Correva l’Anno Domini 1648. Padre Pierre Labeque, gesuita, svolgeva opera di missione tra le selvagge popolazioni del Nuovo Mondo, convinto di poterle convertire alla religione dell’amore. Il suo zelo l’aveva spinto nelle impervie regioni dell’Ontario settentrionale, dove il verbo divino non era mai arrivato. La sorte lo condusse tra Uroni ignoranti e inospitali. Alcuni di loro, refrattari al messaggio evangelo, lo legarono al palo della tortura e cominciarono a fare strazio dello sventurato sacerdote.
Non lontano da lì, a un tiro di schioppo, un fiero urone di nome Tanak, convertito e battezzato col nome di Alphonse-Marie, nascosto tra gli alberi, osservava la scena con distacco quasi scientifico. Con lui v’era padre Godard, confratello e compagno di viaggio di padre Labeque. “Che gli stanno facendo?” chiese il padre tenendo gli occhi sul breviario. “Adesso bruciare lui piedi con piccolo fuoco … adesso bruciano lui barba … adesso cavare lui occhi” disse l’indiano nel suo francese stentato. “Che barbarie” sospirò Godard. “Adesso donne tirare lui via pelle e tagliare lui strisce di carne, come cervo”.
“Ma quanto durerà questo martirio?” chiese affranto il gesuita. “Come sole” fece Tanak indicando il sole alto nel cielo. Poi, con un certo orgoglio: “noi uroni bravi. Durare tutto giorno.” Padre Godard sospirò di nuovo, costernato. Era ora di pranzo, ma quei gridi orripilanti gli avevano tolto l’appetito.
“Tu tranquillo” lo rassicurò il selvaggio “io sparare lui e tutto finire.” Tanak prese la mira. Era un abile cacciatore e non poteva sbagliare il colpo. “Fermo!” gli intimò il religioso, sbiancando in volto per il terrore. “Così ci scopriranno e faremo anche noi la stessa fine!”. Tanak abbassò il fucile, perplesso, cercando di conciliare le virtù cristiane così faticosamente apprese con l’atteggiamento pavido del suo riverito maestro. Questi, scorgendo quel turbamento, pensò fosse suo dovere dare a quel selvaggio una visione più cristiana delle cose.
“Non sai che commetteresti un peccato mortale? Uccidere è contrario ai comandamenti di Dio. Padre Labeque avrà il premio di questa sua pena in Paradiso, dove riceverà la corona dei martiri. Per una sofferenza passeggera riceverà una felicità eterna. Vorrei avere io questo privilegio”. Padre Godard alzò gli occhi al cielo. Il povero urone era confuso e costernato. “Allora anche noi andare là e morire”.
“Sarebbe una follia! Non possiamo sostituirci al volere di Dio.” Il gesuita fissò l’indiano severamente, come un bambino che l’aveva detta grossa. “Ascoltami figliolo,” fece Godard con aria paterna “ti racconterò un fatto che ti aiuterà a capire. Prima di giungere qui, ho studiato in una grande scuola, in una grande città di uomini bianchi. Un giorno noi studenti vedemmo un cane che era stato travolto da un carro. Le ruote gli avevano evidentemente spezzato la schiena e quella bestia si contorceva al suolo, urlando orribilmente”. “Come padre Labeque?” chiese Tanak. Il gesuita ignorò la domanda, poco rispettosa, e proseguì.
“La vista di quel cane stimolò un’interessante disputa tra noi. Alcuni sostenevano che il dolore proviene dall’anima. Ma una bestia non ha un’anima e quindi non può soffrire. Ergo, quei latrati erano solo i cigolii di una macchina rotta. Altri dicevano che il dolore è conseguenza del peccato originale. Ma solo l’uomo ha commesso questo peccato, disubbidendo al buon Dio. Anche per loro il dolore del cane, quindi, era apparente. Mentre discutevamo, un macellaio uscì con una grossa mazza e assestò un colpo forte e ben diretto sulla testa dell’animale, uccidendolo all’istante. Le urla cessarono e così le nostre discussioni.”
Padre Godard tacque. Le urla del suo sventurato confratello non accennavano a diminuire. Emise un profondo sospiro e riprese. “Tornati a scuola, sollecitati da quell’episodio, ci chiedevamo se fosse lecito abbreviare l’agonia di un uomo, specie se particolarmente dolorosa. Alcuni dicevano ‘no, mai’, altri ‘sì, in certi casi’. Non trovando un accordo, decidemmo di sottoporre la questione al nostro venerando rettore, padre de Calabisse, dotto teologo e uomo di profonda pietà.
Dopo averci ascoltato, rispose: “Vi racconterò un fatto che può aiutarvi a capire. Quando ero un giovane professore di teologia, fui chiamato a giudicare una vecchia accusata di stregoneria. Con l’aiuto di Dio, riconobbi subito la presenza del Male. Infatti la donna confessò, sotto tortura, i traffici più turpi col demonio. E una cicatrice sulla spalla sinistra, quasi invisibile, era senza ombra di dubbio il suggello del patto diabolico. Il giorno dell’esecuzione accompagnai la vecchia al rogo, perché a nessuno si negano i conforti religiosi. Lì giunti, il boia la prese e la legò al palo. Vidi che le diceva qualcosa e la donna sembrò ringraziarlo. Insospettito, chiesi al boia il contenuto di quell’abboccamento. “Oh, eccellenza, nulla di importante. Vedete, io sono abituato a tagliar teste, rompere le ossa e arrotare la gente. Ma bruciare viva una povera vecchia mi ripugna, perciò le ho promesso di strangolarla prima di dar fuoco alle fascine. Così non soffrirà molto.” A sentir ciò fui preso dal dubbio. Era pietà o esecrabile ribellione alla volontà di Dio?
Fortunatamente era con me padre Lassalle, domenicano di grande dottrina, a cui esposi il mio dilemma. “Non si turbi!” mi rincuorò l’anziano padre “quand’ero giovane, ebbi anch’io simili dubbi. Un giorno mi trovai a Pietroburgo. Un famigerato brigante era stato condannato a venir squartato nella pubblica piazza. Quella canaglia era di una fibra così dura che i cavalli faticavano a spezzarla. Il boia, per accorciare quel supplizio, prese la mannaia e gli mozzò la testa. La folla, derubata dello spettacolo e inferocita, si vendicò sull’incauto carnefice, e lo uccise a calci e colpi di bastone.
Ero disorientato da quel tumulto, ma padre Dupré, un francescano di grande umiltà e sapienza che mi era accanto, schiarì il mio animo: “Non creda” mi disse “che sia stato ingiusto punire con la morte quel boia. Egli infatti ha disubbidito all’autorità dello zar, che rappresenta la volontà di Dio in terra. Se Dio volesse risparmiare a un furfante l’esser squartato, comanderebbe ai cavalli di non muoversi. Le assicuro che nessuna frusta al mondo potrebbe spronarli.” Queste parole furono per me illuminanti, e spero lo siano anche per voi, mio buon Calabisse”.
Mi fu chiaro allora che non dovevo permettere quell’atto empio, che interferiva coi disegni divini. Perciò dissi al boia: “se Dio vuole impedire che questa donna sia arsa viva, può scatenare un diluvio e spegnere il fuoco all’istante.” Il boia guardò il cielo. “Un diluvio? Ma, eccellenza, è impossibile, non c’è una nuvola!” “Non sai che a Dio tutto è possibile?” gli replicai con decisione e, senza altri indugi, appiccai il fuoco alle fascine. A riprova che quel supplizio era giusto e santo, non cadde neppure una goccia. E voi, figlioli, capite adesso che in nessun caso è lecito sostituirsi alla volontà divina e abbreviare l’agonia di qualcuno? Solo Dio è padrone della vita”. Tutti restammo ammirati ed edificati da queste parole. Padre de Calabisse aveva dissipato i nostri dubbi. E tu, Alphonse-Marie, hai capito?”
Il povero Tanak era disorientato da tanta dottrina. Quando nella sua tribù si torturava e si uccideva, non si facevano domande. “Quella vecchia, donna cattiva, strega … giusto bruciare lei. Ma padre Pierre uomo buono” cercò timidamente di obiettare. “Perciò, a maggior ragione non dobbiamo decidere noi del suo destino, ma affidarlo fiduciosamente nelle mani di Dio, che saprà premiare la sua bontà”. Al gesuita questo concetto parve chiudere degnamente il discorso. L’urone si grattò la testa. Era visibilmente perplesso, ma non si sarebbe mai sognato di mettere in discussione l’autorità di tanti illuminati teologi. Le urla di padre Labeque riportarono Godard al presente. “Ah, questi selvaggi!” sospirò. “Capiranno mai cos’è l’amore del prossimo?”.
Decise che era poco prudente restar lì. Perciò si incamminarono lungo il sentiero che portava alla missione, a due giorni di cammino. Udivano i gridi straziati farsi sempre più lontani, finché scomparvero del tutto. Questo aiutò Padre Godard a ritrovare il suo appetito. “Alphonse-Marie, perché non cerchi qualcosa per il pranzo?”. Estrasse il suo breviario, si sedette e si immerse nella lettura.
Più tardi, mentre guardava il grasso coniglio rosolare sullo spiedo e sentiva l’acquolina scorrergli in bocca, qualcosa turbò per un attimo la sua serenità. Pensò che forse anche il buon padre Labeque era finito su uno spiedo. L’immagine del confratello cotto a fuoco lento lo disturbava.
Allora guardò la maestà dei monti, la bellezza dei boschi e il fiume che scorreva placido. Il sole splendeva, gli uccelli cantavano. Tutto rivelava la magnificenza di Dio. Il supplizio di padre Labeque era solo una macchiolina impercettibile in un angolo di un immenso e meraviglioso affresco. Bastava non fissarlo, volgere lo sguardo altrove. Godard prese il coniglio e, mentre lo addentava, il suo cuore tesseva lodi alla bontà del creato.
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