Premessa: oramai di una sola storia ho interesse reale, la ‘mia’… siccome, però, l’articolo di Gianluca Padovan si apre con ’24 maggio 1915. Il Piave mormorava… ma nessuno diceva la verità’ mi sento deputato ad entrare a gamba tesa (e già, qui, quel residuo di professore di filosofia che è in me, ruggisce ricordando come Nietzsche abbia posto una pietra tombale sul principio di verità e il mio nichilismo, esistenziale, s’offende quando legge o ascolta pronunciare simile ‘bestemmia’). Inoltre provengo da famiglia d’origine piemontese, di Torino, con mio nonno che si mosse verso Roma – con tappa a Firenze in attesa di Porta Pia e, nel frattempo, prese moglie – per insediarsi in via Piave, non lontano dal Ministero del Tesoro dove era funzionario. E da interventista, monarchico (dopo quanto avvenne nel ’43 io ‘repubblichino’ pur per due soli giorni a lui perdono ai Savoia mai!), alla dichiarazione di guerra investì tutto il patrimonio in Buoni del Tesoro per essere in qualche modo partecipe… vedendoli dissolversi, al termine del conflitto, in carta straccia. Mio padre, allora ragazzino di dieci anni, aveva il compito di appuntare le bandierine colorate sulla carta geografica, ove si svolgevano le operazioni belliche tramite i bollettini trasmessi via radio, appesa in cucina ché la camera da pranzo era riservata per le grandi occasioni e in presenza di ospiti. Ricordi questi che vi lasciarono traccia indelebile e lo formarono nell’interesse verso la storia e il Risorgimento in particolare, coadiuvato da memoria eccezionale e fame di letture.
‘Per amor di polemica…’ – s’è scritto per attirare il lettore. Una sorta di provocazione (e chi, meglio di me, sa quanto il termine pesi…), in un’area dove il Piave continua a mormorare con i suoi ‘caimani’, gli arditi con il ‘pugnal fra i denti, le bombe a mano’, i simboli e l’ardimento che saranno raccolti dai legionari di Fiume prima, dagli squadristi poi. Mi raccontava Adriano Bolzoni, autore di soggetti cinematografici – suo il primo film su ‘Che’ Guevara – e di bei libri – ad esempio, La guerra dei neri –, estroso, puttaniere, gran bevitore, già corrispondente di guerra nella RSI alle dirette dipendenze del Maresciallo Graziani come, durante la ritirata di Caporetto, un reparto di alpini restasse accerchiato dal nemico. E come il tenente si adoperasse a spronare i suoi uomini a resistere, assicurando loro che presto sarebbero accorsi i rinforzi. ‘Mona ch’il crede, ma boia chi molla!’, ebbe a rispondere per tutti uno degli alpini…E chi avrebbe immaginato come esso sarebbe risuonato quale grido di battaglia in una città del Sud, episodio di una rivolta unica nel suo genere nazional-popolare?
Una provocazione, certo, il gusto della polemica, una sfida forse. E’, però, oggi di minor presa con il tanto troppo revisionismo su tutto e di tutto. Si pensi al recupero del fenomeno del brigantaggio – l’amico documentarista Sergio Tau sta curando da anni una ricerca sul generale Borges, lo sbarco nell’Italia meridionale per mettersi a fianco di Carmine Crocco e degli altri capi delle bande filo-borboniche, della tragica fine nei pressi di Tolentino – e del Regno delle Due Sicilie. Nello specifico, affermare che il socialismo, attraverso l’Internazionale, fosse contrario alla guerra e si predisponesse a farne un’altra, non tiene conto dei contrasti al suo interno, di quel patto di solidarietà con lo stato borghese, ‘l’unione sacra’, dimostrando come il sentimento verso il proprio paese fosse prioritario rispetto a quella unità di popoli oppressi senza barriere né confini. Affermava Lenin: ‘Né guerra né pace, ma rivoluzione’ – è un’altra guerra? Sì, se la s’intende, però, capace di andare oltre le forme tradizionali di un conflitto fra eserciti regolari.
Di Mussolini c’è ben poco da dire. Nel 1903, in Svizzera, egli non poteva essere comunista – come non lo era Lenin con cui condivideva l’esilio – se al termine si dà quale eco della rivoluzione bolscevica e, sul suo essere un massone, nulla ne so e non mi pronuncio. Delle simpatie espresse nei suoi confronti dal generale Fiorenzo Bava Beccaris come sopra. Va da sé che i moti di Milano del 1898, repressi a cannonate, degli elogi e onorificenze ricevute dal sovrano, i libri di storia ne danno giusto risalto (con questa data Pietro Valpreda aveva aperto un pub a Milano, in corso Garibaldi, dove trascorsi una serata a cena suo ospite e gettando nello sconcerto gli avventori, tutti provenienti dall’area antagonista e libertaria). Che quei moti ebbero inizio in Sicilia rimanda alle vicende della Grande Guerra, appunto a quel Piave che mormorava, all’Italietta giolittiana, impreparata in armamenti e consapevolezza, tanto che le masse contadine partirono con la rassegnazione tipica del Meridione, più timorosi di trovarsi i carabinieri nelle retrovie che gli austriaci nelle trincee avverse, come ebbe a dire lo stesso generale Cadorna. Sì, furono carne da macello e partirono senza neppure sapere cosa fossero Trento e Trieste, ma molti di loro, di quelli che tornarono, avevano un’altra parola con cui confrontarsi, l’Italia… Se, poi, il tanto sangue versato compensasse la Patria in armi, beh, questa è questione che lascio al ‘buongusto’ di ciascuno di noi…
Inoltre citare il libro di ricordi Trincee di Carlo Salsa, come per i francesi il più noto Il fuoco di Henri Barbusse o per i tedeschi il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque ha il medesimo valore, come in un gioco di specchi, di un libro quale Tempeste d’acciaio di Ernst Juenger che tanto rimase impresso in Hitler che, di suo pugno, volle cancellarne il nome dalla lista dei congiurati dell’attentato del 20 luglio e che sarebbero stati condannati a morte, molti di loro con il filo d’acciaio del pianoforte o appesi al gancio del macellaio. Io, confesso, approvo quel colpo di penna e non soltanto per solidarietà con ‘le belle lettere’…
Lo spazio deputato alla storia, per citare Giuseppe Renzi, è retto dal caso e e dalla ripetizione, insomma La filosofia dell’assurdo; per Edgar Morin, appartiene alla complessità dove ognuno vi colloca e mette in atto il gioco dello svelamento e dell’ottenebramento. Sempre a posteriori la storiografia con i suoi giudizi le sue valutazioni – in fondo è come sparare sulla Croce Rossa, senza gusto senza rischio. Gli uomini sono nel tempo e determinati dalle circostanze, carne ossa sangue, ed emozioni e idee e bisogni e sogni illusioni inganni, alcuni capaci di ergersi tra le rovine altri dalle medesime schiacciati. Ed anche qui è una questione di buongusto – ero tentato ad usare il termine ‘stile’, ma forse troppo alto ed altro –. Come diceva Langrì ‘due uomini guardano dalle sbarre della medesima cella, l’uno vede le stelle l’altro il fango’…
Mario M. Merlino
Mario M. Merlino
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