Per quanto riguarda lo studio delle nostre origini, l’anno 2017 si è dimostrato un’annata veramente eccezionale in fatto di ritrovamenti: possiamo menzionare – in questo caso più che un ritrovamento, una riscoperta derivata da una più attenta rilettura di fossili già noti – l’ominide balcanico noto come “El Greco”, risalente a poco meno di 7 milioni di anni fa, poi i resti umani anatomicamente moderni emersi dalla cava marocchina di Jebel Irhoud, la ricerca condotta dai biologi dell’università di Buffalo su di una proteina della saliva, la MUC7, presente nei neri subsahariani in una variante che non si ritrova in nessun altro gruppo umano, e che sarebbe l’eredità della “specie fantasma”, un ominide o un uomo arcaico separatosi dalla linea principale dell’evoluzione umana circa 1,2 milioni di anni fa, e con cui gli umani sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati, essa è in altre parole la prova genetica più importante che smentisce la “teoria” dell’Out of Africa, della presunta origine africana di Homo sapiens.
C’è stata poi in settembre la notizia del ritrovamento nell’isola di Creta di impronte fossili molto simili a quelle umane risalenti a quasi sei milioni di anni fa.
Alcuni lettori di “Ereticamente” mi hanno criticato per aver parlato di questa scoperta con molta cautela, di averne, per così dire, ridimensionato l’importanza quando ne ho parlato nella cinquantottesima parte della nostra Ahnenerbe.
Non avrete, io penso, difficoltà a capire perché mi sia deciso a rispondere adeguatamente a questa critica soltanto adesso. Essenzialmente, è una questione di tempi tecnici. “Ereticamente” è uno strumento validissimo per la diffusione delle nostre idee, ma le possibilità di stare sulle notizie in tempo reale sono scarse, anche perché, come avrete avuto senz’altro modo di vedere, la tematica delle origini non è la sola questione della quale mi sono occupato su queste pagine, e quello con essa è in effetti un appuntamento con una scadenza più o meno bisettimanale.
Aggiungiamo poi che la cinquantanovesima parte ha dovuto – purtroppo – registrare la notizia che le impronte cretesi sono state vandalizzate, e per l’occasione mi è sembrato opportuno ampliare il discorso sui molti reperti che contraddicono l’impostazione “ortodossa” e “politicamente corretta” della nostra storia e che sono accidentalmente andati distrutti o scomparsi.
La sessantesima parte, preparata da tempo, è stata invece un riepilogo del percorso fin qui svolto, a completamento di quanto già detto quando abbiamo toccato la quota cinquanta (questa rubrica comincia ormai ad avere una storia), la sessantunesima parte un aggiornamento doveroso delle novità segnalate soprattutto da “MANvantara”, l’ottimo gruppo facebook gestito dal nostro amico Michele Ruzzai, la sessantaduesima e la sessantatreesima due “cammei” un po’ a parte rispetto al filone principale della nostra ricerca di cui, vi confesso, ho rimandato varie volte la pubblicazione davanti alla necessità di aggiornamenti più impellenti, e a cui non me la sono sentita di imporre ritardi ulteriori, e così ci siamo ridotti ad adesso.
Io facevo notare che la grossa svolta nella deambulazione, quindi nella conformazione del piede e delle impronte che si possono lasciare, non sembra essere avvenuta al momento della transizione fra ominide e uomo, ma a quello della transizione fra scimmia antropomorfa e ominide. L’acquisizione della stazione eretta, infatti, ha comportato la perdita della prensilità del piede, che nelle scimmie antropomorfe o nelle scimmie in genere, è ben evidenziata dall’alluce che sporge lateralmente rispetto alle altre dita, mentre gli ominidi, ad esempio del genere Australopithecus, camminavano eretti, avevano l’alluce in linea con le altre dita e lasciavano impronte del tutto simili alle nostre, ed è precisamente questa una delle caratteristiche più significative che hanno permesso di diagnosticarli come probabili nostri antenati. Le famose impronte di Laetoli, lasciate da australopitechi Afarensis (la specie di Lucy) 4,5 milioni di anni fa, in effetti sono del tutto simili alle nostre.
L’ipotesi che mi sembra più probabile, anche in ragione della vicinanza geografica, è che le impronte cretesi siano state lasciate da El Greco o da un suo parente stretto.
Questo però non significa che le impronte cretesi siano prive d’importanza, in realtà sono importantissime.
“Il genere Homo deriva dagli ominidi, gli ominidi sono vissuti in Africa, quindi Homo deve essersi originato in Africa”. Questo sillogismo (o sofisma) è alla base dell’interpretazione “ortodossa” e “politicamente corretta” delle nostre origini. Ora è chiaro che essa risulta gravemente indebolita nel momento in cui scopriamo che sono vissuti in tutto il Vecchio Mondo, dagli asiatici Ramapithecus e Sivapithecus (che però secondo l’interpretazione più recente sembrano essere appartenuti a un’unica specie) a El Greco in Europa, ma sul nostro continente non c’è solo lui: in Italia centrale sono stati trovati i resti di una creatura, l’Oreopithecus Bambolensis, che presenta proprio quelle stesse caratteristiche: stazione eretta, canini piccoli, arcata dentaria tondeggiante di tipo umano, che hanno consentito di individuare Lucy e gli altri australopitechi come precursori del genere umano.
Tuttavia è inutile che ce la raccontiamo: il vero punto della questione è assolutamente un altro. Per alcuni di noi l’idea di un Homo vecchio di sei milioni di anni è un’assoluta tentazione, perché scombinerebbe il quadro dell’evoluzione della nostra specie come è stato finora tracciato, e di certo non stupirò nessuno raccontandovi che questa è ad esempio l’interpretazione del ritrovamento cretese data da Maurizio Blondet.
Io non so quante volte l’ho già detto, ma non mi stancherò di ripeterlo: questa è un’interpretazione delle cose del tutto falsata: che il darwinismo sia “una cosa di sinistra” è un pregiudizio che nasce dalla confusione del concetto di evoluzione con quello di progresso, e perché l’evoluzionismo contraddice la narrazione biblica.
Riguardo al secondo punto, difendere quest’eresia ebraica che conosciamo come cristianesimo, che ha usurpato le nostre tradizioni autoctone dopo averle portate all’estinzione, è di certo l’ultima delle mie preoccupazioni, ma soprattutto il significato a livello umano e politico della concezione darwiniana è precisamente il contrario della sua interpretazione progressista e buonista, evidenzia il valore della lotta per la sopravvivenza, il potere creativo della selezione, la lotta dei viventi per diffondere nelle generazioni future il proprio genoma, non quello di chissà chi, che taglia le gambe a qualsiasi ubbia cosmopolita cristianiforme-marxistiforme.
Sembra quasi che si sia levato un tappo: il dibattito sulla “specie fantasma” sollevato dalla ricerca dell’università di Buffalo ha portato alla luce diverse cose, altre ricerche rimaste nell’ombra per il fatto di smentire la vulgata ufficiale sulle nostre origini rappresentata dal dogma Out of africano.
Si è per esempio riparlato di una ricerca condotta nel 2007 da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos (Spagna). Questa ricercatrice, considerando il fatto che i denti e le corone dentarie risentono ben poco dell’influenza dell’ambiente ma sono praticamente il riflesso diretto del patrimonio genetico, ha ricostruito un “albero genealogico dentario” delle popolazioni umane, moderne ed estinte, albero genealogico che indica l’origine della nostra specie non in Africa ma in Eurasia.
A una conclusione molto simile era giunto nel 2016 anche Úlfur Árnason, neuroscienziato presso l’Università di Lund in Svezia sulla base di un ragionamento così semplice che veramente ci si stupisce che nessuno ci sia arrivato prima: in età preistorica la nostra specie era suddivisa in tre sottospecie: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova. Poiché in Africa non si trova la minima traccia né di neanderthaliani né di denisoviani né come tracce fossili né nel genoma degli africani attuali, è chiaro che questa suddivisione, e con essa l’origine della nostra specie, devono essere avvenute non in Africa ma in Eurasia.
Di tutto questo abbiamo già parlato nelle parti precedenti di questa rubrica, e ora è venuto il momento di aggiungere un altro tassello al nostro mosaico che si sta facendo sempre più completo, articolato e chiaro. Fa un particolare piacere, poi, che a mettere quella che dovrebbe essere la pietra tombale definitiva sull’Out of Africa, sia proprio il lavoro di una ricercatrice italiana.
A ottobre, il sito “Classic Cult” (www.classic.cult.it ) ha pubblicato un articolo: Due acheuleani, due specie umane che presenta il lavoro di Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università La Sapienza di Roma, direttrice delle ricerche archeologiche a Melka Kunture in Etiopia, articolo che peraltro sintetizza un testo già apparso sul “Journal of anthropological Sciences”.
Devo però ammettere che anche questa volta, nel riportare questa ricerca estremamente significativa sulle nostre origini, sono stato preceduto dall’ottimo MANvantara del nostro Michele Ruzzai, vediamo però ora di che cosa si tratta.
L’acheuleano è l’industria litica che si ritiene generalmente associata all’homo erectus, e copre un periodo temporalmente molto ampio che va da 1,8 milioni fino a 100.000 anni fa.
Ebbene, proprio studiando gli strumenti acheuleani etiopi, Margherita Mussi è giunta alla conclusione che esistono due acheuleani diversi, quello africano e quello eurasiatico, ma occorre tenere presente che fino alla comparsa di sapiens l’evoluzione degli strumenti litici è andata di pari passo con quella del cervello, c’è un legame strettissimo tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Questo porta a una conclusione ovvia quanto imbarazzante per alcuni: fino al Paleolitico superiore sarebbero esistite due umanità, mentre in Africa l’homo erectus sarebbe rimasto pressoché immutato, in Eurasia si sarebbe evoluto nel più avanzato heidelbergensis da cui sarebbe poi nato sapiens.
Combinando questa ipotesi con quella avanzata dai ricercatori dell’università di Buffalo, tutto diventa più chiaro: la “specie fantasma” da cui i neri subsahariani avrebbero ereditato la loro variante della proteina MUC7, altro non sarebbe stata che il “vecchio” Homo erectus con cui i sapiens giunti in Africa dall’Eurasia si sarebbero incrociati.
L’Out of Africa così come viene ammannita dai media, ossia che “verremmo dai neri” non è una teoria scientifica ma un artificio retorico. Per prima cosa, il grosso pubblico ignora che esistono due versioni, Out of Africa I e Out of Africa II: la prima sostiene l’uscita dell’umanità dall’Africa a livello di Homo erectus, milioni o centinaia di migliaia di anni fa, la seconda la provenienza dal Continente Nero di un Homo già sapiens alcune decine di migliaia di anni fa.
Non è la stessa cosa, e la seconda nasconde la sua mancanza di credibilità dietro l’omonimia con la prima, è in pratica un trucco, un truffaldino gioco delle tre carte.
Il più antico essere che possiamo riconoscere come umano, l’Homo erectus (dato che né il cosiddetto homo abilis – inventato più che scoperto da Louis e Richard Leakey – né il cosiddetto “uomo di Naledi” mostrano caratteristiche che il distinguano realmente dagli ominidi australopitechi) potrebbe aver avuto origine in Africa (ma anche no, dato che sappiamo che l’areale degli ominidi era molto più vasto, includendo almeno le parti climaticamente più favorevoli dell’Eurasia, come l’Europa mediterranea e il subcontinente indiano, e pensate al fastidio che ha dato negli ambienti “democratici” la scoperta di El Greco), ma siamo a un livello di antichità tale da fare venire meno lo scopo “antirazzista” di questa teoria, se l’uscita dall’Africa fosse avvenuta a livello di Erectus, milioni di anni fa, prima che l’homo sapiens cominciasse a esistere, ci sarebbe stato comunque tutto il tempo per una differenziazione razziale, che la “teoria” dell’Out of Africa II è stata costruita apposta per negare.
Ora noi abbiamo la prova provata che l’Out of Africa II è falsa, e grazie a El Greco e alle impronte cretesi, anche l’Out of Africa I non è mica poi così tanto credibile, ma questo non è ancora tutto.
Se l’ipotesi dell’origine africana della nostra specie si basa su di un espediente truffaldino, la confusione fra due teorie in realtà molto diverse, per trasformarla nell’asserzione che “veniamo dai neri” (peraltro lasciata ai media e che nessun ricercatore si sogna di fare esplicitamente in questi termini), occorre ancora un altro espediente, ossia un’ulteriore deliberata confusione fra “africano” in senso geografico e “nero” in senso antropologico, un trucco nel trucco, potremmo dire; fosse vero, sarebbero stati “neri” anche Tolkien e Ungaretti, nati in terra d’Africa.
Le ultime ricerche paleoantropologiche smentiscono chiaramente tutte queste illazioni, e se la partita fosse soltanto in termini scientifici, essa sarebbe certamente chiusa, ma noi sappiamo che al sistema di potere che sta dietro al sistema accademico ed educativo e a quello dei media, la verità in quanto tale non interessa per nulla, e che continuerà a diffondere le menzogne che gli fanno più comodo, che le razze umane non esistono e che tutti noi siamo soltanto dei “neri sbiancati”, allo scopo di ottundere le nostre coscienze, per indurci ad accettare quanto meno con rassegnazione la sostituzione etnica in atto.
Proprio per questo, noi continueremo a lottare per difendere la verità delle cose, e con essa il futuro dei nostri figli e discendenti.
NOTA: nell’illustrazione che correda quest’articolo, a sinistra un’immagine che vi ho già proposto: una raffigurazione suggestiva della “specie fantasma” individuata dai ricercatori dell’Università di Buffalo. Grazie alle ricerche di Margherita Mussi, adesso sappiamo che probabilmente non si trattava altro che del “vecchio” Homo erectus. Al centro, il teschio e la ricostruzione di un uomo di Cro Magnon, il “classico” Homo sapiens del Paleolitico. Come si può vedere, le sue caratteristiche non ricordano molto quelle dei neri subsahariani. A sinistra, il sito di Melka Kunture in Etiopia, dove Margherita Mussi ha condotto le sue ricerche.