Di Fabio Calabrese
Come certamente avrete avuto modo di notare, negli ultimi tempi ho considerevolmente ridotto la tendenza agli articoli seriali. Come vi avevo già spiegato, fra tutti, l’unico che avrei intenzione di mantenere a mo’ di rubrica è “Una Ahnenerbe casalinga” (sperando sempre che il paragone con la vera Ahnenerbe del Terzo Reich non risulti troppo presuntuoso) in cui riportare tutte le novità che man mano dovessero presentarsi, sulla tematica delle origini della civiltà europea e dei popoli indoeuropei.
Che si tratti di una tematica che, al di là del discorso prettamente scientifico, abbia anche un’importante valenza politica, su questo non c’è dubbio. E’ ritrovando l’orgoglio delle proprie origini, la consapevolezza di essere fatti di una pasta di gran lunga migliore di quella degli allogeni che oggi invadono il nostro continente, e respingendo tout court il bugiardo mito cristiano, marxista e democratico dell’uguaglianza degli uomini, che noi Europei possiamo intraprendere la strada della lotta per dare un futuro ai nostri popoli, ai figli dei nostri figli.
Va da sé però, che ciò richiede che nuove informazioni compaiano in questo campo, e questa serie di articoli/rubrica è destinata comunque ad avere un carattere piuttosto saltuario che non di appuntamento fisso.
Io credo di avere tracciato già in precedenza un quadro sufficientemente chiaro, tuttavia è una cosa sorprendente di come informazioni più recenti, diciamo pure novità, per quanto questo termine possa suonare paradossale quando ci si riferisce a migliaia o milioni di anni fa, si siano accumulate con velocità che stupisce e rende opportuno un aggiornamento.
Cominciamo con una ricerca che ho ritrovato recentemente riportata in internet sul sito di “Venetikens – Veneti antichi” e che deriva da un comunicato ANSA del 4 marzo 2015, che a sua volta riprende un articolo comparso sulla rivista “Science Nature”. Sembra che il genere homo a cui noi tutti apparteniamo, sia più antico di ben 700.000 anni di quanto si pensasse fino a ora, la sua comparsa risalirebbe a circa 2, 8 milioni di anni fa.
L’articolo mette insieme due ricerche, una compiuta dall’Università dell’Arizona su di un fossile, una mandibola ritrovata nel sito di Ledi-Gerau in Etiopia, l’altra del Max Planck Institute di Lipsia (Germania) è consistita in un riesame dei resti di homo habilis ritrovati in Tanzania negli anni ’50, che sono stati riesaminati con tecniche più moderne di quelle disponibili allora, compresa la scansione computerizzata. Quest’ultima concorda con la precedente, infatti, se il fossile di Ledi-Gerau, risalente a 2,8 milioni di anni fa è il più antico rappresentante del genere homo, il più antico fossile umano finora conosciuto, anche gli homo habilis già noti appaiono più antichi di quanto finora si pensasse.
Quale significato si deve attribuire a tutto ciò. Io vi ho già spiegato che UNA questione è l’origine africana degli ominidi primitivi (australopithecus e simili) o anche di un homo ancestrale risalente, a quanto sembra, a quasi tre milioni di anni fa, TUTT’ALTRA quella dell’origine RECENTE di homo sapiens (anch’essa presuntamente africana secondo l’ipotesi “politicamente corretta” dell’Out Of Africa, o in sigla, secondo la brutta abitudine yankee che non sopporta espressioni troppo lunghe, né il pensare troppo a lungo, OOA). La prima si situa nell’arco temporale dei milioni di anni, l’altra in quello delle decine di migliaia di anni.
Mentre la prima è pacifica, la seconda è fortemente dubbia, e vi sono buoni motivi per ritenerla non un’ipotesi scientifica, ma un’escogitazione propagandistica volta a distruggere il concetto di razza. Non è perlomeno singolare il fatto che mentre della prima la documentazione fossile paleoantropologica ci offre prove a bizzeffe, per quanto riguarda la seconda, la prove sono piuttosto nulle che scarse?
Potremmo persino essere così cattivi da arrivare a dire che tutte le argomentazioni a favore dell’OOA si basano sulla confusione (deliberata o no) fra le due questioni. Poiché Lucy e gli altri ominidi, a cui ora si aggiunge il fossile di Ledi-Gerau, sono stati ritrovati in Africa, tutti noi veniamo dall’Africa. Si, ma quando? Questa derivazione africana si situa a livello remoto degli ominidi primitivi o a quello recente di homo sapiens? Non è la stessa cosa, e questo in ogni caso ci obbligherebbe ad accettare come un fato inevitabile l’immigrazione-invasione africana attuale?
Tutti noi, tutta la vita di questo pianeta ha una remota origine nell’oceano. Questo ci obbliga forse a trasformare le strade in canali dove possano nuotare liberamente tonni, sardine e seppie?
Da un altro lato, è invece evidente che, tanto più antico è il genere homo, tanto maggior tempo c’è stato perché potesse formarsi una differenziazione razziale, quella stessa che si verifica in tutte le forme viventi ma che, stranamente, i democratici negano possa avvenire per la specie umana.
Una persona di cui vi ho parlato altre volte e che merita i più ampi elogi per l’attento lavoro di scavo, ricerca e diffusione delle informazioni, è Luigi Leonini. Ultimamente, Luigi ha segnalato un articolo comparso su “Le scienze” on line in data 3 marzo, Migrazioni preistoriche e lingue indoeuropee. Quest’ultimo è una ripresa di un articolo apparso su “Nature” a firma di Wolfgang Haak. Siamo ovviamente in un orizzonte temporale molto più recente situato nell’arco delle migliaia di anni.
Il metodo che sta alla base della ricerca di quest’ultimo, è quello che abbiamo già visto impiegato diverse volte, ossia l’analisi del DNA allo scopo di scoprire mediante le tracce lasciate negli Europei di oggi, delle varie fasi dell’antico popolamento del nostro continente.
Naturalmente, l’analisi del DNA di per sé non ci può dire nulla circa le lingue parlate attualmente o nel remoto passato, ma ci consente di riconoscere le diverse ondate migratorie che hanno attraversato l’Europa e l’epoca in cui esse vanno collocate, e a questo punto è possibile collegarle in maniera plausibile con l’origine dei linguaggi.
Wolfgang Haak ha analizzato il genoma di 69 antichi europei vissuti fra 8000 e 3000 anni fa. I risultati che sono emersi sostanzialmente concordano con quello che sapevamo già, ma si tratta in ogni caso di un’importante conferma. Come abbiamo già visto da altre ricerche, all’origine delle popolazioni europee, vi sarebbero tre gruppi distinti: prima di tutto i cacciatori-raccoglitori paleolitici, poi due distinte ondate migratorie, una di agricoltori provenienti dall’Anatolia circa 8000 anni fa, e una seconda di allevatori-pastori provenienti dalle steppe eurasiatiche datata a circa 4.500 anni fa.
Noi abbiamo visto che è soprattutto sulla seconda che si fissano i sostenitori dell’ipotesi del nostratico, ma se avessero ragione, quest’ultima avrebbe influito sul genoma degli europei in maniera molto più schiacciante di quanto effettivamente non si riscontri.
Probabilmente, la diffusione dell’agricoltura in Europa non è avvenuta, o non è avvenuta tanto per sostituzione di popolazioni, ma per diffusione culturale; i suoi portatori iniziali potranno anche essere stati coloni di origine anatolica, ma i loro vicini devono essere stati svelti ad assimilare e copiare la novità. E’ indubbiamente vero che quando nell’età moderna le esplorazioni del nostro intero pianeta ci hanno portati a contatto con svariate popolazioni ancora viventi di caccia e raccolta, queste ultime si sono dimostrate assai poco propense ad abbandonare il loro stile di vita per adottare quello basato sull’agricoltura e la sedentarietà, ma si dimentica un fatto fondamentale: queste ultime sono meno intelligenti degli Europei.
L’articolo presenta anche un link a un precedente pezzo pubblicato il 1 luglio 2002, La lingua degli antichi Europei di Elisabeth Hamel e Theo Vennermann. Anche in questo caso, quel che questi due autori ci raccontano, non è un’assoluta novità. In tutte le lingue parlate in Europa, indoeuropee o meno, esiste un tenue strato di fonemi “ultraconservati” che rappresenta lo strato basale di questi linguaggi, quello a cui tutti gli altri si sono sovrapposti, la traccia delle lingue più antiche parlate nel nostro continente, i linguaggi degli antichi cacciatori paleolitici. La cosa singolare, è che questi linguaggi ricostruiti per via deduttiva presentano una forte somiglianza con una lingua parlata ancora oggi, il basco. I Baschi sarebbero ancora oggi i diretti discendenti dei cacciatori-raccoglitori dell’Europa paleolitica.
Se vi ricordate, è qualcosa di cui avevamo già parlato perché il basco, assieme ai linguaggi riconducibili alle popolazioni di ceppo mediterraneo (Etruschi, Minoici, Iberici, Liguri, Pelasgi) e alle lingue ugrofinniche, parlate da Ungheresi, Finlandesi, ma anche Lapponi e svariate altre popolazioni ubicate nell’angolo più orientale e settentrionale del nostro continente, dimostrano che lo schema tripartito semiti-camiti-indoeuropei che la leggenda biblica suppone essere derivati dai tre figli di Noè: Sem, Cam e Jafet, si rivela inadeguato non solo alla spiegazione delle origini dell’umanità, anche solo a quella delle popolazioni di ceppo caucasico “bianco”.
Ci ritroviamo in un percorso “a scala”, dai milioni passiamo alle decine di migliaia, alle migliaia di anni, fino ad avvicinarci quasi alla soglia dell’orizzonte storico. Parliamo delle origini, della natura e – potremmo dire – dell’esistenza di un popolo appartenente al contesto (indo)europeo-mediterraneo. Si, avete indovinato, parliamo proprio di quel popolo italico-italiano al quale suppongo noi stessi perlopiù apparteniamo.
Sul sito del “Nuovo monitore napoletano” apparso recentemente un articolo di Marco Vigna sulla Teoria del pan-italianesimo. Di che si tratta?
Tutti noi abbiamo, credo, una reminiscenza scolastica di Rutilio Namaziano, e dell’appassionata invocazione a Roma che si trova nel De redito suo. “Italiam fecisti ex diversis gentibus unam. Urbem fecist quod prius orbis erat”. Il pan-italianesimo sostiene una tesi inversa a quella di Rutilio Namaziano, ossia non è stato Roma a creare la nazione italiana mediante l’unificazione politica, ma l’Italia come nazione dotata di una almeno relativa omogeneità linguistica e culturale preesisteva ad essa, e ha continuato a esistere dopo la dissoluzione dello stato romano.
Il popolo italico (forse questo termine è preferibile a “italiano” che identificherebbe il fatto culturale e politico piuttosto che quello etnico e genetico) infatti, nascerebbe dalla fusione fra un elemento mediterraneo e uno indoeuropeo; il primo rappresentato da Etruschi, Liguri, Sardi, Corsi, Reti, il secondo da Italici propriamente detti (Latino-osco-umbri), Veneti e Siculi. Entrambi questi elementi sarebbero stati al loro interno composti da gruppi strettamente affini, ragion per cui un’affinità e omogeneità italica sarebbe esistita già da ben prima della conquista romana.
A tutto ciò avrebbe contribuito la forma stessa della nostra Penisola, che si affaccia sul mare per gran parte della sua estensione, e là dove è saldata all’Europa continentale, è anche separata da essa dalla catena alpina, sì che si può parlare di una “insularità” dell’Italia che avrebbe avuto i suoi effetti anche dal punto di vista etnico-biologico.
Io vi ho già in precedenza accennato, e ci sono tornato sopra ultimamente (Esiste il Volk italico?, Eurasia e Mitteleuropa) a quella ricerca pubblicata da Geocities i cui risultati coincidono in pieno con questa concezione del pan-italianesimo, che ci dice che gli Italiani sono un popolo con una precisa identità etnica, variegata nel nord dalla presenza di un elemento celtico, e nel sud da uno greco, ma non in misura tale da non permettere di considerare gli Italiani come un unico popolo, anche se, come precisavano gli autori, le differenze fra gli Italiani delle diverse parti della Penisola sono di solito esagerate per motivi politici. Gli stessi autori si erano aspettati di trovare nel meridione italiano una traccia genetica mediorientale dovuta o alla colonizzazione cartaginese o all’invasione araba della Sicilia, ma essa è risultata ben più flebile di quel che si erano aspettato.
La cosa interessante è però che questa teoria pan-italiana è stata formulata da un autore anglosassone (non so se inglese, americano o altro), Anthony D. Smith nel libro Le origini etniche delle nazioni e, a sua volta , è la ripresa delle tesi di un insigne linguista francese, Michel Lejeune. D’altra parte, si ricorderà che anche la ricerca sulla genetica degli Italiani di cui sopra, è stata pubblicata da Geocities in lingua inglese e, a parte gli stralci da me citati, non mi risulta sia stata tradotta in italiano.
E’ un fatto: parlare del nostro passato, delle nostre origini, non somiglia a una serena disamina di dati scientifici, ma a un incontro di pugilato (anche se ammetto che la cosa non mi dispiace troppo, io sono combattivo di carattere). A dirci che siamo un popolo, una nazione, devono essere gli stranieri, noi Italiani pare proprio che non ne vogliamo sapere, benché si tratti di un fatto assolutamente cruciale: a fare una nazione non sono la cultura, la lingua, le usanze, le tradizioni – tutte queste sono cose accessorie – e tanto meno lo sono lo stato, la lingua, le leggi, la politica, quell’aspetto astratto e formale con cui i democratici, sapendo di mentire, vorrebbero definire le entità politiche. A costituire una nazione è un fatto primario, il sangue, l’eredità etnico biologica, e tutto il resto non conta nulla.
Settant’anni di repubblica democratica hanno spinto gli Italiani a vergognarsi, a voler negare di essere tali: è una colpa gravissima di cui la tirannide che ci governa e si cela sotto il nome ipocrita di democrazia dovrà prima o poi rispondere.
Tuttavia, come ho spiegato più volte e non mi stanco di ripetere, non è per il nostro essere italiani, ma per questa democrazia fecale che bisogna provare repulsione e disgusto.
Della nostra eredità europea, indoeuropea, “bianca” nonché italica, abbiamo solo motivi di orgoglio.
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