Troppo spesso coloro che difendono con fermezza il proprio Sangue, la propria Cultura e la propria Tradizione finiscono con l’essere tacciati ingiustamente di populismo, nel migliore dei casi.
Ritengo che alla base di queste critiche ci sia una sorta di lacuna all’interno del movimento identitario stesso. In particolare, mi riferisco alla mancanza di un vero e proprio fondamento razionale che si ponga alla base della necessità di preservazione dell’Identità.
Intuitivamente, molti di noi sono portati a credere che mantenere la propria cultura e la propria tradizione sia qualcosa di moralmente accettabile, se non preferibile.
Ma quale motivo razionale ci spinge a preferire moralmente la conservazione della propria Identità, a discapito del nichilismo totalitario e totalizzante caratteristico del mondo contemporaneo?
A questa domanda, reputo non si possa rispondere semplicemente per mezzo di un circolo vizioso (“difendo la mia Identità perché è la mia Identità”), facilmente criticabile in quanto “fallacia naturalistica” (ciò che è, deve anche essere). Occorre, invece, scavare in profondità per trovare un fondamento che si collochi al di là del circolo vizioso. Solamente in questo modo, a mio parere, è possibile dare una giustificazione convincente, e molto più difficilmente criticabile, alla tutela dell’Identità.
A questo proposito, credo che una delle strade percorribili sia riconoscere che la diversità gioca un ruolo fondamentale nella conoscenza di se stessi. L’Identità non è intuitivamente data, ma è il risultato della continua dialettica tra il Sé e l’Altro. Detto diversamente, ho bisogno del riconoscimento dell’Altro — inteso in senso ampio, come tutto ciò che è diverso da me — per poter accedere consapevolmente alla mia Identità. Si può, dunque, affermare che gran parte del processo di presa di coscienza della propria Identità sia un processo “negativo”: attraverso l’osservazione di ciò che non mi appartiene come individuo di un determinato contesto culturale, giungo alla consapevolezza di ciò che io sono.
E’ possibile fare riferimento almeno a due grandi filosofi greci dell’antichità: a Socrate (la massima “conosci te stesso” è alla base della ricerca della verità e della giusta etica), e ad Eraclìto. Quest’ultimo affermò che il lògos (al tempo stesso pensiero dell’uomo, struttura della realtà e legge universale) è eterna opposizione, perenne lotta degli opposti che, nel contrapporsi l’un l’altro, si codeterminano, garantendosi la reciproca esistenza (non potrebbe, dunque, esistere il caldo se non esistesse il freddo; non potrebbe esistere l’amore se non esistesse l’odio; non potrebbe esistere l’uno se non esistesse il molteplice, e così via, in una continua guerra e reciproca affermazione degli elementi del reale). L’opposizione universale coincide, così, con la realtà stessa.
La scomparsa delle diversità — biologiche, culturali e morali — comporta inevitabilmente la perdita di se stessi.
Lo scopo della globalizzazione del mondo contemporaneo è, infatti, l’omologazione, il livellamento delle differenze naturali al fine di facilitare l’oblio, la dimenticanza totale ed irreversibile delle nostre radici, di ciò che noi siamo.
Perché? Perché spersonalizzare l’essere umano equivale a renderlo più facilmente gestibile.
Alla luce di quanto detto, ritengo sia dunque possibile attribuire alla preservazione della propria Identità una vera e propria giustificazione filosofica, che può trarre le proprie origini fin dal pensiero greco antico.
La difesa della propria Identità giunge a coincidere immediatamente con la preservazione delle diversità, delle Identità altrui. E il fondamento razionale che sorregge il mantenimento dei confini che sussistono fra me e l’Altro è il diritto, se non il dovere, di conoscere se stessi; il diritto e il dovere alla propria esistenza consapevole.
Flavia Corso
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