Riprendiamo in mano la tematica delle origini. Io vi ho premesso più volte il fatto che realizzare una serie di lavori come questi, a un livello casalingo, o meglio ancora one man’s band, senza avere certamente a disposizione i mezzi su cui poteva contare la Ahnenerbe del Terzo Reich, sarebbe impossibile senza la grande massa di informazioni fornita dal web, spesso futili e irrilevanti, ma dove un occhio bene addestrato può riconoscere le poche pagliuzze d’oro sparse in mezzo al fango.
Ogni tanto è utile, per usare il linguaggio degli sportivi, ripassare i fondamentali. Noi abbiamo visto che il nostro discorso si è mosso su tre piani distinti; la rivendicazione dell’originalità e creatività della civiltà europea rispetto alle supposte influenze civilizzatrici asiatiche e mediorientali (e questo aspetto più che in questa sede, l’abbiamo esaminato nella serie Ex Oriente Lux, ma sarà poi vero?), e a questo riguardo a mio parere è bene rimarcare il fatto che la più vistosa influenza mediorientale sull’Europa, ossia la cristianizzazione, ha apportato solo elementi negativi di conflitto e di degrado, a cominciare dalla dissoluzione dell’impero romano. Coloro che vorrebbero far cominciare la civiltà europea con il cristianesimo di cui la conquista romana dell’orbe mediterraneo sarebbe stata solo una sorta di premessa, ignorano sia il valore della civiltà romana, sia della costruzione intellettuale ellenica che il cristianesimo ha del pari vampirizzato e stravolto a proprio uso e consumo, per non parlare dell’ingiustamente misconosciuto mondo celtico.
Del pari, scarsamente conciliabili con il cristianesimo sono stati i valori e le tradizioni dei popoli germanici entrati in scena successivamente e che, attraverso il sistema feudale, hanno portato a una ricostruzione di quel che la caduta di Roma aveva lasciato nel caos, e le continue lotte fomentate dall’ideologia cristiana e dalla struttura di potere ecclesiastica contro l’ordine feudale che hanno travagliato il mondo medioevale: lotta per le investiture, guelfi e ghibellini, ne sono una riprova.
Un discorso complementare a questo, è che l’estremo Occidente, la “cultura” (e il termine è enormemente eufemistico) americana, basata su una forma radicale di cristianesimo, quella calvinista, e sull’ossessione biblica, non è che un’appendice dell’anti-Europa d’Oriente, ne è semplicemente l’altra faccia, e nessun atlantismo, nessun filo-americanismo può essere giustificato o compatibile con il nostro punto di vista, soprattutto oggi, a un quarto di secolo dalla scomparsa dell’Unione Sovietica.
Il secondo piano del nostro discorso riguarda l’origine dei popoli indoeuropei, e al riguardo abbiamo visto l’inconsistenza della favola del cosiddetto nostratico che li vorrebbe originati dall’infiltrazione nel nostro continente di tribù di agricoltori mediorientali, laddove invece la genetica e l’antropologia, ma anche le tradizioni comuni, la memoria storica in essi radicata, indicano piuttosto il nord; e al riguardo è opportuno sottolineare il contributo prezioso di Felice Vinci che in Omero nel Baltico ci ha segnalato il fatto che l’archeologia nordica è oggi la grande misconosciuta (sull’ipotesi che anche il contenuto dei poemi omerici sia da trasportare nel settentrione del nostro continente, sappiamo che è fieramente contestata dal nostro Ernesto Roli, e io eviterei di esprimere un giudizio definitivo, ma sul fatto che nel raccontare la storia più antica del nostro continente, il settentrione è volutamente ignorato, non sussiste dubbio alcuno).
A questo proposito, correrò un rischio. Vi dirò di un commento estremamente interessante che ho trovato in internet. Secondo il suo autore di cui adesso mi sfugge, prima della seconda guerra mondiale, si poteva usare un termine appropriato per indicare i popoli parlanti lingue indoeuropee: “ariani”. Dopo la guerra il termine è diventato tabù, il suo uso evoca immediatamente concetti razzisti, e così siamo costretti a sostituirlo con “indoeuropei” che in fondo è una perifrasi. È, commenta, se come per un qualche motivo fosse diventato tabù usare la parola “italiani” e dovessimo dire siculopiemontesi.
Il terzo piano del nostro discorso è il più ancestrale, parliamo dell’origine della nostra specie homo sapiens che la scienza ufficiale piegata al dogmatismo dell’ortodossia democratica vuole identificare nel continente africano, basandosi sulla deliberata confusione fra l’origine degli antichi ominidi milioni di anni fa, e quella della nostra specie qualche decina di migliaia di anni fa. La favola dell’origine africana ha palesemente lo scopo di negare l’esistenza delle razze e di indurci ad accettare senza resistere l’invasione di milioni di africani che oggi si riversano sul nostro continente.
A ben guardare, però, c’è anche un quarto piano che è venuto ad aggiungersi alla nostra costruzione, ed è quello della smentita di altre due favole che costituiscono la struttura portante dell’ideologia democratica: la presunzione della “naturale bontà” dell’essere umano, per la quale la violenza e la guerra sarebbero il frutto delle società organizzate, della suddivisione della società in classi, della civiltà, della proprietà privata, e l’ideologia progressista che vede la storia come un costante sviluppo ascendente (lasciamo stare il fatto di quanto queste due idee siano fra loro in conflitto e costituiscano una contraddizione evidente alla base dell’ideologia democratica, che difatti oscilla costantemente fra l’utopismo “rivoluzionario” e le “magnifiche sorti e progressive”).
Per quanto riguarda la prima questione, possiamo ricordare i reperti nubiani venuti alla luce negli anni ’60 con i lavori per lo spostamento del complesso templare di Abu Simbel che sarebbe andato sommerso con la formazione del lago Nasser sul Nilo. Questi reperti sono rimasti occultati in un magazzino senza essere studiati per oltre mezzo secolo. Chi li ha ritrovati, probabilmente si è reso canto di aver messo le mani su di una bomba che avrebbe potuto deflagrare scuotendo l’ideologia democratica dalle fondamenta. Essi risalgono a 9.000 anni fa, e sono la prova del conflitto fra una popolazione bianca probabile antenata degli Egizi, e una nera.
Ancora più rilevante, anche se risalente a un’epoca di poco posteriore, la scoperta dei fossili umani ritrovati a Natatuk in Kenia: qui abbiamo le prove di uno scontro fra due bande di cacciatori nomadi conclusosi con uno sterminio feroce che non ha risparmiato né bambini né una donna incinta che è stata crudelmente seviziata. Cacciatori nomadi, cioè proprio i “buoni selvaggi” che secondo l’idea rousseauiana ancora largamente diffusa a sinistra, dovrebbero essere miti e pacifici per definizione.
L’altra fola complementare alla base dell’ideologia democratica è la favola progressista. Rimuoviamo Platone, Aristotele, Cartesio e Kant dal cuore della nostra cultura e sostituiamoli con Pollyanna: tutto alla fine andrà sempre per il meglio. Il progressismo è l’idea che la storia umana segue uno sviluppo lineare verso mete sempre più elevate (con la bizzarra eccezione, per la verità, dei mille anni all’incirca che vanno dalla caduta dell’impero romano alla scoperta dell’America). Questa concezione obbliga a ritenere che non possano essere esistite civiltà di livello elevato in quella che noi chiamiamo preistoria, perché questo implicherebbe che anche la nostra civiltà di cui siamo tanto orgogliosi, potrebbe un giorno crollare e cadere nell’oblio, eppure i fatti che la contraddicono non mancano di certo.
Ne abbiamo visto più volte diversi esempi; uno per tutti, agli inizi del novecento, nella località francese di Glozel, un giovane agricoltore, un ragazzo di sedici anni, Emile Fradin, scoprì migliaia di reperti consistenti in vasi, statuette e tavolette scritte in una scrittura sconosciuta. Questi reperti, cui sembrerebbe si debba attribuire un’età di 8.000 anni, furono subito etichettati come un falso da archeologi che non si erano nemmeno degnati di esaminarli, né tanto meno si erano posti il problema di come avrebbe potuto un ragazzo sedicenne e semi-analfabeta architettare una falsificazione di questa ampiezza e complessità.
No, per l’archeologia ufficiale NON CI DEVONO ESSERE testimonianze di civiltà più antiche di quelle egizie e mesopotamiche, e soprattutto non in Europa. Io mi immagino la soddisfazione di costoro se fosse possibile far scomparire con un colpo di bacchetta magica Stonehenge e i templi maltesi che, oggi lo sappiamo senza ombra di dubbio, pure essi sopravanzano per antichità almeno di un migliaio di anni le piramidi di Giza e le ziggurat.
In tempi recenti il caso si è ripresentato con le piramidi bosniache di Visoko. Queste ultime, che sembrerebbero essere molto più grandi e antiche di quelle egizie, sono tuttavia costituite non di blocchi di granito ma di terra compressa e sebbene, a detta dell’archeologo Semir Osmanagic che le ha studiate, sono troppo regolari per essere delle formazioni naturali casualmente simmetriche, questa è invece appunto l’opinione dell’archeologia ufficiale.
Ciò che ha reso finora debole la posizione di Osmanagic, è il mancato ritrovamento di manufatti. Bene, adesso qualcosa l’abbiamo, infatti, come riferisce il “Daily Mail” del 7 aprile (articolo di Sarah Griffiths), il ricercatore bosniaco ha ritrovato nella foresta di Podubravlje non distante dalla città di Zdanovici, sempre nella stessa zona di Visoko, un’enorme sfera di pietra, chiaramente lavorata dall’uomo, che sembrerebbe coeva delle piramidi stesse. L’immagine che correda questo articolo, ripresa appunto dal “Daily Mail”, è una foto del ricercatore bosniaco accanto al reperto da lui trovato e parzialmente scavato.
Torniamo sull’altro tema di quello che costituisce quello che abbiamo chiamato il quarto piano del nostro discorso. Sembra che la ricerca scientifica quando è condotta senza paraocchi, senza voler arrivare a interpretazioni precostituite, abbia il potere di dissolvere le illusioni utopiche su cui si fonda l’ideologia democratica senza lasciare loro scampo.
A marzo di quest’anno è stato pubblicato uno studio, “Race, Wealth and Incarceration: Results from the National Survey of Youth” di tre ricercatori americani: Khain Zaw della Duke University, Darrick Hamilton della New School of Economics di New York, e William Darity anch’egli della Duke University. Questo studio aveva lo scopo di dimostrare che la maggiore frequenza di popolazione carceraria nera rispetto alla popolazione generale degli Stati Uniti dipenderebbe da condizioni di inferiorità sociale in cui tuttora la popolazione di colore si troverebbe rispetto ai bianchi, e occorre notare che mentre Zaw è di origine cinese, Hamilton e Darity sono neri.
Lo studio ha analizzato i dati forniti dal US Boureau of Labor (il ministero del lavoro americano) che riguardano un campione di varie migliaia di persone attraverso vari decenni.
Bene, i tre ricercatori si sono dovuti arrendere all’evidenza: la tendenza a delinquere dei giovani afroamericani, nettamente più spiccata nei confronti della popolazione bianca o asiatica o ispanica, soprattutto per quanto riguarda i reati violenti, non sembra dipendere in alcun modo da fattori sociali come lo status socio-economico della famiglia di origine, ma è riconducibile a fattori genetici. A parità di status socio-economico, i neri delinquono 5 volte di più dei bianchi o degli ispanici.
La cosa che francamente stupisce di più, è che i tre ricercatori siano stati tanto onesti da pubblicare questi risultati.
Sul tema della fallacia dell’idea progressista è recentemente tornato Maurizio Blondet in un articolo pubblicato sul suo sito EffeDiEffe in data 9 febbraio: Come si diventa selvaggi. L’autore espone un complesso di idee che ci sono familiari. I cosiddetti selvaggi potrebbero essere non dei “primitivi” ma i resti degenerati di culture un tempo evolute. La civiltà umana potrebbe essere molto più antica di quanto generalmente non si pensi, e nulla esclude che potremmo un domani anche noi decadere e ritornare allo stato selvaggio, che l’archeologia ci mostra ancora tutto intorno a noi i segni di antiche civiltà che ci rimangono enigmatiche.
Anche Blondet si riferisce qui a Stonehenge e ai templi maltesi (strano però che tutti, lui compreso, si dimentichino o non siano a conoscenza dei complessi megalitici esistenti nel centro dell’Europa, come Externsteine e Gosek), evidenzia che tuttora ci sfugge la conoscenza che ha guidato a realizzare Stonehenge e altri complessi megalitici secondo precisi allineamenti astronomici, e fa un’osservazione inedita e interessante: il menhir celtico è in sostanza una proiezione in dimensioni accresciute della bifacciale magdaleniana. L’uno e l’altra sono materializzazioni di uno stesso simbolo, tracce di una tradizione culturale e probabilmente religiosa di cui ci sfugge il significato.
In realtà si tratta di un complesso di idee che ci sono familiari, che fanno parte per così dire del nostro DNA, queste idee le ritroviamo in Julius Evola, tanto per cominciare, e in tutta la nostra pubblicistica, e come non menzionare il libro Involuzione, il selvaggio come decaduto di Silvano Lorenzoni, che è probabilmente la rassegna più completa degli argomenti a sostegno di questa tesi?
Da questo punto di vista, non ci sarebbero grosse novità, ma vorrei aggiungere che queste tesi non vengono realmente a conflitto con la visione biologica darwiniana, una volta che si separi il concetto di evoluzione culturale da quello di evoluzione biologica (quest’ultimo, infatti, a differenza del primo, va considerato su una scala dei tempi estremamente lunghi, ed è chiaramente compatibile con involuzioni culturali), anche se naturalmente falcia l’erba sotto i piedi alla versione corrente e volgarizzata, ma sostanzialmente mistificata rispetto alla visione darwiniana, dell’idea di evoluzione. Ve ne ho parlato nel mio articolo su Il gene egoista.
Man mano che il tempo passa i nuovi dati si accumulano, e c’è da chiedersi fino a quando la dominante ideologia democratica riuscirà ancora a mantenere tabù certi argomenti, ma man mano che si sforza di impedire che circolino le conoscenze che potrebbero metterla in crisi, tanto più svela il suo carattere tirannico.
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