Di Fabio Calabrese
A maggio di quest’anno cadono i cento anni dall’intervento italiano nella prima guerra mondiale, eppure il battage mediatico per questo evento sembra decisamente inferiore a quello che lo scorso anno ha ricordato lo scoppio del conflitto a livello europeo, avvenuto nell’agosto 1914.
Si tratta tuttavia di un evento che nel bene e nel male ha segnato profondamente la nostra storia. Dirò di più, fra l’attentato di Sarajevo che provoca la prima guerra mondiale e i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki che concludono la seconda, passano poco più di trent’anni, un periodo di certo scavalcato agevolmente da moltissime vite, eppure i mondi separati da questi eventi sono così diversi come se fossero trascorsi secoli.
Non si può contemplare questa brusca impennata della storia senza stupore; o meglio, certamente questo è avvenuto negli scorsi decenni, ma nelle generazioni attuali la capacità di percepire il divenire storico e di collegarlo alla propria dimensione esistenziale, questa grande conquista della cultura europea dell’età romantica, si è enormemente attenuata, soprattutto nei più giovani, sì che la storia è vista come un’arida elencazione di date e nomi, incomprensibile e sostanzialmente inutile, laddove la loro dimensione di vita è quella di un presente fatto di un succedersi di eventi transeunti quanto futili, mode veicolate soprattutto dall’apparato mediatico.
Come insegnante, purtroppo lo so bene, lo si nota soprattutto nei più giovani: la nostra cultura di base ha subito un’imponente americanizzazione, cioè un impoverimento. Si può constatare in maniera tangibile che tutto quanto ci arriva d’oltre Atlantico, non è altro che immondizia.
E’ una constatazione dolorosa che potremmo legare alla questione della prima guerra mondiale, è a partire da essa che la decadenza dell’Europa ha assunto l’andamento rapido di un precipitare nel baratro, nonostante il tentativo dei fascismi, stroncato come sappiamo, di risollevarne le sorti.
Quale significato e quali conseguenze ebbe la partecipazione italiana a questo conflitto?
E’ abbastanza sorprendente vedere come i testi di storia, o meglio i loro autori, trattino la nostra partecipazione al primo conflitto mondiale in maniera sommaria. Indipendentemente dalle valutazioni erronee dei politici e dagli errori degli alti comandi, il comportamento dei nostri soldati durante questo conflitto, il semplice “popolo in grigioverde” ancor più delle vicende risorgimentali, potrebbe mettere in crisi l’idea dell’italiano buonista e bonaccione, sostanzialmente cialtrone e vigliacco, che settant’anni di democrazia cercano di cucirci addosso.
Un discorso dello stesso genere lo si potrebbe fare pari pari, ben s’intende, per la seconda guerra mondiale, dove il comportamento degli alti comandi legati alla monarchia si può definire criminale, dove si perseguì a ogni modo la sconfitta come mezzo per provocare la caduta del fascismo, uno sporco gioco giocato in maniera vergognosa sulla pelle dei nostri combattenti e delle popolazioni civili, ma questo nulla toglie al valore dei nostri soldati, che ebbe modo di rilucere ancor più nelle situazioni drammatiche che si trovarono ad affrontare.
Ciò deve essere assolutamente chiaro a dispetto della demagogia catto-marxista che va respinta in blocco. Tuttavia, e senza nulla togliere ai nostri combattenti, riguardo agli obiettivi politici e strategici che si vollero perseguire, ritengo si possa dire che la prima guerra mondiale sia stata dal punto di vista italiano una guerra sbagliata. Perché?
In termini di completamento dell’unità nazionale, si può dire che gli obiettivi di un’entrata in guerra contro gli Imperi Centrali o contro l’Intesa si equivalessero: Da una parte il Trentino e la Venezia Giulia, dall’altra Nizza e la Corsica in mani francesi (lasciando perdere la Savoia annessa dalla Francia nel 1859, etnicamente francese ma terra d’origine della casa regnante), e Malta in quelle inglesi.
Ma c’è un problema grosso come una montagna: l’Italia era alleata con l’Austria e con la Germania nella Triplice Alleanza, e in più eravamo in concorrenza diretta con gli anglo-francesi per i domini coloniali. Peggio ancora da questo punto di vista, il dominio inglese del Mediterraneo basato sull’asse Gibilterra-Malta-Alessandria ci rinchiudeva entro le nostre acque territoriali.
L’Austria contro cui avevamo combattuto le guerre risorgimentali, non era che l’ultimo di una lunga serie di dominatori stranieri iniziata l’indomani della caduta dell’impero romano con gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico. Non aveva nemmeno invaso i suoi possessi italiani, ma li aveva ereditati in seguito alla guerra di successione spagnola conclusasi con un compromesso che aveva consentito a un Borbone di salire sul trono di Spagna al prezzo della cessione al ramo austriaco degli Asburgo dei possessi spagnoli in Europa, quelli italiani ma anche il Belgio.
La Francia: nel 1848 aveva aggredito la repubblica romana per riportare il papa sul trono, nel 1859 ci aveva lasciati nelle peste con l’armistizio di Villafranca stipulato unilateralmente da Napoleone III con l’Austria. Dal 1861 al 1870 era stata l’ostacolo all’annessione di Roma. Più tardi, al timido inizio del colonialismo italiano, ci aveva soffiato la Tunisia; non è che avessimo grandi motivi di amarla.
Nel 1870 allo scoppio della guerra franco-prussiana i garibaldini accorsero in aiuto della Francia. Con la Prussia di Bismarck destinata a essere di lì a poco il nucleo attorno a cui si riformerà l’impero tedesco, non avevamo alcun genere di contenzioso, anzi, grazie all’alleanza con essa, quattro anni prima avevamo avuto il Veneto; no era puro odio ideologico nei confronti di Bismarck da parte della massoneria internazionale, di cui le camicie rosse non erano che una dependance. C’è di più: i garibaldini non erano un caso isolato, ma l’Italia si apprestava a intervenire a fianco della Francia nella vaga speranza che per riconoscenza i Francesi ci avrebbero dopo permesso di annettere Roma. Fortunatamente, prima che un simile progetto potesse essere messo in atto, arrivò la vittoria prussiana di Sedan.
“L’abbiamo scampata bella!”, commentò Vittorio Emanuele II (in piemontese, perché per lui l’italiano era una lingua straniera).
Tutto ciò se partissimo dal presupposto che i “padri risorgimentali” avessero a cuore l’interesse nazionale, è incomprensibile. La verità è che costoro erano pedine nelle mani della massoneria internazionale che aveva individuato nella nuova Germania un pericolo per i suoi progetti di egemonia planetaria, un nemico molto più determinato degli ormai esangui ancien regime, ed è esattamente questo che è stato all’origine anche di due guerre mondiali.
L’Inghilterra. A parte la concorrenza in campo coloniale, a parte il possesso di Malta, a parte il dominio del Mediterraneo attraverso l’asse Gibilterra-Malta-Alessandria d’Egitto, ha avuto un’influenza indiretta non meno nefasta sulla nostra storia nel XIX secolo.
Ricordate l’episodio di Bronte? In questa località siciliana la rivolta contadina innescata dall’impresa di Garibaldi fu repressa con durezza inaudita dagli stessi garibaldini. Perché? Perché qui c’erano (e ci sono ancora oggi) interessi inglesi da tutelare, e il filo che legava le camicie rosse alla massoneria internazionale emergeva in tutta evidenza. Qui c’era il ducato, la cosiddetta Ducea che i Borboni avevano conferito a Nelson, un territorio che, grazie alla produzione del pistacchio, è uno dei più redditizi della Sicilia. Garibaldi con solo un migliaio di uomini, non avrebbe potuto aver ragione di un regno esteso a metà della Penisola senza un costante appoggio delle popolazioni, avrebbe fatto la stessa fine dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane, ma lo scollamento cominciò subito dopo, fino a trasformarsi nell’insurrezione popolare anti-unitaria mistificata come brigantaggio. Essa, e la tragedia del nostro meridione cominciarono proprio con l’episodio di Bronte.
Occorre, riguardo alle motivazioni dell’intervento italiano nella prima guerra mondiale, ripetere lo stesso discorso già fatto a proposito del risorgimento, riguardo al quale vi avevo invitati a distinguere tra l’insorgenza spontanea delle nostre popolazioni alla dominazione straniera e il movimento liberal-massonico che se ne è impadronito piegandola a finalità di tutt’altro genere. Allo stesso modo, l’intervento italiano nella Grande Guerra non si spiega se non tenendo presente il fatto che casa Savoia era legata a doppio filo alla massoneria, e non si faceva, non si era mai fatta scrupoli a prendere decisioni che erano in contrasto con l’interesse nazionale italiano.
La Triplice Alleanza che l’Italia aveva stipulato con Austria e Germania nel 1883, corrispondeva a una situazione oggettiva che nel 1915 non era per nulla superata, tanto e vero che si ripresenterà in termini pressoché invariati dopo la guerra, imponendo l’alleanza fra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, formava cioè un asse naturale che attraversava da nord a sud il centro dell’Europa e ne costituiva un baluardo alla duplice minaccia portata da ovest dai franco-inglesi che agivano sempre più come proconsoli e avamposti degli Stati Uniti che si stavano trasformando ogni giorno di più nella mecca dell’alta finanza, della massoneria, del capitalismo sfrutta-popoli internazionale, e da est dal quello che fino al 1917 era il panslavismo centrato sulla Russia, e che dopo di allora divenne il bolscevismo sovietico.
Non basta, nei mesi convulsi che precedettero l’intervento, considerando il fatto che per gli austro-tedeschi era vitale evitare la situazione di accerchiamento che poi si determinò, e che la Triplice Alleanza era soltanto difensiva, nel corso delle trattative, l’Austria propose la cessione del Trentino all’Italia e la costituzione di Trieste in territorio libero in cambio della garanzia da parte nostra della semplice neutralità. Era il “parecchio” che non intervenendo nel conflitto avremmo potuto ottenere senza sforzo, di cui parlò Giolitti, e per questo motivo l’espressione fu usata dagli interventisti come dileggio.
Considerato quanto abbiamo successivamente perduto nel secondo conflitto mondiale, cioè la Venezia Giulia quasi per intero, l’Istria e Fiume, ci si può davvero chiedere PER CHE COSA abbiamo affrontato una delle guerre più distruttive della storia, che ci è costata mezzo milione di morti. Per avere il Tirolo meridionale, quello che poi fu chiamato Alto Adige, quattro montagne, qualche stazione sciistica, una terra e un popolo che non erano, non sono e mai sono stati italiani?
Per Trieste andrebbe fatto un discorso a parte: la città è sostanzialmente di lingua, di cultura, di ANIMA italiana, ma ha dovuto il grande sviluppo che ha conosciuto nel XIX secolo al fatto di essere lo sbocco sul Mediterraneo del vasto hinterland austriaco che allora andava dall’Adriatico fino alla Transilvania e alla Galizia – quella attualmente polacca, non quella iberica – Di ciò, i triestini erano in genere consapevoli, e aspiravano a un sistema di autonomie che salvaguardasse la specificità della città, ma NON a un’annessione diretta all’Italia, al distacco da questo immenso entroterra che avrebbe rappresentato la morte economica della città. Oggi Trieste infatti è il fantasma di quella che era nel 1914, con una popolazione che è meno della metà, e la più anziana d’Italia e in questo secolo, ben prima della crisi iniziata nel 2008, ha conosciuto una progressiva rarefazione delle attività economiche, con la scomparsa del suo ruolo di città portuale, della cantieristica, delle industrie che un tempo esistevano. La soluzione del territorio libero (nel 1915, non al partire dal 1945, quando l’hinterland mitteleuropeo era già scomparso), sarebbe stata probabilmente la più adeguata a garantire un futuro alla città.
Da quanto si rileva dalla stampa dell’epoca, i triestini erano convinti fautori della Triplice Alleanza, la guerra contro la Serbia a cui speravano che l’Italia si unisse, sembrò loro un momento ideale per dare una bella lezione all’oltranzismo slavo, e vissero il voltafaccia italiano come un tradimento. Non fu l’ultima volta che si sentirono traditi dall’Italia, se pensiamo alla storia penosa del secondo dopoguerra fino al trattato di Osimo.
L’Italia aveva scelto di rompere con i suoi alleati naturali e di buttarsi nelle braccia dei suoi nemici naturali, con la conseguenza di essere trattata alla fine del conflitto, non come una potenza vincitrice, ma come un nemico sconfitto, in premio degli enormi sacrifici umani e materiali sostenuti. Il voltafaccia del maggio 1915 fu un’anticipazione di quello ancora più grave avvenuto in piena guerra, del settembre 1943. Entrambi, per colpa di una classe dirigente ristretta non certo rappresentativa del popolo italiano nel suo insieme, hanno diffuso nel mondo l’idea dell’italiano cialtrone, sleale, opportunista e inaffidabile.
Naturalmente, noi sappiamo che a compiere una simile scelta non fu materialmente l’Italia intesa come entità di decine di milioni di persone, ma, all’insaputa e contro la volontà della gran parte dell’opinione pubblica, del parlamento, di parte dello stesso governo, il re, con l’accordo – la complicità verrebbe da dire – del presidente del Consiglio Salandra e del ministro degli esteri Sonnino.
In questo modo, quale che fosse l’interesse nazionale italiano, casa Savoia svelava una volta di più il suo stretto legame con il movimento liberal-massonico internazionale.
L’opinione pubblica era divisa, ma prevalevano le tendenze neutraliste. Fra gli interventisti, molti erano schierati a favore di un intervento a fianco dell’Intesa, ma vi era anche chi pensava che avremmo dovuto tenere fede alla parola data stipulando la Triplice Alleanza e scendere in campo con gli Imperi Centrali.
Poco prima dell’ingresso italiano nel conflitto, nella sede del Partito Nazionalista, si era svolto un dibattito pubblico che aveva messo a confronto le tesi degli uni con quelle degli altri. A rappresentare il punto di vista dei fautori dell’intervento a fianco dell’Intesa fu chiamato l’ideologo del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti. A difendere quelle della Triplice alleanza c’era invece un giovane ma combattivo Julius Evola.
“Le sue idee sono lontane dalle mie quanto quelle di un esquimese”, pare abbia detto Marinetti nel corso del dibattito.
Come tanti altri, il padre del futurismo cadeva in quello che ho chiamato il grande equivoco, cioè la mancata distinzione, l’incapacità di distinguere tra la causa nazionale italiana e il movimento liberal-massonico internazionale, equivoco che aveva già caratterizzato e funestato tutto il risorgimento.
Evola invece vedeva con chiarezza che questa guerra era voluta dalla massoneria internazionale che agiva dietro l’Intesa, per assestare il colpo decisivo all’ordine tradizionale dell’Europa. Aveva ragione, ma non fu ascoltato.
La prima guerra mondiale fu per l’Italia una guerra sbagliata innanzi tutto per la scelta di campo, ma lo fu anche dal punto di vista della conduzione strategica, e ancora più sbagliato fu il comportamento dei politici che al tavolo della pace non seppero far valere l’immenso sacrificio che l’Italia in questa guerra aveva sopportato, anche se da questo punto di vista occorre rimarcare che la “vittoria mutilata” fu una diretta conseguenza dell’errore iniziale, l’esserci alleati con chi aveva tutto l’interesse a trattarci piuttosto come nemici sconfitti, anche se i nostri politici con la loro mancanza di abilità ci misero indubbiamente del loro.
E’ quanto vedremo nella seconda parte.
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