Come avete avuto modo di vedere, alcune delle parti precedenti di questa rubrica hanno avuto un andamento un pò particolare: nella cinquantasettesima vi ho presentato una sorta di sunto della conferenza da me tenuta nel 2014 al festival celtico triestino Triskell, come introduzione alla presentazione sulle pagine di “Ereticamente” al testo di quella del 2017 (quelle del 2015 del 2016 ve le avevo del pari presentate, ma stranamente non mi era venuto in mente di rendervi edotti di quella del 2014 che, anche in ragione del tempo intercorso, vi ho in questo articolo presentato in maniera molto sintetica). Ovviamente, essendo rivolte a un pubblico politicamente indifferenziato, hanno un’impostazione generalista, ma noi capiamo bene l’importanza che ha per la nostra visione del mondo la conoscenza delle nostre origini europee che la “cultura” e la “scienza storica” democratiche dominanti si guardano bene dal mettere nella giusta luce.
La sessantesima parte, invece, come già avevo fatto per il numero cinquanta (potenza e fascino delle cifre tonde) è stata invece una sorta di riepilogo del lavoro finora fatto, e la sessantaduesima un piccolo cammeo a sé stante, una piccola “galleria di famiglia” con i ritratti di alcuni dei nostri antenati.
Stavolta torniamo invece su di un approccio più classico della nostra rubrica, su di un discorso che – si può dire – presenta una certa somiglianza con quello già affrontato in altre parti di questa serie di articoli, ossia, nell’attesa della comparsa di novità sostanziali nelle ricerche sulle nostre origini (e va da sé che non ci possiamo aspettare che avvengano tutti i giorni ritrovamenti come quello di “El Greco”, l’ominide balcanico, o dei resti di homo sapiens vecchi di 300.000 anni come è avvenuto nella cava di Jebel Irhoud in Marocco, né tanto meno ci sono da aspettarsi quotidianamente studi come quello sulla proteina MUC7 che dovrebbe essere la pietra tombale dell’Out of Africa, o le impronte “umane” vecchie di sei milioni di anni ritrovate a Creta, e da questo punto di vista il 2017 resta un anno eccezionale), ci dedicheremo a un lavoro di riflessione e approfondimento.
Tempo fa mi era capitato di mettere un commento su facebook, che se l’Out of Africa fosse vera, allora vorrebbe dire che abbiamo fatto tanta strada per levarci dalle scatole quella gente che oggi l’immigrazione extracomunitaria ci riporta tra i piedi.
Riflettendoci, mi sono reso conto che senza volerlo, senza averci pensato, la battuta di spirito enucleava una verità importante. L’Out of Africa si basa su di un palese equivoco: essa ha lo scopo di persuaderci che “veniamo dai neri”, che noi stessi non siamo in ultima analisi che dei neri “sbiancati” e che le razze umane non esistono. È una “teoria” che gioca sporcamente sull’equivoco, perché un’origine su suolo geograficamente africano non significa necessariamente “nero”.
L’Africa mediterranea (NON quella subsahariana) potrebbe aver avuto un ruolo importante nell’origine della nostra specie, ed è quello che induce a pensare ad esempio il recente ritrovamento di Jebel Irhoud in Marocco. Tuttavia, se ci riflettiamo, questa possibilità – per ora ipotetica – si presta a una lettura completamente diversa da quella data dall’Out of Africa, che non è una teoria scientifica, ma un’escogitazione ideologica inventata per “combattere il razzismo” (e va tenuto presente che nel linguaggio orwelliano dell’ortodossia democratica per razzismo non s’intende più l’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono).
In pratica, potremmo trovarci di fronte a una fondamentale biforcazione nel destino della nostra specie, fra quanti sono rimasti nella comoda culla africana, e quanti hanno invece affrontato l’ambiente ostile e il più difficile clima dell’Eurasia. In questa ipotesi, non solo vi potrebbe essere stata una differenza di base fra gli uni e gli altri – sarebbero stati i più dinamici e intelligenti ad affrontare le sfide di un ambiente nuovo – non solo, ma quest’ultimo avrebbe imposto una rigorosa selezione, plasmato letteralmente i nuovi arrivati, e il segno di questa differenza si vede benissimo ancora oggi, se fra le popolazioni di origine eurasiatica e quelle subsahariane si riscontra una differenza di ben 30 punti di Q I che colloca la media di queste ultime al limite di quello che per noi è il ritardo mentale.
Io penso che sia stato soprattutto l’ambiente europeo a plasmarci per quello che siamo, altro che “madre Africa”, in ogni caso la nostra madre è l’Europa. La mia personale idea è che un ruolo di fondamentale importanza l’abbiano giocato le variazioni stagionali che caratterizzano il nostro continente. Il fatto di passare regolarmente da periodi di clima confortevole e abbondanza di risorse a quelli invernali caratterizzati invece da penuria alimentare e dalla necessità di ripararsi dalle intemperie, ha favorito lo sviluppo della preveggenza, della capacità di pianificare la propria vita su tempi lunghi.
Quando si poteva parlare liberamente di queste cose prima che l’ortodossia democratica mettesse al bando la possibilità stessa di sollevare simili questioni (che poi non solo questioni ma dati di fatto), era osservazione comune di chiunque avesse avuto modo di osservare da vicino le differenze di comportamento legate alla razza, che il bianco vive pensando ai prossimi decenni, mentre il nero vive pensando alle prossime ore.
Non è probabilmente un caso che il più antico segno di misurazione del tempo giunto fino a noi lo ritroviamo sul suolo europeo, precisamente in Scozia a Warren Fields, dove sono state trovate le tracce di un calendario lunare di età mesolitica (si veda Le altre Stonehenge, seconda parte), più antico di ben cinquemila anni dei più antichi analoghi calendari mediorientali. Età mesolitica significa un’epoca già agricola, e per un agricoltore conoscere il ritmo delle stagioni è fondamentale, ma prima che per lui lo era anche per un cacciatore che vivesse là dove la disponibilità di selvaggina era soggetta a forti fluttuazioni legate alle variazioni stagionali a differenza di quel che avveniva e avviene in Africa.
Un’altra profonda differenza le cui origini vanno con ogni probabilità ricercate nella diversità dell’ambiente europeo rispetto a quello africano, è l’atteggiamento nei confronti della prole. Le statistiche che abbiamo soprattutto provenienti dagli Stati Uniti (e ricordiamo che gli afroamericani non sono neri puri) sono impressionanti. I tassi di separazioni, abbandoni del tetto coniugale e via dicendo, sono altissimi, si può dire che il maschio di colore tende a non occuparsi per nulla dei figli, ricalcando in pieno, nonostante le differenze ambientali fra USA e Africa al disotto del Sahara, lo stesso atteggiamento dei propri antenati africani che lasciavano esclusivamente alle donne la cura della prole. Per quanto riguarda l’Africa, è interessante rilevare il fatto che le agenzie di microcredito che cercano di promuovere iniziative che la sollevino dalla povertà endemica, fanno i loro prestiti esclusivamente a donne, ben sapendo che gli uomini non farebbero altro che sperperarli.
L’atteggiamento del maschio di colore, al riguardo, ricalca puntualmente quello degli antropoidi che affidano le loro possibilità di trasmettere i loro geni a una discendenza, non alla cura dei propri figli, ma cercando di ingravidare più femmine possibile.
Preveggenza, responsabilità, preoccupazione per il futuro, cura ed educazione dei propri figli. Questi sono frutti germogliati sul suolo europeo, sono le basi che hanno permesso all’Europa di essere la madre della civiltà umana (qui il discorso si collega a un’altra tematica che ho ampiamente trattato, la nascita della civiltà non in Medio Oriente come mente la maggior parte dei testi “di storia”, ma sul suolo europeo).
Noi siamo figli dell’Europa in ogni senso, su questo non si possono nutrire dubbi, e credo che la migliore affermazione di ciò ce l’abbia data non uno scienziato ma un combattente, un uomo che si è volontariamente immolato per denunciare con la sua morte lo spaventoso delitto che il potere mondialista sta commettendo contro i popoli europei, provocando la loro estinzione attraverso il declino demografico imposto, l’immigrazione allogena e il meticciato, Dominique Venner, questo samurai della causa europea, le cui parole meritano una particolare reverenza, proprio perché suggellate con il sangue e il supremo sacrificio:
“Io sono figlio della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate… Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima europea.
Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano in modo superiore la spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli Europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della nostra Tradizione primordiale”.
Vi ho proposto varie volte nella parte iconografica che correda questi articoli (l’ultima nei “ritratti di famiglia” della parte precedente a questa, ragion per cui ora non ve la riproporrò, ma caso mai vi invito ad andare a riguardarvela) una ricostruzione dei lineamenti dell’uomo di Neanderthal tratta dalla pagina scientifica del “Corriere della Sera” del 2014, una ricostruzione recente che fa finalmente giustizia dei tratti scimmieschi fino a poco tempo fa attribuiti a questo nostro antenato, senza dubbio in omaggio al dogma progressista-evoluzionista.
Oggi noi sappiamo che il suo DNA differisce dal nostro per una frazione inferiore all’1%, e non abbiamo alcun motivo per non considerarlo a tutti gli effetti un membro della nostra stessa specie. La sua impronta genetica è presente nel nostro DNA ma non in quello degli africani. Potremmo avanzare l’ipotesi di aver ereditato dall’uomo di Cro Magnon le caratteristiche sapiens avanzate e da lui quelle razziali europidi, e questa sarebbe una chiarissima conferma delle teorie di Carleton S. Coon secondo le quali le caratteristiche razziali sarebbero più antiche del sapiens anatomicamente moderno, e si sarebbero mantenute distinte nei diversi gruppi umani man mano che ciascuno di essi per incrocio genetico con altre popolazioni, raggiungeva il livello anatomicamente moderno. Ne abbiamo parlato altre volte in dettaglio, e caso mai potete andare a rivedervi gli scritti precedenti in merito a questo argomento.
Ora, la cosa interessante è che io ho riproposto questa ricostruzione anche su facebook, raccogliendo alcuni commenti che meritano una riflessione. Secondo uno dei miei corrispondenti, si tratterebbe di “un volto tipico da italiano medio”, mentre un altro mi ha assicurato di aver “scorto diverse fisionomie simili nelle valli bresciane”. Ciò fa riflettere soprattutto alla luce del fatto che un recente riesame dei resti fossili neanderthaliani che ci sono pervenuti ha stabilito che quelli ritrovati in Italia, gli esemplari di Saccopastore e di Monte Circeo, sono i più antichi neanderthal conosciuti, risalenti alla bellezza di un quarto di milione di anni fa, e non dobbiamo neppure dimenticare che Argill, l’uomo di Ceprano risalente a 800.000 anni fa è oggi considerato il più probabile antenato comune dell’uomo di Neanderthal e di quello di Cro Magnon (oddio, è vero che di ciò non si parla molto, perché non si è ancora trovata la maniera di far quadrare questo fatto con la “teoria” dell’Out of Africa). E se l’Italia, proprio la nostra Italia avesse esercitato nella storia della nostra specie un ruolo più centrale di quello che siamo soliti pensare?
L’Italia potrebbe essere stata un importante crogiolo nella storia della nostra specie, ma sappiamo che se noi passiamo a considerare la nostra storia genetica non risalendo alle centinaia di migliaia di anni fa, ma all’orizzonte temporale delle migliaia di anni, fino ai tempi storici e attuali, ci imbattiamo in un problema: dobbiamo confrontarci con una visione delle cose “democraticamente corretta” (e quindi ovviamente falsa) secondo la quale gli Italiani come popolo sarebbero caratterizzati dal fatto di abitare una Penisola dai limiti geografici molto ben definiti, da una cultura in gran parte comune (fatto di per sé discutibile), ma da nessuna coerenza in termini genetici. Questa democratica menzogna è spesso ripetuta dai media, sebbene gli studi di genetica ne abbiano dimostrato la totale falsità.
Che ciò sia falso, sfacciatamente falso, l’abbiamo visto più di una volta: le popolazioni italiche sono un ramo degli Indoeuropei che presentano una precisa identità genetica senza la quale – io penso – le grandi culture che si sono sviluppate nel tempo nella nostra Penisola, dagli Etruschi ai Romani, alla civiltà comunale medioevale, al Rinascimento, non sarebbero mai potute esistere, perché l’imbastardimento e il meticciato generano soltanto decadenza, tuttavia a questo dato più volte evidenziato adesso siamo in grado di aggiungere qualcos’altro.
Io vi devo chiedere scusa, ma il web è un mare magnum, e non sono certo le notizie per noi più importanti quelle che ricevono maggiore visibilità, ma sono spesso sommerse da una marea di cose futili o irrilevanti. Solo ultimamente alcuni amici mi hanno segnalato la notizia riportata su ANSA-it del 2008 circa uno studio sulla genetica delle popolazioni europee condotto dal genetista olandese Manfred Kayser, di cui vi riporto uno stralcio:
“L’unicità degli italiani si riflette anche nel loro Dna: lo dimostra la mappa genetica dell’Europa elaborata dal genetista olandese Manfred Kayser e pubblicata dalla rivista Current Biology.
La mappa genetica del Vecchio Continente, che ricorda vagamente quella geografica, è stata creata analizzando il Dna di quasi 2.500 persone appartenenti a 23 sottopopolazioni.
Dallo studio è emerso come gli europei siano abbastanza ‘simili’ tra loro dal punto di vista genetico: le differenze più significative si rilevano tra le popolazioni del Nord e quelle del Sud, forse a causa delle antiche ondate migratorie di uomini preistorici sempre provenienti da Sud.
La mappa, inoltre, evidenzia l’esistenza di due isole genetiche: da un lato quella dei finlandesi, e dall’altro quella degli italiani. Le Alpi, infatti, si sarebbero comportate non solo come barriera geografica, ma anche genetica, impedendo un mescolamento del nostro Dna con quello delle altre popolazioni europee”.
Gli Italiani, dunque non solo hanno una precisa fisionomia etnica e genetica, ma così come i Finlandesi, sono così ben distinti dagli altri Europei da costituire una vera e propria “isola genetica”. E scusate, ma non è possibile non mettere in relazione questa peculiarità genetica con l’eccellenza che il nostro popolo ha sempre dimostrato in campo artistico e culturale. I sinistri con rincalzo di pretaglia assortita, quanti altri con la scusa dell’accoglienza ai falsi profughi oggi ci impongono l’invasione dal Terzo Mondo e il meticciato, stanno di fatto distruggendo questa eccezionalità genetica assieme al futuro dell’Italia e probabilmente non riescono nemmeno a immaginare l’enormità del delitto che stanno commettendo.
E noi, glielo lasceremo fare senza reagire?
NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo, stavolta la dovreste conoscere già, sono stato poco originale, ma mi sembrava di gran lunga la più adatta, l’ho ripresa da “Ereticamente”: il ritratto di Dominique Venner assieme alla poesia dedicatagli da Juan Pablo Vitali, è il minimo che la memoria di questo eroe della causa europea meriti.
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