12 Ottobre 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, trentaduesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro appuntamento con lo studio dell’eredità degli antenati. Come già l’articolo precedente, anche questo nuovo incontro tratterà di tematiche un po’ disparate perché quelli che ormai ci restano da prendere in considerazione sono una serie di aggiornamenti e di approfondimenti a partire da un’analisi delle nostre origini ormai ben definita nelle sue linee di fondo, anche se – naturalmente – in totale antitesi con la “vulgata” politicamente corretta che a tutti i costi il potere sedicente democratico ci vuole imporre.

Io penso che avrete probabilmente notato che un aspetto della questione che finora non ho trattato molto, è quello relativo all’analisi del DNA, preferendo un approccio che privilegia maggiormente gli studi di tipo storico e archeologico, e questo per una ragione molto semplice: il DNA umano, come quello di tutti gli animali e le forme viventi superiori (a parte cioè batteri e protozoi) è enormemente complesso, e poiché gli esseri umani si riproducono sessualmente e non per talea come le viti, è estremamente difficile seguire lo sviluppo di linee genetiche anche relativamente “pure” attraverso la mappatura cromosomica.

I genetisti finora hanno concentrato i loro studi su due direzioni, lo studio delle mutazioni del cromosoma Y, il cromosoma maschile, che si trasmette esclusivamente per via paterna, i cosiddetti aplogruppi, e il DNA mitocondriale che si trasmette esclusivamente per via materna (i mitocondri sono degli organelli cellulari che sono dotati di un proprio DNA diverso da quello del nucleo; i biologi suppongono che si tratti di antichi batteri assorbiti come simbionti all’interno delle cellule eucariote; poiché lo spermatozoo non possiede mitocondri, essi si ereditano esclusivamente dalla madre).

Si tratta di una serie di ricerche estremamente suggestive e utili a fornirci indizi importanti sulla storia biologica della nostra specie, tuttavia, a mio parere vanno prese con una certa cautela, proprio perché condotte su di una parte molto ristretta del patrimonio genetico. Scusate, ma se io devo confrontare due gruppi di persone, l’uno dalle caratteristiche VISIBILMENTE europee, l’altro dalle caratteristiche VISIBILMENTE africane, il discorso sugli aplogruppi e i mitocondri lascia il tempo che trova.

In internet potete trovare alcune interessanti mappe della diffusione degli aplogruppi sul sito di Ethnopedia (www.ethnopedia.org).

Recentemente (15 giugno), Ethnopedia ha pubblicato uno studio su di un gene molto interessante, che non rientra né fra gli aplogruppi né nel DNA mitocondriale, ma si trova sul cromosoma 2, si tratta del gene LCT connesso alla produzione dell’enzima lattasi che determina la tolleranza al lattosio e quindi la possibilità di usare il latte anche di specie diverse da quella umana e anche in età adulta. Come è facile comprendere, la diffusione di questo gene nelle popolazioni umane è strettamente connessa alla pratica dell’allevamento di animali (bovini e ovini) risalente all’età neolitica e ci dà quindi una traccia importante sull’origine delle prime civiltà, l’abbandono della vita nomade dei cacciatori-raccoglitori paleolitici, a favore di un’economia basata sull’agricoltura e l’allevamento di animali.

Ecco cosa scrive al riguardo Ethnopedia:

“L’avvento del latte animale come alimento per l’uomo è stato reso possibile all’inizio del Neolitico, circa 10.000 anni fa, con il passaggio dalla vita spesso nomade dei cacciatori-raccoglitori alla vita più stanziale basata sull’allevamento e l’agricoltura.

In quel periodo pecore, capre e bovini vennero per la prima volta addomesticati in Anatolia e nel vicino oriente, per poi diffondersi nei millenni successivi nel medio oriente, in Grecia e nei Balcani e, successivamente, in tutta Europa. Attorno al 6400 a.C. capre, pecore e bovini, fonte di latte, erano ormai presenti nel sud e sud est d’Europa”.

C’è qualcosa che non va in questo discorso, e per capirlo è sufficiente osservare proprio la carta che correda l’articolo. E’ del tutto logico supporre che la tolleranza al lattosio sia maggiore nelle regioni dove l’allevamento di animali e l’uso del loro latte per l’alimentazione umana sia più antico, questo perché l’utilizzo di questa nuova fonte alimentare ha senza dubbio innescato un processo di selezione darwiniana che tendeva a favorire coloro che erano in grado di approfittare di questa nuova risorsa alimentare. Abbastanza stranamente la carta riporta (evidenziata in colore più intenso) non la tolleranza ma l’intolleranza al lattosio, ma basta invertire le proporzioni e il risultato è lo stesso. Bene, in Medio Oriente l’intolleranza riguarda il 60-80% della popolazione contro il 40-60% dell’Europa mediterranea, il 20-40% di quella centrale e orientale e il 0-20% di quella settentrionale. Tanto per completare il quadro, diciamo che essa sale all’80-100% nell’Africa nera, nell’Asia orientale e nelle parti più meridionali del Sud America, mentre si presenta a livelli europei in Nord America e in Australia come conseguenza del fatto che queste terre sono popolate da discendenti di coloni di origine europea.

Questi dati si lasciano leggere in un solo modo: l’adattamento al consumo di latte animale, e quindi l’allevamento devono aver avuto origine a nord dell’arco alpino, da qualche parte nell’area germanica o scandinava, e non in Medio Oriente.

Vediamo all’opera una nostra vecchia conoscenza, quello che ho chiamato lo strabismo mediorientale, la tendenza ad attribuire al Medio Oriente una centralità nello sviluppo della storia umana a discapito dell’Europa, che non trova rispondenza nei fatti, una tendenza che a mio parere trova la sua spiegazione nel fatto che il cristianesimo ha posto la bibbia al centro della cultura europea, determinando uno schema d’interpretazione della storia che col tempo è stato articolato, ampliato me rimasto lo stesso nelle sue linee di base, sopravvalutando in maniera sproporzionata le vicende di dubbia storicità che questo “libro sacro” racconta.

Per quanto riguarda l’addomesticamento di animali atti a fornire latte, per quanto riguarda gli ovini, pecore e capre, esso potrebbe essere avvenuto in Medio Oriente prima che in Europa, sebbene non esistano prove conclusive, ma l’addomesticamento dei bovini è certamente avvenuto in Europa, ed è stato probabilmente preceduto dal semi-addomesticamento nomade della renna, e ne ha verosimilmente ricalcato le tecniche. Questo cervide è tuttora allevato dalle popolazioni lapponi secondo uno stile vecchio di migliaia di anni.

L’uro, bos primigenius, l’antenato selvatico delle razze bovine domestiche viveva sul nostro continente fino al XVII secolo e l’ultimo esemplare conosciuto, una femmina, sarebbe morta in Polonia nel 1627. L’uro era del resto ben conosciuto dagli Europei dell’età medioevale, avrebbe ad esempio dato il nome al cantone svizzero di Uri (uno dei tre che hanno fondato la confederazione), e il suo stemma riporta appunto una testa di questo animale.

Wappen_Uri_matt

Una notizia riportata in data 16 giugno dal sito in lingua inglese “dawn.com” a prima vista sembrerebbe avere poco a che fare con le problematiche connesse all’eredità degli antenati. Nella località pachistana di Chitral, la conversione forzata di una ragazza kalash che sarebbe stata costretta a convertirsi all’islam, avrebbe provocato violenti scontri tra membri dell’etnia kalash e mussulmani locali.

In un certo senso, non è una notizia: che l’islam sia una religione rozza e violenta, il cui principale mezzo di apostolato è la forza bruta, il peggio del peggio dei monoteismi, questo lo sapevamo già, come già da un pezzo sapevamo che la sua violenza, la “libera” scelta fra la conversione e la messa a morte, questa religione profondamente misogina sembra riservarla soprattutto alle donne. Inoltre noi come europei possiamo constatare che tutte le volte che la piaga, la cancrena islamica avanza nel nostro continente, questo coincide con un arretramento delle etnie europee di fronte agli invasori venuti dal Medio Oriente e dal Magreb, perché – fuori dai denti – l’islam è la “bandiera religiosa” della sostituzione etnica. Personalmente, e l’ho detto più di una volta, che persino nei nostri ambienti vi siano delle simpatie per l’islam, è una cosa che io trovo assurda e delirante.

Tuttavia, il fatto che questo nuovo episodio di intolleranza e violenza islamica colpisca una volta di più l’etnia e la cultura kalash ormai ridotte a poche migliaia di persone dalle incessanti persecuzioni, ferisce in maniera particolare. I kalash infatti, costituiscono una testimonianza vivente di un importante capitolo della nostra storia remota che si vuole a tutti i costi ignorare: questa popolazione, come i vicini Hunza con cui sono imparentati, presentano delle forti caratteristiche europidi e sono portatori di una cultura autoctona testardamente pagana che ha finora resistito a tutte le persecuzioni da parte dei bruni e islamizzati abitatori delle valli circostanti che non hanno mai smesso di assediarli.

Circa le loro origini, esiste la leggenda che si tratterebbe dei discendenti di una falange perduta dall’armata di Alessandro Magno nel corso della sua avanzata verso l’Indo, ma la verità storica è probabilmente un’altra.

In un articolo apparso sul n. 98 del giugno 1989 su “Airone”, Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell’Afghanistan, Duccio Canestrini riferisce:

“Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese”.

Nove anni dopo (perché non è che nel frattempo il mondo occidentale si sia occupato molto dei Kalash), in un articolo, Figli di Dioniso di Italo Bertolasi che è comparso su “Repubblica” del 16 gugno 1998, si riporta:

“Gli antropologi che li hanno studiati dicono che la loro storia inizia quattromila anni fa con le migrazioni dei popoli indo-ariani attraverso le valli dell’Oxus (l’Amu Darja). L’antica patria cafira poteva trovarsi forse tra le oasi rigogliose dell’odierno Turkestan o tra i pascoli e le foreste che circondavano il Mar Caspio”.

(I Kalash sono anche chiamati Cafiri, dal termine arabo kafir, “infedele”, come dire i non mussulmani, i pagani per antonomasia).

La loro origine potrebbe dunque trovarsi nell’attuale Turkestan, oggi politicamente diviso fra le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e il Sinkiang (Xinjiang per Pechino) oggi sotto dominazione cinese.

In questa regione nella zona di Cherchen sono emerse dalle sabbie di quello che oggi è il deserto del Takla Makan ma un tempo doveva essere un’area molto più fertile e propizia all’insediamento umano, centinaia di mummie dalle fattezze europidi, di alta statura, dai capelli biondi o rossicci che qualcuno ha definito “celtiche”. Si tratta con ogni probabilità di quanto rimane dell’antico popolo dei Tocari un tempo stanziati nel bacino del fiume Tarim. La cosa interessante è che, come ci attestano numerose iscrizioni, i Tocari non solo parlavano una lingua indoeuropea, ma una lingua appartenente al ramo occidentale, “centum” dell’indoeuropeo. (le lingue indoeuropee sono divise in un ramo occidentale comprendente i linguaggi celtici, latini, germanici, il greco e il tocario, e un ramo orientale composto dalla lingue slave e indo-iraniche; questi due rami sono chiamati dai linguisti “centum” e “satem” in base alla forma che assume il numerale cento).

Si tratta di un capitolo importante della nostra storia “politicamente scorretto” e perlopiù ignorato (o che si preferisce ignorare per non urtare l’ortodossia democratica): le tracce di un antico popolamento “bianco” e indoeuropeo dell’Asia centrale che è verosimilmente alla base delle grandi civiltà asiatiche.

I kalash avrebbero doppiamente diritto alla nostra solidarietà, in quanto europidi assediati da un’ondata di popolazioni “brune” e in quanto pagani che ancora resistono all’imposizione della peste monoteista, islamica nello specifico.

Non dobbiamo poi dimenticare che il loro infelice destino è una prefigurazione della sorte che potrebbe toccare anche a noi, man mano che le genti “brune” provenienti dall’altra parte del Mediterraneo si riverseranno sulle nostre contrade; ci troveremo nella loro stessa situazione, a dover difendere palmo a palmo la nostra cultura e la nostra stessa sopravvivenza davanti al rullo compressore nero-magrebino e “culturalmente” (per quanto suoni ridicolo usare questo termine per la più rozza e incivile delle religioni) islamico, perché “l’integrazione” e il “multiculturalismo” tanto cari a democratici e sinistrorsi, non sono altro che favole per incantare i gonzi.

 

2 Comments

  • Giancarlo 29 Luglio 2016

    Molto interessante. Effettivamente il destino che appare oramai segnato per i Kalash, che io considero miei fratelli, appare con ogni probabilità come il prossimo, futuro destino dell’Europa. Complimenti al sig. Calabrese anche se io non sono proprio del suo “ambiente”, inteso in senso politico.

  • Giancarlo 29 Luglio 2016

    Molto interessante. Effettivamente il destino che appare oramai segnato per i Kalash, che io considero miei fratelli, appare con ogni probabilità come il prossimo, futuro destino dell’Europa. Complimenti al sig. Calabrese anche se io non sono proprio del suo “ambiente”, inteso in senso politico.

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