Capita sempre più spesso che alcuni studiosi e intellettuali siano accusati di ‘negazionismo’. Non si tratta però del rifiorire di una storiografia eterodossa riguardo al cosiddetto Olocausto. Oggi tale termine è passato a denotare un presunto atteggiamento antiscientifico. L’epiteto pare tuttavia incongruo, dato che nella categoria dei ‘negazionisti’ sono inclusi scienziati anche illustri, a volte premi Nobel. Pare che ad accomunarli non sia quindi l’incompetenza scientifica ma il loro dissenso su alcune tesi proposte da altri scienziati. Per chi come me credeva che il diritto al libero esame, al dubbio, alla critica, fosse garanzia di una scienza vitale e sempre in evoluzione, è difficile capire come si possa definire antiscientifico chi lo esercita. Bisogna anche sottolineare il fatto che le cosiddette tesi ‘negazioniste’ manifestano una significativa coesione. Non rappresentano tante posizioni diverse ed eccentriche ma un’opposizione unitaria, condivisa da migliaia di studiosi, circa l’interpretazione ufficiale di specifici fenomeni. Potremmo definirla semmai una scienza ‘minoritaria’, dato che i suoi esponenti formano una minoranza all’interno della comunità scientifica. Personalmente ritengo che le minoranze siano il lievito della storia, perché certe virtù morali e intellettuali sono rare, e sicuramente una massa di cretini non può esprimere un pensiero più valido, più logico, di quello espresso da una minoranza di intelligenti. Una persona d’ingegno, da sola, può risolvere un problema che mille persone meno perspicaci, anche sommando e combinando i loro sforzi, neppure capiscono. Questo non implica che la scienza maggioritaria sia un prodotto della stupidità, ma che le sue tesi non sono a priori le più affidabili. Tale affidabilità non può prescindere per altro dalla considerazione di un’etica della scienza, ovvero dal capire in quale misura la ricerca scientifica si ponga al servizio della verità o di altri interessi, problema che si è vieppiù aggravato col suo dipendere dal capitale che la sostiene e la finanzia.
Vorrei concludere questa premessa con un dubbio filologico. Perché ‘negazionisti’ e non negatori? Se guardiamo al naturale comportamento della nostra lingua, abbiamo motivo di restar perplessi. Infatti, da promozione viene promotore, non promozionista, da elezione elettore e non elezionista. Così, operazione dà operatore, delazione delatore, fondazione fondatore, moderazione moderatore, navigazione navigatore ecc. Dunque perché negazionista? Io mi son dato due possibili risposte. Una è basata sulla differenza che corre tra attore e azionista. Il primo compie un’azione, il secondo compra delle azioni. ‘Negazionista’ farebbe allora riferimento a un ambito di transazioni finanziarie. Sarebbe cioè colui che impedisce o disturba uno scambio di azioni intese come titoli, quote di proprietà, valori mobiliari. In alternativa si può pensare che ‘negazionismo scientifico’ sia un’espressione scelta per il suo potere suggestivo, ossia per l’immediato richiamo al negazionismo storico, alla Shoah e a quelli che osano dubitarne. Su tale negazionismo la nostra società ha da tempo espresso unanime condanna, una severissima riprovazione morale, fino a considerarlo un crimine penalmente perseguibile. È perciò plausibile che, trasferendo lo stesso termine in un contesto scientifico, si voglia indurre un’analoga censura, di natura psicologica, etica e giuridica, nei confronti di alcuni scienziati dissidenti. Se dunque la parola ‘negazionista’ ha come scopo di evocare sinistre figure del passato, sedimentate nell’immaginario collettive e colpite dalla damnatio memoriae, quelli che ne fanno uso potrebbero venir definiti ‘evocazionisti’.
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Atticciato, sulla sessantina, ben vestito. Comincia col dirmi che la cosa è molto semplice e che la colpa di certa gente è di complicarla senza ragione. A malincuore ripongo il libro che stavo leggendo. Vorrebbe sapere la mia opinione.
“Non ne ho”.
“Lei è agnostico?” mi chiede.
Gli rispondo che semmai sono scettico, ma per lui è lo stesso. Il treno si ferma. Si alza e abbassa il finestrino. Si lamenta del caldo, arrivato all’improvviso.
“Siamo a fine maggio” osservo molto banalmente. “ È normale”.
Scuote la testa. “A me sembra un caldo anomalo. Sarà il riscaldamento globale” dice. Si siede e mi fissa con i suoi occhi sporgenti. Immagino aspetti di sapere cosa ne penso.
“Gliel’ho detto. Sono scettico”.
Si piega verso di me e la sua voce si fa quasi bisbigliante, come volesse confidarmi un segreto. “Le confesso. Quest’anno, per la prima volta, ho acceso la stufa a maggio. Di sera sentivo freddo”. Poi si raddrizza e riprende il suo tono normale. “Ci sarà una spiegazione. Io non sono un negazionista, mi fido degli esperti. Se vedo piovere ma il meteo dice che c’è il sole, esco senza ombrello. Preferisco credere alla scienza che alle mie impressioni”. Sorride. Non capisco se scherza.
“Io preferisco credere a quello che vedo”. Sorrido anch’io.
“Lei dirà che non dovevo accendere la stufa. Lo so che c’è lo scioglimento dei ghiacciai, il cambiamento climatico. Infatti un po’ mi vergogno, mi rimorde la coscienza”. Sembra sincero. O è ironico? Gli dico che i suoi sensi di colpa mi sembrano esagerati. Lo osservo. No, è decisamente contrito.
“Non cerco scuse. Lo so, per i negazionisti è colpa del Sole o della Luna. L’uomo non c’entra. Troppo comodo! Io preferisco dar retta alla scienza, quella vera”.
“È un argomento complicato”, commento un po’ svogliatamente, mentre cerco di riprendere la lettura del mio libro. Lui non desiste.
“Lei ha competenze scientifiche?” chiede. Ammetto di non averne. Ne sembra rassicurato. “Per me è semplice” riprende. “Il clima cambia. Lei dirà: va bene, ma le cause? Io ho pensato: quand’ero bambino non c’erano questi problemi. Eppure il Sole c’era anche allora, la natura era sempre quella”.
“Dunque?”
“Dunque vuol dire che siamo stati noi a cambiare qualcosa, che è colpa nostra”.
“Può essere, magari in minima parte”. Mi guarda come se avessi detto una bestemmia. “Allora lei pensa che non dobbiamo ridurre la CO2?”
“Penso dipenda più da fatti naturali, da certi fenomeni astronomici o geologici. E poi, se anche il clima si va scaldando un po’, è già successo tante volte e ce la siamo sempre cavata. Anzi, dicono che le grandi civiltà fioriscono durante le ere più calde”.
“Questi sono i discorsi dei negazionisti” bofonchia “quelli che travisano i dati”.
“Ma che motivo avrebbero? Ci rimettono soltanto”.
“Forse sono dei folli, o trovano gusto a negare quello che dicono gli altri”.
“Come Mefistofele: «son lo spirito che nega»”. Mi guarda perplesso. “Il diavolo”, preciso.
“Sì, anche per me hanno qualcosa di malvagio”.
Accantono nuovamente il mio libro, rassegnato a quel contraddittorio. “Ma allora perché gli altri, quelli che secondo lei sono i bravi scienziati, non rispondono alle obiezioni degli scienziati ‘cattivi’, non accettano un confronto pubblico?”
Solleva le sopracciglia, guardando il vuoto. “Secondo me non farebbe che confondere la gente, quelli come lei e me, che non possono capire le discussioni scientifiche. Dobbiamo farci guidare da chi sa, fare quello che dice la scienza. Anche i genitori ogni tanto devono dire: è così perché lo dico io”.
“Ma non siamo bambini” contesto. “Gli scienziati non sono dei genitori cui obbedire. Devono solo tentare di spiegarci le cose. E noi dobbiamo tentare di capirle”.
“Non si tratta di comportarsi come bambini, ma di essere più maturi, più responsabili. Invece ci sono quelli che non vogliono credere agli esperti, che vogliono decidere di testa loro”.
“Quindi non siamo liberi di indagare, di farci una nostra idea?”
“Per certe cose sì, per altre no. Il problema è se il negazionismo ci porta a fare delle scelte sbagliate, che poi provocano conseguenze gravissime per tutti. Così, alla fine, diventa un crimine”.
“Allora lei troverebbe giusto punire penalmente questi cosiddetti negazionisti?”
“Senta, ho letto anni fa di uno scrittore processato e condannato a tre anni di galera per aver messo in dubbio la storia l’Olocausto. E anche quel tizio pretendeva di avere delle prove, dei dati eccetera. Secondo me dovremmo comportarci allo stesso modo con i negazionisti climatici”.
“Ma sono scienziati che esprimono il loro pensiero, e spesso sono molto qualificati per farlo”.
“Per me sono come gli untori. Sa quelli che infettavano la gente?”
“Però potrebbero anche avere delle ragioni valide per negare certe teorie. Per esempio, se un tale volesse farle dire che i corvi sono bianchi, lei non si rifiuterebbe?”
Si ferma un attimo a riflettere, sfregandosi gli occhi. “Dipende. Metta che quel tale sia un energumeno e minacci di malmenarmi se non gli do ragione”.
“In effetti, è quello che spesso succede”, ammetto.
“O che mi offra del denaro purché io dica che i corvi sono bianchi”.
“Anche questo succede spesso”. Sono sorpreso. Sono gli stessi argomenti che intendevo usare io per mettere in sospetto la moralità di certi scienziati.
“Questo è un problema di coscienza. Ma quanti sarebbero così nobili da rifiutare del denaro per il colore di un uccello?” E mi lancia uno sguardo d’intesa, come se dovessi convenire con lui sulla corruttibilità naturale dell’uomo. “E poi mettiamo che quel tale sia un corvologo, uno che sicuramente ne sa più di me”.
“Ma lei non è mica cieco. Lo vede anche lei che i corvi sono neri”.
“I miei occhi potrebbero anche sbagliare. Che ne so?”
“E se ci fossero altri esperti che non sono d’accordo e negano che i corvi sono bianchi?”
“Beh, ma se la maggioranza dei corvologi dice che i corvi sono bianchi…”.
“Dunque, secondo lei è un crimine negare quello che afferma una maggioranza?”
“Dipende dai casi. Se ci sono emergenze sanitarie o climatiche, come adesso, non possiamo mettere sempre in discussione tutto, perder tempo ad ascoltare tutte le obiezioni e le critiche”.
“Ma così si uccide la scienza”.
“E allora facciamo morire la gente?”, esclama con tono accusatore, come se io volessi la distruzione della specie umana.
“Non è questo il punto. Lei dice che qualcosa è vero perché quelli che dicono il contrario sono una minoranza. Per me invece bisogna considerare la coerenza, la logica di un argomento, delle sue premesse e delle sue conclusioni”.
“Così andiamo avanti per anni a discutere senza metterci mai d’accordo. Oggi invece bisogna decidere in fretta e agire”.
“Ma per agire nel modo giusto bisogna prima analizzare bene il problema”.
“Sì, ma quando ci sono delle emergenze non c’è tanto tempo per decidere. E poi ci sono anche ragioni pratiche per prendere certe decisioni”.
“Quali ragioni?”
“Che so? La salute, l’ordine pubblico, il bene comune. Se uno, durante la rivoluzione francese, metteva in giro tesi monarchiche, veniva ghigliottinato. In Russia i dissidenti li mandavano in Siberia. E guardi cosa faceva la Chiesa con gli eretici”.
“Allora anche la scienza dovrebbe ricorrere alle scomuniche e agli anatemi?”
“No, ma ci devono essere delle regole. Non bisogna dare troppa libertà. Le faccio un esempio. Ci sono i vaccini. Non possiamo cominciare a dire: sì, no, ma, però, e intanto la gente muore. I vaccini fanno bene. Punto. Se tutti fossero liberi di dubitare di tutto, ci sarebbe il caos”.
“La libertà di pensiero non le piace, ho capito. Quindi, cosa facciamo? Torniamo all’Inquisizione, ai Comitati di Salute Pubblica?”
“Senta, io difendo la nostra democrazia, che è l’unica garanzia di libertà. E in democrazia gli interessi dei cittadini sono tutelati da libere votazioni. Quindi, cosa facciamo? dice lei. È semplice. Se cinquantuno scienziati su cento dicono che la Terra è quadrata, dobbiamo crederci”.
“E se l’establishment scientifico fosse inquinato da pressioni economiche?”.
“Questo lo dicono i complottisti, ma sono fantasie. Certo, girano i soldi, ma sia realista. Niente soldi, niente ricerca, niente scienza”.
“Insomma, dobbiamo accettare una tesi scientifica non perché è vera ma secondo il numero di quelli che la sostengono”.
“Certo. Più sono quelli che la sostengono più aumenta la probabilità che sia vera, o no?”
“No, non è detto”.
“Ma io ho detto solo più probabile. Ci sono le statistiche. Le teorie sono tutte discutibili. Uno dice una cosa, uno ne dice un’altra. Se aspettiamo che trovino un accordo il mondo va in malora. Io dico allora che l’unico modo per uscirne è affidarsi alla maggioranza”.
“Secondo lei allora potremmo risolvere i problemi scientifici con un referendum”.
“Con un semplice conto, sì. Chi pensa che il cambiamento climatico sia colpa dell’uomo, alzi la mano. Poi si chiede chi lo nega. Favorevoli, contrari, astenuti. Se i favorevoli sono in maggioranza non si discute più, basta. Quella è la verità, anche se dice che al Polo Nord crescono gli alberi di cocco”. Comincia a inquietarsi, a farsi vermiglio. “Deve essere obbligatorio crederci, bisogna stamparlo nel cervello della gente”. Il tono non ammette repliche. “Se vogliamo salvare il mondo dobbiamo fare così”.
“Lei ragiona come Goebbels. Basta ripetere una cosa tante volte perché diventi vera. Ma così facciamo anche della scienza una forma di propaganda. Una dittatura”.
“Non c’è nessuna dittatura. Io voglio solo esser libero di sopravvivere, con i miei figli e i miei nipoti. La CO2 aumenta e questa gente cosa dice? Non c’è nessun problema, è normale, va bene così. Sa cosa le dico? Ai negazionisti, quelli di prima che hanno votato contro, io gli taglierei la mano. Così!”. E simula con una mano la lama che cade sul polso dell’altra.
“Niente meno!” esclamo, impressionato da quella dimostrazione di draconiana severità. “Come facevano coi ladri nei Paesi islamici”.
“Esatto. Gli resta comunque l’altra mano e la prossima volta la useranno meglio. Ci penseranno due volte prima di negare”. Dopo aver goduto del feroce supplizio, sembra rilassarsi. “Non mi fraintenda, io detesto la violenza. Ma credo che se c’è un’emergenza grave è un po’ come essere in guerra”.
“L’emergenza, sempre l’emergenza” sbotto io. “Ma chi ci dice che è una vera emergenza, o da che cosa veramente dipende, o cosa veramente si può o si deve fare?”
“Appunto. Ce lo dice la scienza” fa lui, serafico.
“Va bene” mi arrendo “lo dice la scienza. Tuttavia, io credo sia incoerente parlare tanto di libertà e poi essere tanto intolleranti”.
“Ma la libertà più importante è quella di vivere, no? Allora abbiamo il dovere di difendere la vita nostra e degli altri. Anche dai negazionisti”.
“E se invece avessero ragione?”
“È anche lei è un negazionista?”. Mi scruta severo.
“Vorrei solo vivere in un Paese dove la gente può dire quello che pensa”.
“Ma i negazionisti sono liberi di dire quello che vogliono. Però poi devono assumersi le loro responsabilità. Da noi non c’è la censura. Il nostro è ancora un Paese libero, non lo può negare”.
“Ha ragione” sospiro stancamente. “Come non posso negare che la storia sia andata in un certo modo, negare che i vaccini ci salvino la vita, negare che il clima cambi per colpa nostra, che la Nato lavori per la pace, che Putin sia un mostro e così via. Non posso negarlo come non posso mentire, non posso rubare, non posso uccidere. Oggi negare certe cose è un peccato, un delitto. «Non negare» è per noi un nuovo comandamento”.
Mi aspetto un nuovo assalto. Invece, stranamente, sembra approvare questa mia accorata perorazione. “È proprio così” annuisce. “E mi fa piacere vedere che siamo d’accordo, che almeno su queste cose lei non è scettico”. Glielo lascio credere, e riprendo a leggere il mio libro.
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