non derivi solo dall’isolamento in cui queste popolazioni vivono, ma vi si può ipotizzare la traccia genetica o dell’ancora poco conosciuto uomo di Denisova o del “quarto antenato” (diverso da Cro Magnon, Denisova e Neanderthal) le cui tracce genetiche sarebbero state individuate in alcune popolazioni asiatiche dai ricercatori dell’IBE (Istituto di Biologia Evolutiva) di Barcellona. Senza considerare anche il fatto che questo “quarto antenato” sarebbe in realtà un quinto, considerando anche l’incrocio con un homo vecchio 1,2 milioni di anni, da cui sarebbero derivate le popolazioni africane.
In ogni caso si vede bene, come tutto ciò rafforzi la convinzione che le origini della nostra specie siano complesse e molto distanti dalla semplicistica formulazione dell’Out of Africa.
La questione delle origini, l’abbiamo visto più volte, si situa a diversi livelli. Dopo la questione più generale e remota dell’origine della nostra specie, si situa certamente quella dei popoli europei e indoeuropei. Occorre innanzi tutto sottolineare un fatto: noi possiamo ovviamente discutere su quali popolazioni di ceppo caucasico che hanno popolato l’Europa dalla remota preistoria a oggi appartenessero alla variante indoeuropea, parlassero lingue appartenenti a questa famiglia linguistica, e quali appartenessero invece a una diramazione diversa, per acquisire magari poi in epoca storica un linguaggio indoeuropeo come effetto della conquista e della dominazione da parte di altre popolazioni, ma resta il fatto primario e incontrovertibile che da decine di migliaia di anni l’Europa è popolata da genti di ceppo caucasico, con una compattezza etnica che non si ritrova in altre parti del nostro pianeta, e questa compattezza etnica è la molla che ha messo l’Europa per millenni alla testa della civiltà umana. Bene questo è proprio ciò che oggi si vuole distruggere con la creazione dovunque di una società multietnica, cioè ibrida e imbastardita, un situazione assolutamente innaturale, che non ha precedenti nella storia, e dalla quale abbiamo già visto che ci possiamo aspettare solo tragedie.
I democratici, gli antirazzisti, coloro che sostengono che noi possiamo trarre un qualche beneficio dal mescolamento etnico, o sono in malafede, o sono dei folli completamente al di fuori della realtà, anche se le due possibilità non si escludono necessariamente a vicenda.
Tutto ciò va tenuto presente assieme al fatto che l’essenziale non è parlare una lingua indoeuropea, ma appartenere al ceppo caucasico, altrimenti dovremmo considerare un afroamericano “un germanico”.
In questa chiave, nel tentativo di decifrare le origini pre- e proto-indoeuropee del nostro continente, sempre nell’ambito di un popolamento indiscutibilmente caucasico, va letto il testo di Elisabeth Hamel, Theo Vennemann e Peter Foster La lingua degli antichi europei pubblicato in “Le scienze” del luglio 2002, ma recensito dal nostro Michele Ruzzai su “MANvantara” lo scorso 23 marzo. Qui si formula un’interessante ipotesi linguistica, quella che è stata denominata “vasconica”: circa 18.000 anni fa, partendo dalla zona pirenaica vi sarebbe stato un antico popolamento accompagnato da un’espansione linguistica che avrebbe interessato la Penisola iberica, la parte occidentale della Francia, le Isole Britanniche, e di cui gli attuali Baschi sarebbero il residuo. Gli autori connettono questo antico popolamento alla cultura magdaleniana.
Il dato più importante, però, fa rilevare Ruzzai, è che la maggior parte del nostro patrimonio genetico risale al paleolitico superiore e non al neolitico, il che sbarra la strada a qualsiasi ipotesi di derivazione degli Europei e degli Indoeuropei dal Medio Oriente come supposto dalla teoria nostratica, ampiamente sconfessata dai dati della genetica (anche se, come nel caso dell’Out of Africa, si evita di farlo sapere in giro).
Il lavoro che il nostro amico e gli altri collaboratori del gruppo (con l’eccezione, ovviamente, dei miei articoli) stanno conducendo su “MANvantara” non si può definire altro che eccellente, ma non si tratta dell’unica voce che c’è in questo momento sulla scena, dell’unica cosa che meriti seguire. Un gruppo parallelo e molto simile è “Frammenti di Atlantide-Iperborea” gestito da Solimano Mutti. In data 14 aprile, Mutti ha condiviso in questo gruppo un interessante articolo di Alexander Dugin su Herman Wirth (il titolo del testo, che è in inglese, si può tradurre come Le rune, il grande yule e la patria artica). Il motivo di interesse di questo articolo è doppio; infatti Alexander Dugin è oggi un po’ l’ideologo della nuova Russia post-comunista di Putin, ed evidenzia molto bene il fatto che la riscoperta dell’identità profonda dei popoli europei è oggi uno strumento essenziale per opporsi alla valanga democratica-liberal-mondialista che tutto vorrebbe sommergere e costringere entro le pastoie del pensiero unico, ed Herman Wirth è stato una figura chiave della Ahnenerbe nazionalsocialista e uno dei più importanti sostenitori dell’origine artica della nostra specie, in contrasto con l’ipotesi africana “democraticamente” imposta (anche in spregio ai fatti) che come sappiamo, oggi va per la maggiore.
L’opera più importante di Wirth, Der Aufgang der Menschheit, L’aurora dell’umanità, non è mai stata ripubblicata in Italia in questo dopoguerra, ma nel 2013 la Effepì ne ha ripubblicato l’introduzione. Guarda caso, una recensione di questa pubblicazione, ad opera – indovinate un po’ – del nostro infaticabile Michele Ruzzai, è apparsa su “MANvantara” in data 10 aprile.
Un livello più vicino a noi riguarda l’origine degli Italici, e anche qui è davvero sorprendente quante sciocchezze e quante falsità siano state ricamate e continuino a essere ricamate dalla propaganda di regime democratica, pretendendo che il nostro popolo abbia una totale incoerenza dal punto di vista etnico-ereditario-genetico. Questo, lo sappiamo, è totalmente falso, l’ennesima menzogna della democrazia per indurci ad accettare la sparizione della nostra gente nel diluvio multietnico. Gli Italici, lo sappiamo, sono una componente del ceppo indoeuropeo insediati nella nostra Penisola da tempo immemorabile e ben prima della nascita dello stato romano, una realtà che dal punto di vista etnico-genetico, le invasioni e le dominazioni che l’Italia ha subito nei secoli tra la caduta di Roma e il risorgimento, hanno modificato ben poco, essendo perlopiù questi invasori assolutamente esigui in termini numerici. Questa è la pura e semplice verità, e il resto sono frottole nelle quali le smanie separatiste di questo e di quello si mettono senza accorgersene al servizio del potere mondialista, che intende far sparire come nazione noi e gli altri popoli europei.
Ricordo un bell’articolo di Maurizio Blondet di diversi anni fa, in cui l’autore, analizzando il significato del motto SPQR “Senatus popolusque romanus”, faceva notare che “populus” in latino viene da “populor”, “saccheggiare”, “devastare”, e il termine in origine indicava i giovani che venivano allontanati dai villaggi durante la Primavera Sacra a cercare di fondare altrove nuove comunità o a vivere la vita dei briganti e dei predoni. Il motto adombrerebbe un episodio nel quale i giovani fuorusciti sarebbero rientrati con la forza nella Roma delle origini imponendosi agli anziani, il “senatus”. Ci appare l’immagine di una romanità ancestrale forse meno “civile” ma più ricca di energie vitali (senza le quali non sarebbe mai potuta diventare un impero esteso dalle Isole Britanniche all’Arabia) di quel che forse avevamo immaginato, più simile allo spirito “barbarico” degli antichi Celti e Germani.
Il problema è se oggi questa povera nostra Europa intossicata di democrazia, marxismo e cristianesimo possa essere in grado di ritrovare questo “barbarico” spirito vitale, quando vediamo persino i discendenti dei vichinghi piegarsi all’arroganza islamica in casa loro. Non è forse un caso che il 18 aprile Luigi Leonini, un altro di quegli amici senza i quali tenere questa rubrica risulterebbe estremamente difficoltoso, ha postato in internet un bell’articolo di Guillaume Faye già apparso su “ComeDonChisciotte”, dove si enuncia un concetto molto importante: La guerriglia etnica è cominciata. Per ora si parla della Francia, ma non c’è dubbio che il resto dell’Europa seguirà a ruota. In poche parole: tra gli atti di terrorismo jihadista e la violenza e la criminalità spicciole che gli invasori sedicenti immigrati praticano a ogni livello dovunque mettano piede, favoriti dal buonismo suicida democratico-cristiano-marxista, esiste una sostanziale continuità, e il messaggio è estremamente chiaro: “Questa non è più la vostra terra, è terra nostra”.
Rimane solo da sapere se noi Europei vogliamo sparire nell’ombra in silenzio, o se vogliamo combattere per difendere l’eredità degli antenati e il futuro dei nostri figli.
NOTA
La prima illustrazione che correda questo articolo è un’immagine composita. Vediamo a sinistra l’immagine di copertina del gruppo facebook “Frammenti di Atlantide-Iperborea”. In modo non diverso da “MANvantara”, si tratta anche in questo caso di un’aurora boreale. L’altra immagine è la copertina dell’introduzione a L’aurora dell’umanità di Herman Wirth pubblicata dalla Effepì.
Nella seconda illustrazione, l’immagine a sinistra è la ricostruzione delle fattezze di un uomo di Neanderthal (una ricostruzione recente, tratta da un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” del dicembre 2014), a destra abbiamo invece un’odierna “risorsa” africana. Secondo la “teoria” dell’Out of Africa, il primo sarebbe un ominide estinto privo di connessioni con noi; il secondo invece il tipo più vicino al modello ancestrale del vero homo sapiens moderno da cui tutti noi discenderemmo.
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