Come il mito del 25 Aprile ha oscurato il giorno della fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia
Il Secondo conflitto mondiale terminò ufficialmente con la firma della resa del Giappone il 2 Settembre 1945, annunciata con un discorso dall’Imperatore Hirohito il 15 Agosto precedente, dopo i due bombardamenti nucleari che avevano sterminato la popolazione di Hiroshima e Nagasaki.
La guerra in Europa si era conclusa alcuni mesi prima: il 2 Maggio in Italia, con la resa delle Forze Armate italo-tedesche sul fronte italiano; e l’8 Maggio in Germania, con la definitiva occupazione di Berlino da parte degli Alleati.
Di tutte queste date, quella del 2 Maggio è sicuramente la più ignorata, si direbbe cancellata dai libri di scuola. Questo per una speculazione politica che venne fatta nel primo dopoguerra quando, durante la costruzione del mito della Resistenza[1], si elevò a data-simbolo della nuova Italia il 25 Aprile. Una data che doveva richiamare la cosiddetta “insurrezione partigiana”, ossia l’inizio di quel movimento insurrezionale compiuto dal popolo italiano, che pose in rotta i Tedeschi e determinò la fine alla Seconda Guerra Mondiale in Italia.
Fu così che il 25 Aprile divenne per tutti la data ufficiale della fine del conflitto, con una forzatura che lascia perplessi. E questo per una serie di considerazioni.
Prima di tutto, quel giorno non avvenne nessuna insurrezione partigiana, almeno nell’accezione con cui viene presentata. Secondo, perché – con tutto il rispetto che si deve a chi sacrificò la propria vita per degli ideali – l’apporto militare della Resistenza alla guerra condotta dagli Alleati contro la RSI e la Germania fu, nel quadro generale del conflitto, nullo. Terza, ma non meno importante evidenza storica, il 25 Aprile 1945 non finì affatto la Seconda Guerra Mondiale in Italia.
Non si erra se si afferma che quel giorno non accadde “nulla” di realmente eccezionale: la guerra era praticamente conclusa già il 21 Aprile precedente, con l’occupazione di Bologna, che aprì ai carri armati angloamericani le porte della Pianura Padana. Nella notte tra il 23 e il 24 Aprile, le unità della Repubblica Sociale Italiana avevano ricevuto l’ordine di ritirata verso la Valtellina e il 24 Aprile, infine, si seppe che gli Alleati avevano varcato il Po, simbolo eloquente dell’irreversibile collasso militare italo-tedesco e di una guerra ormai finita.
Quindi, fu tra il 21 e il 24 Aprile che si verificarono gli eventi fondamentali: si registrò la rottura del fronte (da parte degli Alleati); la ritirata generale (dei Tedeschi); l’ordine di concentramento in Valtellina (per i reparti della RSI).
Una semplice analisi cronologica dei fatti che viene però totalmente ignorata.
In questo contesto, come è evidente, la guerriglia non ebbe un ruolo effettivo. Questo non vuole dire che in quei giorni non ci fu un’attività partigiana di rilievo, ci mancherebbe altro. Ma questa attività fu secondaria e, con tutto il rispetto per chi cadde in combattimento, non contribuì ad accelerare la fine della guerra neanche di un minuto. Del resto, l’attività principale dei ribelli fu quella di attendere l’arrivo degli Alleati, magari compiendo dei “gesti di forza” quando le unità italo-tedesche – certo il prossimo arrivo dei carri armati angloamericani – si apprestarono all’uscita dalle città e alla ritirata verso Nord.
Ma allora? Perché il 25 Aprile è stato scelto come simbolo? Come è stato possibile che una data non avente connessione con la realtà dei fatti, sia assurta a festa nazionale; una festa partigiana, ossia di parte, declamata come “festa di tutti”?
Ovviamente, c’era da la necessità da parte della sinistra di presentarsi come protagonista degli eventi, mascherando il volto del comunismo stalinista di cui era agente. In più, la nuova Italia che sorgeva dalle macerie della guerra, doveva trovare un mito sui cui basarsi. Una necessità condivisa anche dalla Democrazia Cristiana. Ma questo modo di procedere, significava dividere gli Italiani, non unirli. E lo si vide bene quando il mito della Resistenza venne “riutilizzato” politicamente negli anni ’60. Il PCI, ormai abbandonata la via rivoluzionaria, intese recuperare terreno per inserirsi nell’area di Governo, sbarrando – anche con la violenza – il passo al MSI, che poteva essere una sponda per alcuni settori della DC. Da qui il recupero del “modello CLN”, utilizzato ancora una volta come “cavallo di troia” dal PCI, e l’avvio della stagione dell’antifascismo militante che sfocerà, poi, nella lotta armata degli anni ’70.
L’utilizzo dell’antifascismo come instrumentum regni, per mascherare ancora una volta il vero volto del comunismo. Dovette intervenire nel 1993 un Professore del calibro di Renzo De Felice per evidenziare la speculazione in atto: se tutti i democratici erano antifascisti, non tutti gli antifascisti erano democratici. Del resto, la Resistenza non fu affatto un fenomeno unitario, ma fu profondamente divisa al suo interno. I ribelli rimasero divisi durante la guerriglia – arrivando a spararsi tra loro (cfr. Strage di Porzus) – ed anche nel dopoguerra, con la nascita di associazioni partigiane “concorrenti”[2], cosa che si dimentica sovente nei contemporanei appelli all’“unità antifascista”. Un tentativo di unire il “diavolo e l’acquasanta” contro un nemico immaginario, per distogliere l’attenzione da problemi reali che non si riesce a risolvere o di cui si è la causa.
Il neofascismo ha sempre contestato la sacralità di questa ricorrenza, arrivando a rivendicare in quel giorno la fedeltà a quell’Idea di cui si celebrava la morte. Il 25 Aprile 1950, ad esempio, veniva fondato il giornale “L’Ultima Crociata”, organo della costituenda Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI. Il 25 Aprile 1960, nella sede centrale della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Via Santa Eufemia a Roma, veniva fondata Avanguardia Nazionale. Tuttavia, con il passare degli anni, questa “imposizione culturale” è penetrata anche all’interno di alcuni gruppi neofascisti che proprio il 25 Aprile sono soliti ricordare i caduti della Repubblica Sociale Italiana. Perché? Cosa c’entra questa data la RSI? Nulla, ma l’egemonia culturale della sinistra – tipica della visione totalitaria di cui è figlia – ha portato ad un’assuefazione a certi miti, a certi simboli, senza eccezioni di sorta. E questo nonostante che per anni l’Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI abbia indicato come quella del 28 Aprile – giorno della morte di Mussolini e degli altri gerarchi – la data da dedicare al ricordo dei “Martiri”.
Diverso il caso della destra contemporanea, che riconosce al 25 Aprile un valore, ma non quello che, ovviamente, vuole dargli la sinistra. La destra, erede di quelle correnti politiche (minoritarie) che ritroviamo nella Resistenza monarchico-badogliana, ma anche in quella cattolica o “autonoma” a carattere patriottico, ha tentato di fare di questa data partigiana – ossia di parte – una “festa di tutti” in salsa tricolore, spogliandola del suo volto politico, sorvolando sul comunismo della maggior parte delle formazioni partigiane, glissando sugli eccedi compiuti dai ribelli, con una forzatura evidente. Anche in questo caso dipingendo una realtà artefatta, politicamente corretta, lontana dai fatti storici. Una “festa di tutti” nuova, stranamente ricercata dopo che è stata abolita la Festa della Vittoria del 4 Novembre, che era realmente la festa di tutti gli Italiani…
Ancor oggi, il 25 Aprile è per molti Italiani solamente un “giorno di vacanza”. Tanti ignorano il vero significato, nonostante i miliardi di Lire e i milioni di Euro destinati alla “memoria della Resistenza” e la mobilitazione totalitaria di tutte le Istituzioni italiane, dal Presidente della Repubblica all’ultimo dei Presidenti di Circoscrizione[3].
Prolificano, invece, iniziative alternative, dalla festa di San Marco – con l’omaggio al Battaglione dei Fanti di Marina – al compleanno di Guglielmo Marconi, solennità civile istituita dal Regime fascista con la Legge n. 276 del 28 Marzo 1938-XVI, abolita infine solo il 22 Dicembre 2008… da un Governo di centro-destra, il Berlusconi IV!
Non si è potuto ancora eliminare la data di fondazione di Aprilia (25 Aprile 1936-XIV), né quella di Pomezia (25 Aprile 1938-XVI). E qui l’imbarazzo, in quel giorno, raggiunge livelli comici.
Anche contro tale impostazione “patriottica”, di destra, aveva argomentato il 24 Aprile 1955 Giorgio Almirante, con un articolo dall’eloquente titolo Non è festa. Appello agli Italiani, che riportiamo integralmente per delle riflessioni che forse vale la pena evidenziare:
Dunque domani è festa.
La legge del mio Stato comanda che domani sia festa. La legge della mia moralità, del mio carattere, della mia vita, la legge del sangue comanda che domani sia giorno di lutto. Se obbedisco allo Stato, vengo meno a me stesso. Se obbedisco a me stesso, lo Stato mi pone di fronte ad una silenziosa e tremenda alternativa: andarmene a cercare la libertà altrove, o subire in Patria la costrizione altrui. Alla medesima alternativa furono posti di fronte gli antifascisti, e se ne andarono, anteponendo – secondo il loro costume – la libertà alla Patria. Ma lo Stato di allora aveva il coraggio delle proprie posizioni. Si dichiarava fascista e antidemocratico. Diceva di volersi costituire a regime. Toglieva in libertà quello che aggiungeva in stabilità. Toglieva in democrazia quello che garantiva in ordine. Era un sistema, in sé stesso coerente. Con gli avversari, duro ma leale. Lo Stato di oggi è ipocrita: non per nulla sue levatrici furono De Gasperi e Togliatti. Lo Stato di oggi mi comanda di festeggiare l’avvento della libertà nel momento stesso in cui mi toglie la libertà più elementare e più umana: quella di non far festa quando il mio cuore e la mia mente sono in lutto. E poiché non è nostro costume anteporre la libertà (vale a dire la legge dei comodi propri) alla Patria, poiché tra i fascisti nessuno ha reclutato fuorusciti, questo Stato ci pone dinanzi ad una alternativa fittizia ad una costrizione reale: bisogna accettare la legge democratica, vale a dire la legge del più forte; e, in attesa di tempi migliori (che verranno) spiegare sospirando ai nostri figli, che non videro la tragedia, ma vedono ignari il pianto, che domani ci sono le bandiere alle finestre perché la strage dei nostri Amici più cari è festa per la Nazione. Dunque domani è festa; ma è la festa della non libertà. È la festa del regime antifascista, succeduto in virtù delle armi straniere al regime fascista. Ogni regime sceglie le sue feste e i suoi decennali; e così si qualifica. Padronissimi gli antifascisti di qualificarsi come “quelli del 25 Aprile”. Se ragionassimo come uomini di parte, diremmo: accomodatevi. Se mirassimo soltanto al nostro utile politico, penseremmo: CHE FORTUNA POTERCI DISTINGUERE DA LORO SUL METRO DEL 25 APRILE, di una data che la pubblica opinione NON SOLO ITALIANA MA MONDIALE NON DISGIUNGERA’ DAGLI ORRIDI CEFFI DEGLI ASSASSINI COMUNISTI DI PIAZZALE LORETO! Scegliete, antifascisti, le compagnie che preferite; ma dopo averle scelte non lagnatevi se l’inesorabile: e ti dirò chi sei, vi raggiungerà. Celebri il 25 Aprile? Walter Audisio è la tua compagnia. Sei degno di Walter Audisio. Voi ponete noi dinanzi ad una costrizione fisica e giuridica. Noi siamo molto più forti: vi teniamo chiusi in una galera morale, dalla quale non uscirete se non quando avrete avuto il coraggio di spezzare i legami ciellenisti. E smettetela di far danzare sul fondo del caleidoscopio della vostra storiografia di comodo, la stolida teoria delle “ombre”. Se Audisio fu soltanto un’ombra, se ombre, vale a dire eccezioni, furono Moranino, Moscatelli, Ortona, Gorreri e tutti gli altri innumerevoli delinquenti comuni, la luce qual è, qual è – dov’è? – la regola positiva? Sono passati dieci anni, la metà di un Ventennio. Avanti resistenti: mostrateci lo spiraglio di luce in mezzo a così fitte tenebre di sangue. Dimostrate di aver fatto, davvero, una rivoluzione. Storicamente, se non moralmente, la rivoluzione può giustificare anche il sangue. La rivoluzione francese ne versò: meno di voi; ma ne versò tanto. Nessuno ha redento i massacratori di allora dalle loro colpe; orrida è tuttora la memoria della maggior parte di essi; ma la rivoluzione c’è stata e ha manifestato, anche negli errori, la sua grandezza. Ha lasciato dottrine, leggi, una sua moralità, un suo costume, sue tradizioni. Alcuni tra i suoi protagonisti giganteggiano. Nel decennale della “resistenza”, vorremmo essere invitati non soltanto alla celebrazione dei massacri, ma anche alla constatazione delle mete rivoluzionarie raggiunte, al bilancio delle positive realizzazioni. Quale Italia abbiamo intorno a noi dopo mezzo ventennio di codesta rivoluzione da grand-guignol? Ad essere benevoli nell’interpretazione, a voler mettere accanto – e ne chiediamo venia – un De Gasperi ad un Orlando, uno Scelba ad un Don Sturzo, ci hanno restituito RIMPICCIOLENDOLA, l’Italia prefascista: stessi errori, stessi metodi, stesse debolezze, stessa crisi di sistema, stesso equivoco di fondo. Con l’aggiunta di un partito comunista e di un partito democristiano monopolista dell’intrallazzo. Il Parlamento è quel che fu: peggiorato. Il disordine legislativo è quel che fu: aggravato. L’incertezza giuridica è quella che fu: accentuata. Il marasma sociale è quel che fu: esasperato. Lo Stato è nave con troppi nocchieri in gran tempesta. Arbitri assoluti, financo della scelta del Presidente della Repubblica, son i direttivi dei partiti politici. Nella più Alta Assemblea suonano parole d’incitamento pubblico al tradimento e alla diserzione. In entrambi i rami del Parlamento siedono numerosi i pregiudicati per reati comuni. La Costituzione, che pur tanto sangue costò, giace inevasa e negletta. A nessuna solida riforma si è posta mano. Contro la marea montante della disoccupazione nessun argine sociale; nessuna diga economica contro le speculazioni più folli e sfrontate. Eserciti sovversivi, liberamente organizzati sotto gli occhi del potere costituito. Scandali a catena e scioperi a singhiozzo. Il senso morale in frantumi. La gioventù preda dei mali esempi. Le peggiori mode straniere dilaganti. Cristo rimosso dalle scuole cui la TIRANNIDE l’aveva restituito: il marxismo in cattedra. Riaperta nelle coscienze la questione religiosa. Guelfi e Ghibellini in piazza. Diviso ogni Comune, ogni borgo: contaminata dalla peggior politica l’amministrazione. Regionalizzata l’Italia, insidiata l’unità nazionale. La dignità della Patria svilita da mandrie di sciuscià promossi alla vita politica. Insuperbito qualsiasi predone straniero dalla possibilità di manomettere le carni martoriate d’Italia. Quale di tali successi celebrerete domani, “resistenti”? Bando alle ipocrisie: voi vi accingete a celebrare soltanto il vostro personale successo, voi festeggiate l’ambizione per vent’anni repressa e in un decennio scatenata, voi vi compiacete, fino al narcisismo, per il potere politico finalmente conquistato, voi brindate alla poltrona in coppe piene di sangue ITALIANO. E non ci dite che dei Morti avete rispetto. Consentiteci di dirvi che persino dei vostri morti abbiamo più rispetto noi. I morti nostri e vostri vogliono silenzio; vogliono pace. Avete offeso chi, in buona fede, cadde dieci anni fa nelle vostre file, perché – ottimi discepoli di Roosevelt – avete tradito i solenni impegni di allora. Non li offendete ancora. Quel che di spontaneo o di generoso poté esservi dalla vostra parte non merita il postumo oltraggio della celebrazione da parte di Audisio o di Sereni.
Tacete, dunque. Domani – LA CARITA’ DI PATRIA COMANDA PIU’ DELLA LEGGE ANTIFASCISTA – non è festa[4].
Ovviamente, si trattava di un articolo “di parte”, di un dirigente politico che nella RSI aveva avuto un ruolo importante, ma il suo contenuto ci aiuta a comprendere perché il 25 Aprile non poteva essere la “festa di tutti”. Anche perché il pensiero di Almirante rispecchiava quello di milioni di Italiani e non solo dei fascisti del MSI che, in quegli anni, comunque, erano tutto tranne che una fazione marginale nel panorama politico nazionale: nelle elezioni del 1953 avevano preso 1.582.154 voti, pari al 5,84%. A meno che non si voglia privare i fascisti – e, in generale, chi non fa professione di antifascismo – di ogni dignità, negando loro, come fecero i partigiani di sinistra, l’essere Italiani, l’essere uomini.
Come è avvenuto per la canzone Bella Ciao, che non è mai stato un canto partigiano essendo stata scritta da elementi politicizzati solo nel 1953[5], ma è diventata – incredibilmente – il canto della Resistenza per antonomasia, l’unico canto della Resistenza conosciuto, si è voluto creare forzosamente un mito, una leggenda politica a carattere pedagogico, che nel corso dei decenni si è cristallizzato nella memoria collettiva, con effetti, per l’appunto, totalitari.
Utilizzando questa data non ci si richiama ad un ordine di insurrezione generale nazionale (mai esistito) – che avrebbe posto in fuga le unità italo-tedesche e permesso la conquista delle città dell’Italia settentrionale dal popolo in armi – ma, più modestamente, ad un ordine che il Comando partigiano di Milano diede, come evidenziò Franco Bandini, solo nelle prime ore del 26 Aprile – ripetiamo: 26 Aprile – alla Guardia Repubblicana di Finanza, ossia i Finanzieri della Repubblica Sociale Italiana da tempo in rapporti con i Comandi della Resistenza, di occupare gli edifici pubblici del capoluogo lombardo. Edifici pubblici, tanto per essere ancor più chiari, deserti ed abbandonati dai fascisti già da alcune ore; tanto che, nel dopoguerra, questo ordine venne anticipato al 25 Aprile, facendo così nascere il mito dell’insurrezione partigiana (dei Finanzieri della RSI?), che avrebbe messo in rotta le Forze Armate italo-tedesche e permesso così la conclusione vittoriosa della guerra.
Se vi fu “insurrezione” quel giorno a Milano, ma anche negli altri capoluoghi dell’Italia settentrionale, fu fatta contro reparti già in ritirata e con i carri armati angloamericani a pochi chilometri. Le fabbriche furono occupate essenzialmente da operai disarmati o scarsamente armati, che mai avrebbero potuto resistere ad una reazione italo-tedesca. Altro, di certo, non era possibile fare e l’utilizzo dei Finanzieri della RSI per occupare i deserti edifici pubblici di Milano è il simbolo più concreto di questa insurrezione partigiana che non ci fu, almeno nel senso di come è stata presentata in questi decenni[6].
Si pensi che i Tedeschi e le SS trincerate all’Hotel “Regina” a Milano non furono minimamente interessati dalle operazioni “insurrezionali”: furono prelevati il 30 Aprile dagli Statunitensi e portati in prigionia di guerra. Un episodio emblematico che mette una pietra tombale sull’insurrezione milanese[7].
Sempre a Milano, la Decima MAS rimase in armi fino alle 17:10 del 26 Aprile, quando il Comandante Borghese decise di sciogliere ufficialmente il reparto con il “saluto al Duce”[8] e porre in libertà i suoi uomini. Nessuno pensò di attaccare la caserma di Piazzale Fiume dove i Marò erano acquartierati:
La Decima, dopo aver pensato di riprendere il controllo della città per consegnarla in ordine agli Angloamericani, non attuava il suo progetto, parte per timore che la cosa non fosse gradita ai Tedeschi, e deponeva le armi la mattina [sic; leggasi “il pomeriggio”] del 26 con una solenne cerimonia presenziata da tre Medaglie d’Oro Borghese, Gemelli e Borsani. E per quel giorno nessuno fu molestato e molti camerati riuscirono a eclissarsi in tempo. Poi cominciò il caos e non si vide mai un così pazzo furore di sangue. Le truppe anglosassoni, in omaggio al vecchio principio che i negri cominciano a Calais, aspettarono di entrare in città e così vi si poterono commettere un numero imprecisato, ma altissimo di delitti, non trascurando neppure la più raffinata tecnica della classica scenografia macabra, come esposizioni, ecc.[9]
I 20-25.000 fascisti rimasti a Milano come “presidio ideale” smobilitarono tranquillamente per intervento diretto del Capo Gabinetto del PFR Augusto Cantagalli, in accordo con l’Agente italiano affiliato all’OSS statunitense Col. Giovanni Battista Calegari, alle ore 13:00 del 26 Aprile.
I massacri di fascisti che si verificarono in quella Primavera di sangue del 1945, non iniziarono come sovente si dice il 25 Aprile, ma già dallo sfondamento della Linea Verde che portò all’occupazione di Bologna il 21 di quel mese. Poi, certamente, ci fu una progressione, soprattutto quando si seppe che gli Alleati avevano varcato il Po e, quindi, nessuno più avrebbe fermato il rullo compressore angloamericano. Per settimane, contro uomini, donne, ma anche ragazzini, si scatenò un odio bestiale come mai si era registrato nella storia della nostra Nazione. Uomini, donne, ragazzi, disarmati ed inermi, assassinati a fine guerra in una mattanza di cui è rimasta memoria grazie al coraggio di pochi studiosi come Giorgio Pisanò, Gianfranco Stella, Giampaolo Pansa, solo per fare qualche nome. Pensare che il 25 Aprile, data questa realtà, possa essere la “festa di tutti” o forse anche solo una “festa” ci lascia perplessi. Davanti alle vittime di un’epurazione politica selvaggia e non giustificata, se non nell’ottica della conquista di potere da parte del PCI – la vendetta e l’odio per noi non hanno mai giustificazione alcuna -, forse si dovrebbe meditare diversamente, come ha evidenziato Dimitri Buffa in un articolo comparso sulle colonne de “Il Tempo” dall’eloquente titolo: Vendette, sangue, stragi. C’è poco da festeggiare: “Assassinii di gente inerme. A sangue freddo. Qualcuno per vendetta, molti per instaurare il nuovo ordine comunista in Italia. La resistenza dei partigiani comunisti è stata soprattutto questo”[10].
Lo stesso Marcello Veneziani ha coraggiosamente scritto non di celebrare il 25 Aprile, “perché non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie”[11].
Ma torniamo alla Milano di quel 25 Aprile 1945. Quel giorno, vi fu il famoso incontro all’Arcivescovado tra i rappresentanti del CLNAI e quelli della RSI. Mussolini si era presentato per concordare una incruenta cessione dei poteri, rimanendo disgustato dall’atteggiamento degli antifascisti che chiedevano invece una resa incondizionata. Fu durante questi colloqui che venne edotto della resa dei reparti germanici sul fronte italiano. In questo clima crepuscolare, i rappresentanti del CLNAI, non trovando un accordo, dichiararono che avrebbero comunque scatenato l’insurrezione generale.
Mussolini non diede nessun credito e nessuna soddisfazione a coloro che si erano presentati con tali richieste e lasciò sdegnato la riunione. Analizzata la grave situazione, dopo aver sciolto dal giuramento i reparti, decise – tra le 19:30 e le 20:00 – di abbandonare Milano dirigendosi a Como, beffando così, in modo clamoroso, tutto il CLNAI che, ovviamente, ancora non aveva scatenato la tanto minacciata insurrezione. Mancando Mussolini, contro chi sarebbero insorti adesso i partigiani milanesi? Contro nessuno. E così fu.
Il Duce, abbandonando Milano nella sera del 25 Aprile, annullò il significato politico dell’insurrezione partigiana (il significato militare, come abbiamo evidenziato, era inesistente). Il grosso delle truppe fasciste, lasciate come “presidio ideale” in Piazza San Sepolcro, decisero di raggiungere Mussolini nelle prime ore del 26 Aprile: “La lunga colonna, ordinata e inquadrata, raggiunse Como senza alcun intralcio, a meno che non si voglia considerare tale qualche sporadica sparatoria, a distanza, all’altezza delle ultime case della periferia”[12].
Ma vi fu un altro problema. Nel capoluogo lombardo non vi erano partigiani e, per questo, il piano di occupazione degli edifici pubblici (deserti) fu affidato… ai Finanzieri della RSI! Nelle prime ore del 26 Aprile 1945…
Alle ore 12 del 25 Aprile 1945, il Gen. Nicchiarelli incontrò il Duce. Non ricevette ordini particolari, se non quelli di non modificare la dislocazione dei Battaglioni territoriali della GNR, in quanto i Militi avrebbero dovuto mantenere l’ordine pubblico nella difficile fase tra la ritirata a Nord e l’arrivo degli Angloamericani. Del resto, saltati gran parte dei contatti, nessun ordine di ripiegamento era più possibile emanare. Infine, Mussolini autorizzò il trasferimento del Comando operativo della Guardia – che stava ancora traslocando da Brescia a Milano – a Como. Contemporaneamente la radio diffondeva la notizia per tutte le unità della RSI di dirigersi verso questa cittadina, prima tappa prima del definitivo concentramento nel Ridotto Alpino Valtellinese.
Mussolini, quel 25 Aprile, per andare a colloquio con Cardinale Schuster, utilizzò una macchina scoperta e nessuna precauzione particolare. Fu proprio durante questo colloquio, cui partecipavano alti rappresentanti del CLNAI, che il Duce venne edotto dei tentativi di Wolff per una resa di tutte le forze germaniche in Italia, rimanendo fortemente contrariato e spiazzato. Come contrariato rimase nell’ascoltare le richieste degli antifascisti: la resa incondizionata. Di certo, Mussolini non era andato lì per venir edotto del tradimento germanico e per arrendersi ad un CLNAI senza un effettivo potere (non solo perché in quella delegazione non erano rappresentati i socialisti e i comunisti, ma anche perché qualsiasi eventuale direttiva emanata alle scarse e non preparate bande partigiane, si sarebbe scontrata poi con l’impossibilità pratica della sua attuazione).
[…] Il 25 Aprile 1945 fu certo che nessuno potesse fermare i carri armati angloamericani: i corazzati a stelle strisce erano a pochi chilometri da Genova e Verona; Mantova e Cremona erano già state occupate e, inarrestabili, le avanguardie angloamericane minacciavano Milano (distante solo 90 Km). Il CLNAI pensò allora che si potesse entrare in “azione”. Nonostante la certezza di vittoria, però, non vi fu nessuna insurrezione (e neanche nessun ordine in tal senso). E questo nonostante che la rotta fosse in atto su tutto il fronte e molti reparti repubblicani avessero ricevuto l’ordine di trasferimento in Valtellina già nella notte tra il 23 e il 24 Aprile e, quindi, l’insurrezione avrebbe avuto facile gioco nel colpire unità in movimento e in caotica ritirata. Almeno che non si voglia scambiare per “insurrezione” un ordine stilato dal Comando partigiano milanese verso nelle prime ore del 26 Aprile (retrodatato al 25 Aprile, ma stilato, ripetiamo, solo il 26). Scritto di pugno da Leo Valiani, incitava il Col. Alfredo Malgeri della Guardia Repubblicana di Finanza di Milano (ossia i Finanzieri della RSI, da tempo in collegamento con gli esponenti militari della Resistenza) ad occupare la Prefettura, disarmare i reparti fascisti e difendere gli impianti industriali dai Germanici. Cosa che, comunque, non si poteva fare, in quanto, con soli 400 uomini, il Colonnello nulla avrebbe potuto contro i 12.000 Italo-Tedeschi che si stimava presenti a Milano (in realtà, erano almeno il doppio contando i reparti che stavano ripiegando sul capoluogo). Ordine di azione, oltretutto, emblematico, dato a reparti regolari (della RSI) e non certo a formazioni partigiane o al popolo, che nessuno in quelle caotiche ore vide mai. Il movimento di guerriglia, del resto, era impreparato a uno scenario insurrezionale, diviso tra i “timorosi” che temevano un’altra Varsavia (ossia entrare in azione troppo presto e, quindi, correre il rischio di essere facilmente schiacciati dalla reazione fascista e germanica) ed i “sognatori”, come i comunisti, che prevedevano un’insurrezione generale da scatenarsi addirittura per il 10 Maggio 1945.
Ci fu chi il 25 Aprile tentò di passare all’azione, come gli operai della “Pirelli” che – certi ormai della fine della guerra – pensarono di prendere in ostaggio un Ufficiale della Legione A.M. “Muti” e uno della Decima MAS. Come la notizia giunse alle Autorità, gli Arditi della “Muti” intervennero nello stabilimento insieme a un Plotone di soldati germanici: i 600 operai presenti uscirono con le mani alzate “come fossero delinquenti”. Chiaro il messaggio: la città era in mano ai fascisti. E fino a quando questi sarebbero riamasti nel capoluogo nessuna azione sarebbe stata tollerata.
Nelle prime ore del 26 Aprile, il Col. Malgeri, ricevuto l’ordine-suicida, uscì con i suoi Finanzieri in una Milano deserta: parte delle truppe della Repubblica Sociale Italiana stavano abbandonato la città e le altre erano concentrate in Piazza S. Sepolcro attendendo ordini. I Germanici erano asserragliati nei loro Comandi e si disinteressarono di quello che avvenne. E così, senza praticamente sparare un colpo, si occuparono la Prefettura e gli altri posti strategici del capoluogo lombardo, tutti edifici deserti:
Eppure la Liberazione di Milano avvenne così, e non avrebbe potuto avvenire in alcun altro modo, o almeno, non in Italia, dove in fondo si cerca di ottenere la Repubblica con il consenso del Re, e la rivoluzione con le Forze Armate del regime da abbattere. Senza Malgeri, senza il suo spirito di sacrificio, la sua lungimiranza e le sue capacità di soldato pronto a pagare di persona, la leggenda del 25 Aprile non sarebbe nata: è amaro constatare che questa leggenda sta in piedi, agli occhi di noi tutti, per una piccola differenza di ore, e sulla confusione dei ricordi [F. Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, pag. 133].
In genere, le bande ribelli attesero l’uscita dei reparti italo-tedeschi dalle città prima di prenderne “possesso” o si dedicarono a sparare contro le colonne dei fascisti che ripiegavano. A Torino, ad esempio, le bande entrarono in azione il 26 Aprile. Ma essendo partite all’attacco solo le unità della città, mentre quelle montane non si erano ancora fatte vedere, la GNR, con l’ausilio delle Brigate Nere, provvide a ripristinare l’ordine. Tutti i capisaldi occupati dai ribelli, ad eccezione della FIAT, furono eliminati. Il 26 sera, la città era ancora in mano ai fascisti. Solo il 28 Aprile, dopo che le truppe della RSI avevano evacuato Torino dirette in Valtellina, le bande montane entrarono nel perimetro cittadino dove, però, vennero contrastate dai franchi tiratori fascisti che erano rimasti a presidio ideale in città[13].
Alla “insurrezione” di Milano, sovente si affianca quella di Torino… con le stesse problematiche. Come ha scritto Michele Tosca in un fondamentale studio:
Verso le 16 del 25 Aprile il grosso dei sappisti è ormai entrato negli stabilimenti FIAT di Lingotto e Mirafiori. I partigiani sanno, però, che l’occupazione degli stabilimenti non sarà spontaneamente attuata dai dipendenti, in quanto la maggioranza degli operai vuole uscire dalla fabbrica e tornare a casa; perciò, sapendo che “solo una minoranza sarebbe rimasta, mentre noi volevamo dimostrare che era tutta la massa che insorgeva”, viene emanato il comunicato del CLN n. 1, in cui si dispone che “tutti i dipendenti FIAT sono considerati mobilitati e trattenuti nello stabilimento e dovranno obbedire al CLN” e, subito dopo, gli uomini delle SAP, per far capire meglio le loro intenzioni, armati di mitra, entrano nei reparti di lavoro e ritirano a tutti la tessera bilingue per “garantire che tutti stiano dentro, perché se ti pescano per strada, senza tessera, ti portano a Porta Nuova e ti ficcano su un carro ferroviario e ti fanno partire”. Ed è con questo “espediente” che si ottiene la “partecipazione eroica dell’85%” degli operai all’occupazione ed alla difesa delle fabbriche. Tutto sommato gli operai, costretti a fare gli insorti, “fanno numero” e sono molti utili ai partigiani sappisti che si trovano di fronte a due sgradite e impreviste sorprese: le forze della RSI e germaniche, invece di ritirarsi, combattono e contrattaccano mentre gli uomini di Barbato, i partigiani di fuori Torino, sono in ritardo a causa dell’ordine del Colonnello Stevens. La versione ufficiale sarà che, vista la situazione, “gli operai accorsero per tempo nelle fabbriche e vi si trincerarono dentro, decisi a difenderle a qualunque costo”[14].
Quindi, nessuna insurrezione. Ma i partigiani piemontesi, quelli che hanno “liberato” Torino il 25 Aprile? Ecco cosa evidenzia ancora Michele Tosca:
Durante la notte [tra il 27 e il 28 Aprile], su ordine del Maggiore Dodson, Ufficiale di collegamento di Stevens, nuove armi e munizioni sono state lanciate, da nove aerei alleati, nella zona circostante la città per foraggiare i partigiani. Si stanno ancora distribuendo le armi quando, alle 7:50 [del 28 Aprile], il Comandante della Piazza, Italo Nicoletta […] dà l’ordine di occupare il centro della città: “A tutti i Comandi di Zona, ai Comandi SAP, e per conoscenza al CMRP: risulta che il centro della città di Torino sia stato sgombrato dai nazifascisti. Tutte le formazioni procedano pertanto all’occupazione di tutti gli obiettivi contemplati nel noto progetto di liberazione della città”[15].
A Genova, altro grande centro dell’Italia settentrionale, il grosso dei reparti della Repubblica Sociale Italiana abbandonò la città nella notte tra il 23 e il 24 Aprile 1945, per dirigersi in Valtellina. Nel capoluogo rimasero i Tedeschi, il cui Comandante, il Gen. Meinhold, era da tempo in contatto con elementi della Resistenza e non era assolutamente intenzionato a resistere, considerando ormai finita la guerra e inutile ogni spargimento di sangue. Fu per questo che decise di trattare una resa incruenta con il locale CLN, tramite gli uffici della Curia arcivescovile. Tuttavia, la fazione comunista non accettò le trattative e già il 24 Aprile attaccò i Germanici ed i reparti della RSI rimasti in città, subendo perdite che sono stimate nell’ordine delle 250 unità. Iniziò una barbara caccia al fascista, con centinaia di prelevati ed assassinati. Alle 19:30 del 25 Aprile, il Gen. Meinhold – che non diede l’ordine di respingere le unità partigiane – firmò la resa del contingente germanico[16]. Sarà condannato a morte dal Comando Marina per tradimento.
Come è evidente, l’evento più importante che si registrò il 25 Aprile in Italia settentrionale fu la progressione dei carri armati angloamericani nella Pianura Padana (iniziata il 21 Aprile) e la conseguente ritirata dei reparti italo-tedeschi. Dal punto di vista storico, interessante fu l’incontro in Arcivescovado tra i rappresentanti della RSI e del CLNAI, durante il quale Mussolini venne edotto della già concordata resa germanica.
Per il Duce che le truppe italiane non si arrendessero prima di quelle tedesche era una questione d’onore. Si doveva durare il più a lungo possibile. Ora, dopo che le unità germaniche avevano concordato la resa, sebbene ciò fosse considerato un tradimento, poteva riprendere un certo margine di manovra, considerando adempiuto il compito che si era prefisso: non arrendersi prima dell’esercito tedesco.
Constata l’irreversibilità della situazione militare in atto, il 26 Aprile il Maresciallo Graziani consegnò al Gen. Wolff la delega per firmare la resa anche a nome delle Forze Armate Repubblicane, alle stesse condizioni di quelle germaniche. Un punto sul quale aveva insistito anche il Gen. Heinrich von Vietinghoff, Comandante della Wehrmacht in Italia (Gruppo di Armate C). Questo era un punto di fondamentale importanza per la tutela dei soldati della RSI, al quale si oppose – incredibilmente – ancora il duo Romualdi-Costa. Ma fortunosamente Graziani non prestò loro la ben che minima attenzione, compiendo così un atto giuridico determinante per la salvaguardia di tutti i militari della Repubblica Sociale Italiana – comprese le Brigate Nere che da lui dipendevano – e per la storia dello Stato fascista. Ottenuta la delega di Graziani, Wolff la rigirò, insieme alla sua, allo Sturmbannführer Eugen Wenner incaricato della firma della resa. Wenner ebbe così pieni poteri per la resa di tutte le unità delle SS e della RSI presenti in Italia. Il Col. Victor von Schweinitz ricevette, invece, dal Gen. Vietinghoff solo l’autorità a trattare “entro i limiti delle istruzioni” ricevute, in quanto il Gen. Kesselring non era stato minimamente avvertito della trattativa di resa e, quindi, non si reputava opportuno procedere in modo così “sfrontato”, rischiando di essere additati come traditori. Nonostante questo limite, Wenner e Schweinitz si recarono a Caserta per trattare la resa di tutti i reparti dell’Asse schierati in Italia. Fu proprio grazie alla delega del Maresciallo Graziani che tutti i reparti della RSI – “Italian Republican military or paramilitary forces or organizations” – entrarono negli accordi in qualità di legittimi belligeranti, equiparati, a tutti gli effetti di legge, alle forze terrestri tedesche e, quindi, sottoposti alla tutela della Convenzione di Ginevra. Ciò fu possibile proprio grazie alle disposizioni contenute nella resa che prevedevano espressamente che tutti i reparti della RSI – comprese le forze e le organizzazioni paramilitari – entrassero a pieno titolo nei termini degli accordi, come ben aveva evidenziato il Maresciallo Graziani nella sua delega a Wolff, autorizzandolo a firmare la resa, “alle stesse condizioni praticate per le Forze Armate germaniche in Italia”, anche a nome delle “truppe regolari dell’Esercito italiano, dell’Arma aerea e della Marina, come pure Reparti militari fascisti”.
[…] Il Col. Schweinitz – non avendo “carta bianca” – commise una forzatura e, insieme a Wenner, si decise a firmare, in gran segreto, la resa senza condizioni di tutte le unità dell’Asse presenti in Italia. Era il 29 Aprile 1945. Solo il 2 Maggio seguente sarebbe stata diffusa la notizia. Il Gen. Kesselring andò su tutte le furie, destituì e pose agli arresti Vietinghoff, deferendolo alla Corte marziale per tradimento. Ma gli avvenimenti incalzavano. Il 30 Aprile, Hitler si suicidava e, ovunque, l’esercito germanico collassava. Nonostante l’aggressione verbale contro il Gen. Wolff, che venne accusato di tradimento, alla fine anche Kesselring dovette cedere e, saputo della morte del Führer, non si oppose alla diffusione della notizia della resa: alle ore 18:00 del 2 Maggio 1945, si concludeva la guerra in Italia (le ostilità termineranno effettivamente solo alle 4:30 del giorno successivo)[17].
Il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani,
consegnatosi a Cernobbio nel pomeriggio del 27 Aprile 1945 ad opportunisti italoamericani di una Missione OSS per il Nord Italia, il 29 Aprile controfirma al Q.G. del US IV Corps di Castiglione delle Stiviere, oltre quella dell’Armata “Liguria” già sottoscritta in prigionia dal Capo di S.M. Max Joseph Pemsel, la resa delle Forze Armate della RSI. Poi, dal carcere fiorentino per Generali italiani e tedeschi di Poggio Imperiale, raggiunto con un trasferimento aereo americano Villafranca-Peretola, ne dà conferma l’1 Maggio 1945 alla radio di Firenze, precisando i modi per la cessazione del fuoco[18].
Alle ore 18:00 del 2 Maggio 1945, si concludeva la Seconda Guerra Mondiale in Italia.
Nei giorni seguenti, gli ultimi reparti della Repubblica Sociale Italiana raggiunti dalle avanguardie angloamericane si arresero, ricevendo in molti casi l’onore delle armi[19]: dalla Decima MAS, alla GNR fino alle Brigare Nere, tanto per essere chiari (cfr. resa della Divisione “Italia”, della Colonna “Loffredi”, del Battaglione M “Venezia Giulia”, del Rgpt. “Cacciatori degli Appennini”, ecc.).
Il Trattato di Pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947 puniva lo Stato italiano come Paese sconfitto – responsabile della guerra 1940-1945, iniziata dal Regno d’Italia e conclusa dalla RSI – umiliandolo ed assoggettandolo definitivamente nella sfera di influenza statunitense: la guerra non era stata fatta contro il fascismo, ma contro l’Italia intesa come Nazione sovrana ed indipendente. E di quella tragedia riecheggiano ancora le parole di condanna pronunciate da Benedetto Croce all’Assemblea Costituente il 24 Luglio 1947.
Il 2 Maggio ricorre l’anniversario della sconfitta dell’Italia, di tutti gli Italiani.
Pietro Cappellari
(“L’Ultima Crociata”, a. LXXIII, n. 3, Marzo-Aprile 2023)
Note
[1] Cfr. R. Gobbi, Il mito della Resistenza, Rizzoli, 1992.
[2] Cfr. T. Indelli, Ecco perché il 25 Aprile non potrà mai essere la nostra festa nazionale, “Il Primato Nazionale”, 23 Aprile 2020.
[3] Cfr. G. Coala, Festa della Liberazione, il sondaggio di Mannheimer sul 25 Aprile: il 33% degli Italiani non sa cosa sia, “Libero”, 29 Aprile 2018.
[4] G. Almirante, Non è festa. Appello agli Italiani, “Il Secolo d’Italia”, 24 Aprile 1955.
[5] Cfr. D. Messina, La versa storia di “Bella ciao” che non venne mai cantata dalla Resistenza, “Corriere della Sera”, 10 Luglio 2018.
[6] Cfr. U. Finetti, La Resistenza cancellata, Edizioni Ares, Milano 2003.
[7] Cfr., per un quadro di insieme, 25 Aprile in www.laltraverita.it/documenti/il_25_aprile.htm
[8] Questa la versione elaborata da Giorgio Pisanò nel suo Gli ultimi in grigioverde (CDL Edizioni, Milano 1994, vol. II, pag. 1231), mai smentita dai protagonisti, anche se nelle versioni più politicamente corrette ed epurate il “saluto al Duce” è sostituito dal “Decima Marinai!”.
[9] Vanni Teodorani, Quaderno 1945-1946, Stilgraf, Cesena 2014, pagg. 76-77.
[10] D. Buffa, Vendette, sangue, stragi. C’è poco da festeggiare, “Il Tempo”, 25 Aprile 2017.
[11] M. Veneziani, Perché non celebro il 25 Aprile, “La Verità”, 24 Aprile 2019.
[12] 25 Aprile in www.laltraverita.it/documenti/il_25_aprile.htm
[13] P. Cappellari, La Guardia della Rivoluzione. La GNR: controguerriglia e difesa della Repubblica Sociale, Herald Editore, Roma 2017, vol. III, pagg. 230-232.
[14] M. Tosca, I ribelli siamo noi. Diario di Torino nella Repubblica Sociale Italiana. La crudele cronaca di una guerra civile, Chiaramonte, 2012.
[15] Ibidem (corsivo nostro).
[16] Cfr. P.E. Taviani, Breve storia dell’insurrezione di Genova, Le Monnier, 1985.
[17] P. Cappellari, La Guardia della Rivoluzione, cit., vol. III, pagg. 281-283.
[18] Soltanto Graziani tutela prigionieri di guerra RSI, “Acta”, a. XXXI, n. 2, Maggio-Luglio 2017.
[19] Cfr. A. Lombardi, “Per me questa guerra non è finita”: i reparti che non deposero le armi, “Il Primato Nazionale”, 9 Maggio 2015.
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